Sentenza Cassazione civile, sez. I, 14-07-1997, n. 6349 - Pres. Cantillo - Rel. Marziale

Fusione per incorporazione di società per azioni in società cooperativa.

Svolgimento del processo - 1 - Con atto notificato il 21-7-1992 le società "A. spa" e "R.S. srl" convenivano in giudizio, innanzi al Tribunale di Busto Arsizio, la "Banca Industriale G. spa" e, premesso di essere socie di tale società, esponevano:

- che con delibera adottata l'8-6-1992 con il loro voto contrario (e, quindi, a maggioranza) i soci della "Banca Industriale..." avevano deliberato di fondersi, per incorporazione, nella Banca Popolare... - società cooperativa a responsabilità limitata (d'ora innanzi, Banca);

- che tale delibera era da ritenersi invalida, sia perché presa con il voto determinante della società incorporante (socia di maggioranza) della Banca Industriale..., e quindi in conflitto d'interessi; sia perché le rilevanti differenze, di carattere strutturale e funzionale, tra le società di capitali e quelle mutualistiche portavano ad escludere che le prime potessero, specie se a maggioranza, deliberare la propria trasformazione o la propria fusione in una società del secondo tipo; sia perché, infine, l'art. 1, primo comma, del DLgs 20-11-1990, n. 356, nel disciplinare la trasformazione e la fusione enti creditizi di natura diversa, aveva posto il principio che da tali operazioni dovessero in ogni caso risultare "società per azioni operanti nel settore del credito", così escludendo l'ammissibilità dell'incorporazione di un'azienda di credito organizzata come spa in una diversa azienda di credito in forma di cooperativa.

Tanto premesso, le attrici domandavano che la delibera impugnata fosse dichiarata nulla o comunque annullata, chiedendo contestualmente che la sua esecuzione fosse sospesa.

1.1 - L'istanza di sospensione veniva respinta il 14-10-1992.

Il 28-10-1992, all'udienza fissata per la prima comparizione delle parti, interveniva in giudizio la Banca Popolare... (d'ora innanzi: Banca), facendo presente che il procedimento di fusione si era concluso il 19-8-1992 con la stipula dell'atto di fusione e che, pertanto, ogni declaratoria di invalidità della delibera di fusione doveva ritenersi ormai preclusa, in considerazione di quanto stabilito dall'art. 2504 quater CC

Le società attrici replicavano chiedendo, in via subordinata, la condanna della convenuta al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio.

Quindi il Tribunale, con sentenza depositata il 26-11-1992, dichiarava ammissibile la domanda risarcitoria proposta dalle attrici, ma la rigettava, ritenendola infondata, insieme all'altra (diretta ad ottenere l'invalidazione della delibera impugnata) avanzata dalle stesse parti in via principale. Con la stessa decisione veniva respinta, altresì la domanda, formulata dalla convenuta, di condanna delle attrici al risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 96 CPC Il pagamento delle spese di causa era posto integralmente a carico delle società attrici, che venivano condannate in solido al pagamento della somma di L. 184.931.000, di cui L. 150.000.000 per onorari.

1.2 - La sentenza, depositata il 26-11-1992, era appellata dalle società A. e R.S. (che si dolevano per il mancato accoglimento delle domande formulate nella precedente fase di giudizio e della liquidazione delle spese di giudizio, effettuata, a loro dire, secondo parametri sproporzionati rispetto alla natura e al valore della causa) e, in via incidentale, della Banca, che censurava la sentenza impugnata per non aver dichiarato inammissibile, così come era stato tempestivamente eccepito, la domanda risarcitoria introdotta dalle attrici solo in corso di causa.

La Corte territoriale, con sentenza depositata il 15-7-1994, accoglieva l'appello proposto dalle società A. e R.S. solo relativamente alla determinazione delle spese di causa, riducendo l'ammontare degli onorari a L. 50.000.000. Le censure concernenti la reiezione delle domande formulate dalle stesse parti nel precedente grado di giudizio venivano pertanto respinte, al pari dei dubbi, reiterati dalla Banca circa l'ammissibilità della domanda risarcitoria.

1.3 - Le società A. e R.S. chiedono la cassazione della sentenza impugnata con tre motivi, al cui accoglimento la Banca resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione - 2 - Con i primi due motivi, che essendo tra loro connessi possono essere congiuntamente esaminati, le società ricorrenti - denunziando vizio di motivazione e "violazione per preterizione" delle norme di legge (segnatamente: art. 1, legge 30-7-1990, n. 218, artt. 1 e 5 DLgs 20-11-1990, n. 356; art. 41, DLgs 14-12-1992 n. 481; art. 31, DLgs 1-9-1993, n. 385) che "impongono" la forma della società per azioni nelle fusioni eterogenee e del più generale principio che vieta la fusione tra le società di capitali e società cooperative - censurano la sentenza impugnata per aver affermato la legittimità della delibera assembleare con la quale, l'8-6-1992, i soci della società Banca Industriale... spa decisero - a maggioranza - l'incorporazione di detta società nella società cooperativa a r.l. Banca Popolare..., trascurando di considerare che nel nostro ordinamento:

- è vietata la fusione di società lucrative in società mutualistiche, tra le quali vanno annoverate le banche popolari;

- che, in ogni caso, l'art. 1 della legge 30-7-1990, n. 218, e l'art. 1 del DLgs 30-11-1990, n. 282, già in vigore nel momento in cui la delibera impugnata è stata emanata, avrebbero consacrato, come regola generale, quella secondo cui dalla fusione tra enti bancari non omogenei nelle rispettive strutture deve in ogni caso risultare una società per azioni operante nel settore del credito.

3 - Le censure, per ciò che concerne il primo profilo, sono formulate in termini alquanto generici, ma tuttavia sufficienti ad individuare il principio di diritto che si assume violato e, quindi, la loro portata effettiva. Contrariamente a quel che assume la difesa della resistente deve quindi escludersi che esse siano inammissibili.

Tali doglianze sono peraltro infondate.

Invero, come è stato posto in evidenza nella sentenza impugnata, il divieto sancito dall'art. 14 della legge 17-2-1971, n. 127, concerne solo la trasformazione (e la fusione) delle società cooperative in società "ordinarie" e non anche l'ipotesi inversa. Infatti la sua ragione ispiratrice è da ricercare nell'intento di prevenire possibili forme fraudolente di accesso ai benefici previsti per l'esercizio di attività mutualistiche da parte di chi, dopo averli conseguiti, voglia destinarli ad un'attività lucrativa.

Da tale disposizione non può quindi trarsi in argomento per dubitare dell'incorporazione di una società ordinaria in una cooperativa, sempre che i soci della prima abbiano i requisiti soggettivi richiesti e che la loro partecipazione di capitale rientri nei limiti consentiti dall'art. 2521 CC

A ciò si aggiunga che le banche popolari, pur essendo qualificate come società cooperative (art. 1, DLgs 10-2-1948, n. 105), erano (e sono) totalmente sottratte alle norme riguardanti lo svolgimento dell'attività mutualistica (art. 3, DLgs n. 105/48; art. 1, DLgs 16-4-1948, n. 569; art. 21, legge 31-1-1992, n. 59) ed assoggettate, invece, alle disposizioni dettate per l'esercizio dell'attività creditizia (art. 3, DLgs n. 105/48; art. 21, legge, n. 59/92). Appunto per questo, si riteneva che esse fossero escluse dalle agevolazioni previste per l'esercizio di tale attività (Cass. 26-11-1985, n. 5887), seguendo un orientamento già manifestato dal legislatore in sede di conversione in legge del RDL 12-3-1936, n. 375, sull'ordinamento del credito (Relazione della Giunta Generale per il Bilancio, Camera dei Deputati, Leg. XXIX, Atto n. 1137-A). E tale circostanza, già prima dell'entrata in vigore del DLgs 14-12-1992, n. 481 (il cui art. 41, poi recepito dall'art. 31 del nuovo TU in materia bancaria e creditizia, ha espressamente accordato alle banche popolari la possibilità di trasformarsi in società per azioni), faceva apparire non priva di fondamento l'opinione che il divieto specificamente sancito dall'art. 14 della legge n. 127/71 non fosse applicabile a tali società, che della cooperativa hanno l'apparenza, ma non anche la "sostanza".

3.1 - Non meno infondate sono le doglianze prospettate sotto l'altro profilo.

Le ricorrenti assumono che l'art. 1, primo comma, della legge 30-7-1990, n. 218 e l'art. 1, primo comma, DLgs 20-11-1990, n. 356 - stabilendo che, non solo "gli enti creditizi pubblici", iscritti nell'albo previsto dall'art. 29 del RD 12-3-1936, n. 375 (c.d. legge bancaria), ma anche le Casse comunali di credito agrario e i Monti di credito su pegno di seconda categoria che non raccolgono risparmio tra il pubblico "possono effettuare trasformazioni con altri enti creditizi di qualsiasi natura, da cui, anche a seguito di successive trasformazioni o conferimenti, risultino comunque società per azioni operanti nel settore del credito" - abbiano, implicitamente ma inequivocabilmente, inteso affermare il principio che la trasformazione e la fusione tra enti creditizi di natura diversa, pubblica o privata, è legittima solo se da esse risultino società per azioni operanti nel settore del credito. Come sarebbe confermato dall'art. 41, secondo comma, del DLgs 14-12-1992, n. 481 (successivamente riprodotto dall'art. 31, primo comma del DLgs 1-9-1993, n. 385, recante il nuovo TU delle leggi in materia bancaria e creditizia) che ribadirebbe tale principio con specifico riferimento proprio alle banche popolari.

Di qui la conclusione dell'illegittimità della delibera con la quale, l'8-6-1992, i soci della spa Banca Industriale... hanno approvato, a maggioranza, la fusione per incorporazione di tale società nella società cooperativa a r.l. Banca Popolare..., essendo essa finalizzata a determinare l'estinzione della società azionaria e il suo assorbimento in quella mutualistica.

3.2 - E', invero, agevole replicare - in primo luogo - che la verifica della legittimità (e, quindi, della validità) della delibera impugnata deve essere effettuata con riferimento alle norme vigenti nel momento in cui è stata adottata (8-6-1992) e che, pertanto, non possono a tal fine assumere rilievo disposizioni emanate in epoca successiva, come quelle contenute nel DLgs 14-12-1992, n. 481 e nel DLgs 1-9-1993, n. 385 (Cass. 21-2-1995, n. 1877; 13-1-1996, n. 226).

Ciò posto, si osserva che non è revocabile in dubbio che lo scopo specifico della legge 30-7-1990, n. 218 e del DLgs 20-11-1990, n. 356, ad esso intimamente collegato, sia quello di pervenire alla ristrutturazione e alla riorganizzazione degli enti creditizi di diritto pubblico, mediante l'adozione di un modulo organizzativo (quello della società per azioni) ritenuto più idoneo a reggere l'impatto della intensificata concorrenza internazionale determinata dal riconoscimento della libertà di stabilimento e della libertà di prestazione dei servizi nell'ambito del mercato comune. E che, conseguentemente, l'ambito di applicazione dell'art. 1 della legge n. 218/90 e del DLgs n. 356/90 - nel quale sono indicati i soggetti interessati dalle operazioni di ristrutturazione (trasformazioni, fusioni o conferimenti) prese a tal fine in considerazione dal legislatore - sono esclusivamente gli enti creditizi pubblici.

Ciò risulta in modo evidente dai lavori preparatori della legge n. 218/90, dal cui esame si ricava che le modificazioni apportate alla formulazione originaria del primo comma di detta disposizione (che non conteneva alcun riferimento alle "Casse comunali di credito agrario" e ai "Monti di credito su pegno di seconda categoria che non raccolgono risparmio tra il pubblico") furono apportate proprio al fine di renderla applicabile a tutti gli enti creditizi pubblici, nessuno escluso (Relazione della VI Commissione permanente, Camera dei Deputati, Atto Camera n. 3124-A del 22-2-1990).

3.3 - L'opposta opinione manifestata in proposito dalle ricorrenti muove dal duplice convincimento:

- che le Casse comunali di credito agrario si identifichino con le Casse rurali ed agrarie menzionate all'art. 5, lett. f), del RDL 12-3-1936, n. 375, la cui natura privata, trattandosi di società cooperative (art. 1, RD 26-8-1937, n. 1706), è sempre stata fuori discussione;

- che l'art. 5 del DLgs n. 356/90, legittimando "gli enti... con fondo di dotazione a composizione associativa" a partecipare ad operazioni di fusione (con una formulazione analoga a quella utilizzata dall'art. 4 dello stesso decreto in relazione alle trasformazioni), si riferisca (anche) alle banche popolari che, non diversamente dalle casse rurali ed artigiane, sono società cooperative.

Tali convincimenti sono però palesemente errati.

Le Casse comunali di credito agrario (non più operanti a partire dal 1-1-1996: art. 152, primo comma, DLgs 385/93) erano infatti nettamente distinte dalle Casse rurali ed artigiane, la cui denominazione è stata modificata dall'art. 42, secondo comma, DLgs n. 481/92 in quella di "Cassa di credito cooperativo" e, dall'art. 33 del vigente TU, in quella di "Banca di credito cooperativo". A differenza di queste ultime, esse infatti non raccoglievano risparmio tra il pubblico (e, appunto per questo, non erano menzionate nell'art. 5 della legge bancaria del 1936), erano "erette in ente morale con regio decreto promosso dal Comitato interministeriale per il credito e il risparmio" (art. 13, primo comma, RDL 29-7-1927, n. 1509) ed erano, inoltre, amministrate da consigli composti da membri nominati dalla Banca d'Italia e dal sindaco del comune (art. 28, RD 23-1-1928, il quale faceva tuttavia salva l'ipotesi che la concessione dei prestiti agli agricoltori fosse subordinata alla loro iscrizione tra i soci di tali enti, prevedendo che, in tal caso, la nomina di due consiglieri sarebbe stata demandata anziché al sindaco, all'assemblea degli agricoltori iscritti). E questo spiega perché, secondo l'opinione prevalente (che, per quanto si è detto, il legislatore, nell'emanare la legge n. 218/90, ha mostrato di condividere) esse avessero natura pubblica.

Non meno errata è l'affermazione che la menzione degli "enti... aventi il fondo di dotazione a composizione associativa", contenuta nell'art. 5 (e l'art. 4) del DLgs n. 356/90, riguardi le banche popolari e le altre aziende di credito a struttura societaria. E' noto, infatti, che il fondo di dotazione di alcuni enti pubblici creditizi, come ad esempio la Banca Nazionale del Lavoro, era suddiviso in quote possedute da una serie di soggetti, a differenza di altri, come le Casse di Risparmio, che mantenevano la struttura di una fondazione anche quando erano istituiti da più soggetti in quanto essi, pur assumendo la qualifica di socio, non divenivano titolari di alcuna quota del patrimonio: proprio a tali enti si riferiscono le disposizioni sopra richiamate, e la loro ragion d'essere - come viene chiarito nella Relazione illustrativa - va ravvisata nella considerazione che "ad una diretta assegnazione delle azioni delle costituende spa" può procedersi solo "in presenza di una struttura lato sensu partecipativa già esistente" e, quindi, solo in relazione ad enti "con fondo di dotazione a composizione associativa".

Appare quindi evidente che le censure mosse con i primi due motivi alla sentenza impugnata (nella quale sono esposte in modo chiaro e coerente le ragioni poste a fondamento della decisione adottata, la cui motivazione sfugge, conseguentemente, ai rilievi delle ricorrenti, che oltretutto non appaiono formulate in modo sufficientemente specifico) sono totalmente infondate. Nè, per giungere ad una diversa conclusione varrebbe osservare che nel DLgs n. 356/90 sono contenute disposizioni (segnatamente quelle contenute nel titolo IV), riguardanti la disciplina di società private, posto che si tratta di norme dirette a regolare le situazioni derivanti dall'esecuzione delle operazioni di ristrutturazione degli enti pubblici indicate nell'art. 1 dello stesso decreto, finalizzate alla riorganizzazione dell'azienda di credito nelle forme di una società per azioni, e non quelle preesistenti alla loro realizzazione.

Resta così confermata, anche sotto tale ulteriore profilo, l'infondatezza delle doglianze prospettate con i primi due motivi di ricorso.

4 - A non diverse conclusioni deve giungersi per il terzo motivo, con il quale viene mosso alla decisione della Corte territoriale il rilievo di aver commisurato il valore della causa, ai fini della liquidazione delle spese, all'ammontare del patrimonio netto della società incorporata (L. 60.867.389.500). Secondo le ricorrenti esso avrebbe dovuto, invece, essere considerato indeterminabile, dal momento che, essendo divenuto in corso di causa l'atto di fusione inimpugnabile, a seguito della sua iscrizione nel registro delle imprese, l'oggetto del giudizio era ristretto al risarcimento dei danni, la cui liquidazione, per giunta, era rinviata ad un separato giudizio e non poteva essere quindi effettuata in quella sede.

E' però agevole replicare che - come è stato esattamente puntualizzato dalla Corte milanese - il valore della causa, ai fini della liquidazione delle spese, va determinato dalle domande proposte dalle parti e che nel caso di specie anche in grado d'appello la domanda principale era costituita dall'impugnazione della delibera di fusione, il cui eventuale accoglimento avrebbe vanificato l'incorporazione della Banca Industriale... nella Banca Popolare... e, quindi, l'acquisizione del patrimonio della prima società da parte della seconda, valore che, secondo i dati ricavabili dalla situazione allegata al progetto di fusione era di L. 60.867.389.500.

5 - Il ricorso deve essere quindi rigettato in ogni sua parte, con conseguente condanna delle ricorrenti alle spese di questo ulteriore grado. Ai fini della loro liquidazione il valore della causa va determinato secondo gli stessi criteri utilizzati nei precedenti gradi di giudizio, posto che nel ricorso si fa espressa riserva di riproporre, in caso di annullamento della sentenza impugnata, la domanda di annullamento della delibera di fusione. Sembra conseguentemente congruo liquidare gli onorari nella misura di L. 60.000.000.

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 FONTE: Ipsoa - I 4 Codici della Riforma Tributaria - Big