Trib. di Verona 15-04-1987 - Pres. Iannetti - Est. Fabiani - Facit leasing s.p.a. c. Fall. Borin

 

Il Tribunale (omissis ...).

La presente controversia involge un'unica questione di diritto: la verifica della natura del contratto e gli effetti che sul negozio si determinano a seguito dell'inadempimento dell'obbligazione da parte dell'utilizzatore.

La specifica questione è oggetto di un articolato dibattito dottrinale cui si affianca un vivace contrasto giurisprudenziale fra giudici di merito, nonché fra questi e la Corte regolatrice. Prima di affrontare il tema sotto il profilo eminentemente giuridico, il Collegio reputa rilevante descrivere la fattispecie concreta sottesa all'odierna controversia al fine di conciliare le costruzioni teoriche con la prassi, per evitare di pervenire a conclusioni erronee fondate sulla stratificazione dei problemi.

Va allora brevemente osservato che:

1) il contratto stipulato fra la Facit Leasing e Borin Lorenzo in data 20 maggio 1983 aveva per oggetto una autovettura Fiat 131 Super 1600, fornita dalla Fiat Scal di Legnago;

2) il corrispettivo del contratto veniva determinato in L. 14.214.000 I.V.A. con pagamento in 23 scadenze mensili;

3) al termine naturale del contratto l'utilizzatore poteva:

a) restituire al concedente il bene; b) rinnovare il contratto; c) azionare il diritto di opzione e ottenere la proprietà del bene versando il corrispettivo di L. 220.400;

4) i rischi connaturati al perimento e al deterioramento del bene gravavano sull'utilizzatore;

5) in caso di inadempimento e conseguente risoluzione del negozio, il concedente aveva diritto a trattenere tutti i canoni scaduti oltre che a pretendere a titolo di penale una somma pari a 6 mensilità di canone salvi ulteriori maggiori danni;

6) il contratto prevedeva espressamente la non applicazione, neppure in via analogica, dei seguenti articoli del codice civile: 1373, 1526, 1578, 1579, 1580, 1585, 1617, 1621, 1622 e 1627;

7) nel momento in cui è intervenuto il fallimento il Borin aveva versato L. 11.124.000 e l'autovettura aveva un valore residuo di L. 5.100.000 - al lordo di I.V.A. - (cifra sulla quale le parti hanno concordato);

8) il bene era stato acquistato dalla Facit al prezzo di L. 11.020.000I.V.A.

Tale descrizione consente di affermare che il contratto concluso dalle parti appartiene alla categoria del leasing finanziario.

Va infatti ricordato che il leasing finanziario è quel negozio in cui una società finanziaria, che ha acquistato per conto di altra impresa un bene per un determinato periodo di tempo, allo scadere del quale l'utilizzatore può normalmente avvalersi delle scelte di cui sub 3). Tale definizione, seppure con qualche differente sfumatura è accettata dalla prevalente dottrina e dalla intera giurisprudenza.

Da ciò consegue, superato qualche iniziale tentativo di ricondurre aprioristicamente il leasing alla locazione o alla vendita con patto di riservato dominio, che il contratto con le caratteristiche sopra delineate non può che ritenersi una figura innominata e atipica, frutto dell'autonomia negoziale e come tale assolutamente valido e lecito nei limiti in cui sia diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'Ordinamento giuridico.

Già con la prima decisione in subiecta materia la Corte Suprema aveva optato per l'atipicità del contratto e tale orientamento è stato di recente ribadito e rafforzato senza incontrare opposizioni insuperabili (Cass. 28 ottobre 1983, n. 6390, in Foro it. 1983, I, 2997 e 6 maggio 1986, n. 3023, in Foro it. 1986, I, 1819).

Si è così precisato (da un lato), che nel contratto di leasing alla scadenza del periodo l'utilizzatore non diviene, tout court, proprietario del bene come invece avviene nella vendita con riserva della proprietà; dall'altro lato che, diversamente dalla locazione, tutti i rischi per il perimento del bene sono posti a carico dell'utilizzatore di talché non trova applicazione il principio res perit domino tipico dei diritti reali e certo non connaturato ai diritti di godimento (qual è appunto la locazione).

Del tutto correttamente si è allora escluso che al contratto di leasing possano trovare applicazione le norme dettate per la locazione ovvero quelle della vendita; in tale prospettiva devono ritenersi superate quelle decisioni giurisprudenziali tese ad inquadrare il leasing fra le figure tipiche già previste dall'ordinamento (avevano ritenuto che la disciplina del contratto di leasing fosse desumibile dalla locazione: Tribunale Milano 23 aprile 1981, in Giur. comm. 1982, II, 367, Tribunale Trieste 9 aprile 1986, in Foro it. 1986, I, 2913; in senso opposto e cioè che la normativa applicabile fosse quella degli artt. 1523 e segg., codice civile, Tribunale Udine 16 marzo 1985, in Il fall., 1985, 869, Tribunale Torino 15 dicembre 1983, in Foro it. 1985, I, 893).

La dottrina più recente, consapevole della difficoltà insita nella decisione di optare per l'una o l'altra figura negoziale tipica, ha inteso verificare i parametri normativi di riferimento per poter giungere o meno alla applicazione in via analogica di alcune norme dettate per ciascun singolo contratto nominato (tale opzione è stata ripresa dalla giurisprudenza laddove si è sostenuto che la disciplina (del leasing) oltre che dalle norme generali sul contratto contenute nel codice civile, risulta dalla volontà delle parti e dall'analogia con la disciplina del contratto tipico la cui causa ricorre nel singolo elemento del contratto misto che è il leasing, Tribunale Firenze 19 luglio 1980, in Foro pad. 1981, I, 349, Appello Firenze 16 giugno 1981, in Dir. fall. 1982, II, 60, Tribunale Genova 23 febbraio 1982, in Il fall. 1982, 857 e da ultimo Appello Milano 23 settembre 1986, in Foro it. 1987, I, 231).

Per procedere ad una verifica di questa natura, appare necessario comprendere l'essenza del contratto individuandone gli elementi caratterizzanti.

Preliminarmente si tratta di esaminare se il contratto di leasing possa ricondursi alla categoria generale dei contratti di scambio ovvero a quella dei contratti di credito.

Poiché con l'ultima decisione - sopra citata - la Corte Suprema ha chiaramente scelto questa seconda direzione, non ritenendo il Collegio di condividere tale assunto, si evidenzia l'opportunità di vagliare tutti quei dati che appaiono in palese conflitto con tale interpretazione.

Nella sentenza n. 3023 del 1986 si afferma testualmente "il leasing finanziario si propone come una forma tecnica di finanziamento delle imprese ..., omissis, ... la causa della locazione finanziaria non consiste nell'acquisto della proprietà di un bene con una particolare agevolazione nel pagamento del prezzo, bensì in un finanziamento per l'acquisto della disponibilità di un bene".

La caratura finanziaria dell'operazione viene enfatizzata sino ad assumere valore di causa nel contratto di leasing e ciò per una serie di ragioni che una parte minoritaria della dottrina aveva suggerito non trovando, peraltro, il conforto della prevalenza degli autori che hanno illustrato i conflitti logici e giuridici in una siffatta qualificazione.

Se infatti il leasing fosse un contratto di credito (e quindi latamente assimilabile al mutuo) si paleserebbe in modo lampante la difficoltà di rinvenire nella consegna in uso del bene, il trasferimento della provvista, posto che l'utilizzatore non diviene proprietario del bene (mentre il mutuatario diviene proprietario del denaro o di altri beni fungibili di cui riceve la dazione); nel mutuo il fruitore del denaro vede arricchire il proprio patrimonio (o per la presenza di denaro liquido ovvero per la presenza di beni acquistati con le somme mutuate), nel leasing, invece, l'utilizzatore, se di solo godimento si trattasse - ciò che vuol far apparire la Cassazione - non vedrebbe in alcun modo incrementato il proprio patrimonio.

Ancora, se il leasing è un contratto di credito e quindi non è più figura contrattuale a prestazioni corrispettive, sussistendo solo l'obbligo del pagamento dei canoni da parte dell'imprenditore, v'è da chiedersi quale funzione assuma la proprietà che permane in capo alla società concedente: la proprietà non può che assumere una funzione di garanzia. La Cassazione, reputando che al termine del contratto alla scadenza naturale il bene sia privo di valore economico residuo, giudica irrilevante, nell'economia del contratto, la questione della proprietà.

Tale orientamento non è affatto da condividersi in quanto muove da valutazioni storiche del tutto erronee per le ragioni che si esporranno oltre. Se la proprietà non è irrilevante, essa rimane al concedente per garantire l'esatto adempimento del contratto; ma come è noto, nel nostro ordinamento, vige il principio della tipicità dei diritti e delle garanzie reali (Cass. 7 settembre 1978, n. 4045, in Foro it. 1979, I, 729) di talché un contratto che istituisse una garanzia reale alternativa, non sarebbe più meritevole di tutela giuridica ex art. 1322, codice civile; né va trascurato come una parte della dottrina riconduca l'esigenza di tutelare l'utilizzatore alla necessità di impedire l'insorgere di effetti equiparabili a quelli che la legge stessa vuol escludere con la previsione del divieto del patto commissorio (art. 2744, codice civile).

La proprietà in capo al concedente sino alla completa esecuzione del contratto, e quindi con funzione di garanzia, già è conosciuta dall'ordinamento e si rinviene nella vendita a rate con patto di riservato dominio, laddove peraltro il legislatore per evitare un potenziale eccessivo pregiudizio per il contraente più debole, ha indicato un metodo per riequilibrare le posizioni delle parti con l'art. 1526, codice civile.

Il tribunale ritiene che gli elementi idonei ad escludere l'invocabilità delle norme dettate in tema di contratti di credito non siano sufficienti per affermare che il leasing appartiene alla categoria dei contratti di scambio per il ben noto principio del tertium non datur.

Le parti, nell'ambito dell'autonomia negoziale che è loro riconosciuta, ben potrebbero dar vita ad un contratto talmente atipico da non poter essere assimilato a nessuna delle cennate categorie generali.

L'esame letterale delle singole clausole negoziali potrebbe condurre proprio ad una tale conclusione; diversamente, l'interpretazione sistematica delle varie pattuizioni, l'analisi del costo del contratto e della sua durata, inserite armonicamente nel contesto dell'ordinamento, inducono a qualificare in termini positivi (e non già solo residuali) il leasing fra i contratti di scambio.

Il finanziamento rappresenta sicuramente lo scopo economico del contratto, scopo che l'imprenditore vuole perseguire quando stipula un contratto di leasing, ma che da solo non giustifica l'operazione, posto che è connaturata anche alla vendita a rate con patto di riservato dominio la finalità di trovare un finanziamento atipico (mediante il differimento del pagamento del prezzo del bene necessario per l'attuazione del processo produttivo o commerciale) e una conferma di tale assunto si ritrova nella frequente applicazione della c.d. legge Sabatini.

L'acquisizione di risorse finanziarie necessarie per lo svolgimento delle attività di impresa non giuoca un ruolo superiore a quello che può essere suggerito dalla accattivante disciplina fiscale del leasing come bene ha intuito la difesa della curatela. Osservando specificamente il caso degli automezzi, l'imprenditore che ottiene il bene in leasing può inserire il cespite nel conto economico con un valore comprensivo degli interessi passivi determinando un costo per l'impresa che potrà essere distribuito in vari anni a seconda della durata del contratto, di modo che l'imprenditore può utilizzare il leasing per modificare i costi di gestione dell'azienda con l'effetto di poter più agevolmente governare i risultati economici dell'impresa al termine dell'esercizio.

I riflessi fiscali costituiscono certamente uno dei motivi che potranno indurre l'imprenditore a scegliere o no il leasing per l'acquisizione di un determinato bene; nondimeno non si può sostenere che la causa del contratto di leasing sia l'"elasticità" del suo trattamento fiscale.

Per comprendere quale possa essere la causa del contratto di leasing è allora opportuno verificare cosa rappresenti nell'economia del contratto il canone pagato dall'utilizzatore. Secondo la Corte Suprema il pagamento dei canoni rappresenta la restituzione di un mutuo finanziario valendo a remunerare il proprietario del valore economico consumato dall'utilizzatore e non costituendo anche pagamento periodico del prezzo di acquisto (Cass. n. 3023 del 1986).

I giudici di merito erano pervenuti ad altre conclusioni osservando come i canoni siano assimilabili a ratei di prezzo perché coprono l'intero valore economico del bene, in quanto sono comprensivi non solo del corrispettivo per il godimento ma anche dell'ammortamento, dell'interesse sul capitale investito, delle spese di gestione e dell'utile di impresa (cfr.: Appello Milano 23 settembre 1986, cit.). La scelta della Cassazione non può che lasciare perplessi posto che muove da presupposti storici del tutto inesatti: infatti non è possibile affermare che al termine del contratto il bene "locato" non ha più alcun valore economico perché il leasing si rivolge a imprenditori che usufruiscono di beni a rapida obsolescenza.

Tre argomenti appaiono insuperabili fra quelli addotti a sostegno dell'avversa tesi: 1) nel leasing immobiliare al termine del contratto il bene conserva per sua natura valore economico; 2) il prezzo di opzione è stabilito in funzione della durata del contratto e non del valore residuo del bene; 3) nel contratto viene sempre prevista la facoltà di rinnovo il che attesta che il bene può continuare ad essere utilizzato.

I dati aritmetici della fattispecie concreta dimostrano ampiamente che con il pagamento del canone il Borin pagava il prezzo del bene. Infatti se il contratto fosse stato portato a termine, l'utilizzatore avrebbe versato l'importo di L. 14.434.400 (di cui L. 11.020.000 di capitale pari al prezzo pagato dalla Facit al fornitore e L. 3.414.400 per interessi) comprensivo del costo dell'opzione. Confrontando inoltre il valore residuo del bene (L. 4.200.000 al netto di I.V.A.) con l'entità dell'opzione - L. 220.400 - si ricava incontestabilmente che con il pagamento dei canoni il Borin in realtà ha pagato anche una parte (assolutamente prevalente) del prezzo.

Se il leasing fosse davvero un contratto con il quale si mette a disposizione dell'imprenditore il mero godimento del bene, il costo del "riscatto" dovrebbe venire identificato, approssimativamente (tenendo conto dei costi di gestione, della remunerazione del capitale investito e del profitto della società) con il valore residuo di mercato del bene.

In una fattispecie di questo genere v'è da chiedersi come sia possibile sostenere che l'acquisto del bene in proprietà sia una circostanza irrilevante nell'economia del contratto. Il Borin non esercitando il diritto di opzione si deve ritenere abbia subìto una diminuzione patrimoniale pari quanto meno alla differenza tra il valore residuo dell'autovettura (L. 4.200.000) e il costo dell'operazione di riscatto (L. 220.400). Trascurando il caso concreto, pur ammettendo che vi sono dei beni ad obsolescenza assai più rapida di quella che contraddistingue gli automezzi, v'è da osservare che ben difficilmente il valore del bene corrisponde al costo dell'opzione per il semplice fatto che, come bene ha evidenziato una recente dottrina, il valore del bene può dipendere dal contesto aziendale in cui viene inserito; così, se per l'utilizzatore quel bene al termine del periodo contrattuale può presentare un interesse assolutamente modesto (divenendo indifferente l'acquisto in proprietà), nondimeno quello stesso bene potrà servire ad altra azienda in espansione, con un processo tecnologico meno raffinato e, il diritto di opzione potrà venire negoziato ad un prezzo comunque superiore a quello di riscatto.

Troppe e troppo diverse sono le manifestazioni di applicazione del leasing perché si possa assumere una posizione rigida quale ha adottato la Corte regolatrice.

Così, ribadito che la durata del contratto è una variabile dipendente del non presumibile tempo di obsolescenza del bene, ma della volontà delle parti di distribuire negli anni il costo dell'operazione, che i rischi relativi alla conservazione del bene ricadono tutti sul "conduttore" non proprietario, appare problematico negare le evidenti simmetrie che si possono cogliere fra il contratto di leasing e quello di vendita con patto di riservato dominio e con la locazione-vendita di cui all'art. 1526, codice civile ultimo comma: 1) idoneità del canone di fungere sia da corrispettivo per il godimento sia quale anticipazione del futuro trasferimento della proprietà; 2) lo scopo di finanziamento sotteso ad entrambi i negozi (possibilità di utilizzare un bene produttivo senza emorragia immediata di risorse finanziarie apprezzabili); 3) la funzione di garanzia svolta dalla conservazione della proprietà in capo al concedente sino all'integrale adempimento del contratto.

Questa simmetria fra le due diverse figure contrattuali consente di pervenire a determinate conclusioni con riferimento alla scelta della normativa applicabile per la disciplina del leasing quale contratto innominato.

Al contratto concluso fra le parti dell'odierno giudizio certamente sono applicabili le norme generali sui contratti (artt. 1322, codice civile e segg.) e quelle pattiziamente volute dai contraenti; resta da verificare se siano invocabili ulteriori disposizioni e cioè quelle prevedute per alcune figure negoziali tipiche.

La Suprema Corte sul presupposto della caratterizzazione dello schema causale del leasing in modo del tutto incompatibile con una disciplina che il sistema della legge riconnette al trasferimento del diritto di proprietà, ha ritenuto in base all'art. 1323, codice civile che al leasing sono estese le norme generali relative al contratto e non anche le norme proprie che disciplinano singoli contratti nominati.

Per i fini che interessano al caso in esame (risoluzione del contratto per inadempimento dell'utilizzatore e clausola risolutiva espressa, ovvero per lo scioglimento del contratto ex artt. 72 e segg., legge fallimentare, non essendovi completa chiarezza sul fatto se il contratto si sia risolto prima del fallimento), la Cassazione ha deciso che la norma che disciplina gli effetti della risoluzione del contratto di leasing si ritrova nell'art. 1458, codice civile - dettato in tema di contratti di "durata" - per effetto del quale le prestazioni eseguite restano acquisite a chi le ha ricevute.

Le argomentazioni dei giudici di legittimità non convincono per un triplice ordine di motivi.

Il primo: il leasing è un contratto misto (Tribunale Firenze 19 luglio 1980, cit.) derivante dalla combinazione di più negozi tipici, di guisa che per la regolamentazione occorre far riferimento alla disciplina dello schema negoziale prevalente (così dalla risalente Cass. 6 marzo 1951, n. 552 in Foro it. 1951, I, 1043 alle più recenti 28 settembre 1971, n. 2665, in Giust. civ. Rep., voce Obbligazioni e contratti, n. 118; 8 marzo 1970,§n. 1345, in Giust. civ. 1970, I, 1342; 17 agosto 1978, n. 3574, in Giust. civ. Rep., 1978, voce Agenzia, n. 15) che nel caso concreto per le ragioni sopra esposte non potrebbe che essere la vendita con patto di riservato dominio.

Il secondo: per effetto dell'art. 1322, codice civile, alle parti è consentito creare nuove figure negoziali; a tali patti sono applicabili in via analogica, in assenza di espressa previsione negoziale, le disposizioni contemplate per altri negozi ad essi assimilabili per natura e per funzione economico-sociale (Cass. 13 maggio 1980, n. 3142, in Giust. civ. Rep., 1980, voce Obbligazioni e contratti, n. 99; 1036, Tribunale Vicenza 5 marzo 1984, in Il fall. 1984, 1235).

Il terzo: una parte autorevole della dottrina, cui reputa di aderire questo Collegio, sostiene che ai contratti innominati possono essere applicate disposizioni dettate per figure tipiche quando riflettano principi di ordine generale relativi a fattispecie in cui il richiamo è compatibile con la volontà negoziale.

Se la prima obiezione alla tesi di Cass. n. 3023 del 1986 può non essere appagante in quanto finirebbe per rendere direttamente applicabile al leasing le norme sulla vendita con riserva della proprietà così svuotando di fatto il contratto di leasing che certamente assolve ad interessi diversi e ulteriori, le successive contestazioni appaiono fondate di talché deve ritenersi che per il contratto stipulato fra il Borin e la Facit Leasing siano invocabili alcune norme previste per la vendita ex art. 1523, codice civile.

Si esamini nuovamente il contratto in atti: le parti hanno articolato in n. 16 clausole la disciplina del rapporto, una delle quali (la n. 14) è espressa in forma negativa in quanto esclude l'applicabilità anche in via analogica di una serie di norme del codice civile.

Tralasciando per un attimo la clausola n. 14, è opportuno soffermarsi sulla clausola n. 11, quella che fornisce la regolazione degli effetti dell'inadempimento dell'obbligazione dell'utilizzatore. In caso di risoluzione (ma la prospettiva non muta con riferimento ai canoni scaduti e già pagati se si ritenesse, come pare, il contratto non risolto ma sciolto ex artt. 72 e segg., legge fallimentare) ha diritto di trattenere definitivamente, a titolo di penale, i canoni versati e di pretendere a titolo di ulteriore penale una somma pari a sei mensilità. Se non vi fosse l'art. 14, il giudice seguendo il ragionamento sotteso alla seconda obiezione mossa alla sentenza sopra citata, non potrebbe ignorare l'art. 1526, codice civile, come bene ha evidenziato la curatela, per l'evidente analogia della fattispecie e avrebbe pertanto il potere di determinare l'equo compenso spettante al concedente ed eventualmente disporre la restituzione dell'eccedenza.

La clausola n. 14, invece, esclude espressamente la applicabilità seppure solo in via analogica, proprio dell'art. 1526, codice civile. Ci si deve domandare allora quale valore e quale forza assuma una siffatta precisa volontà negoziale.

Se si ritenesse che nel contesto del contratto di leasing il meccanismo riequilibratore della posizione delle parti sotteso all'art. 1526 è irrilevante ovvero non conferente, ben si potrebbe reputare incensurabile la scelta pattizia.

La Cassazione ha adottato proprio questa interpretazione: poiché nel leasing il trasferimento della proprietà è, comunque, rimesso ad una nuova ed eventuale determinazione volitiva delle parti, l'utilizzatore può con la propria manifestazione di volontà (opzione o rinunzia al riscatto) tutelare il proprio interesse nel modo più opportuno senza necessità di ricorrere ad alcun meccanismo predisposto per riequilibrare la situazione fra i contraenti.

Non v'è chi non veda come tale interpretazione si appalesi del tutto incongrua sol che si consideri che quando il contratto è risolto, l'utilizzatore non può scegliere proprio nulla: si trova esposto a dover riconsegnare il bene e a dover prendere le rate versate oltre che essere chiamato a rispondere del pagamento di ratei a scadere a titolo di penale. La risoluzione del contratto presuppone la patologia del rapporto; la scelta fra opzione e rinunzia la fisiologia dello stesso.

Chiarita tale prospettiva, vanno illustrate le ragioni che militano a favore dell'applicabilità dell'art. 1526, codice civile. Questa norma si pone infatti in stretta correlazione con la funzione di garanzia che nel contratto assolve il permanere della titolarità in capo al concedente.

L'art. 1526, codice civile, svolge la funzione di ricondurre ad equità il contratto, impedendo un indebito arricchimento di una delle parti a favore dell'altra per il caso di inadempimento; solo in virtù di questo meccanismo, l'ordinamento consente che la proprietà resti al concedente in funzione di garanzia. Se si vuole sostenere che l'art. 1526, codice civile non va invocato nel contratto di leasing si dà vita ad una forma di garanzia reale atipica, e per ciò inammissibile; il contratto non può allora essere ritenuto meritevole di tutela giuridica.

L'art. 1526, codice civile altro non è che una particolare estrinsecazione del generalissimo principio della non tutelabilità dell'indebito arricchimento di cui è espressione altresì l'art. 1384, codice civile; questa controversa disposizione vuole mantenere un equilibrio nella sinallagmaticità delle obbligazioni per evitare che il contraente adempiente riceva dall'inadempimento dell'altro maggiori vantaggi rispetto a quelli che gli procurerebbe l'esecuzione naturale del contratto.

Si osservi come normalmente in caso di risoluzione il concedente possa ottenere i seguenti benefici in base alle clausole negoziali:

A) restituzione del bene prima della scadenza (quindi con un valore superiore a quello che residuerebbe al termine naturale del rapporto);

B) acquisizione dei canoni pagati;

C) diritto di pretendere i ratei scaduti e non pagati nonché un certo numero, (talora anche tutti) di quelli a scadere a titolo di penale.

E' di tutta evidenza che al concedente conviene l'inadempimento dell'utilizzatore, il che oltre che a contrastare con la logica confligge altresì con la clausola del divieto dell'indebito arricchimento. Si osservi poi che mentre l'ordinamento in via generale (artt. 1453 e segg., codice civile) attribuisce al contraente la facoltà di chiedere la risoluzione del contratto o il suo adempimento, l'esclusione dell'art. 1526, codice civile porterebbe a cumulare i benefici delle due azioni, circostanza che non può ritenersi ammissibile (Cass. 24 maggio 1976, n. 1874, in Giust. civ. Mass. 1976, 824; 4 aprile 1978, n. 1526, in Giust. civ., 1978, 629).

L'indebita locupletazione che si prospetta per il concedente in caso di inadempimento dell'utilizzatore, ad avviso del Collegio rende illecite le clausole nn. 11 e 14/a del contratto stipulato fra le parti, in quanto non persegue alcun interesse meritevole di tutela quel patto che sancisce il diritto di una parte di raggiungere un incremento del proprio patrimonio cui non si accompagni o resti indifferente la modifica della propria situazione giuridica soggettiva. E' privo di causa il maggior utile che la società di leasing può procurarsi in caso di inadempimento rispetto a quello che conseguirebbe per l'esecuzione naturale del rapporto.

Il cennato ingiustificato arricchimento parrebbe confliggere altresì con la clausola generale dell'art. 1223, codice civile per cui sono risarcibili il lucro cessante e il danno emergente ma non altro. Nell'ipotesi del leasing se la società concedente ha già recuperato il "costo" complessivo dell'operazione, non si comprende a che titolo essa trattenga l'eventuale eccedenza.

Si badi che per il contratto in esame neppure era prevista la deduzione di quanto incassato dalla vendita a terzi del bene riconsegnato dall'imprenditore inadempiente.

Ad avviso del Tribunale le considerazioni svolte permettono di affrontare le domande di merito con una certa impostazione. La società ricorrente ha percepito L. 11.124.000 dal fallito ed ha ottenuto la disponibilità dell'autovettura, valutata convenzionalmente dalle parti in L. 4.200.000 al netto di imposta. Il giudice delegato in sede di verifica aveva determinato l'equo compenso in L. 9.000.000. Posto che la natura dell'equo compenso va certamente correlata con quella di indennità di cui all'art. 1526, secondo comma, codice civile, se si ritenesse che la Facit ha maturato il diritto all'indennità per essere la risoluzione opponibile al fallimento (e non pare sia così atteso che in atti non v'è la prova che la Facit abbia inteso avvalersi della clausola risolutiva espressa), la somma spettante alla ricorrente non potrebbe comunque superare l'importo pari a quanto la concedente avrebbe percepito con l'adempimento del contratto (L. 14.434.400). Viceversa la Facit Leasing è stata messa nella condizione di ricavare dall'operazione, nonostante l'inadempimento, circa L. 15.334.000. Alla curatela dovrebbe essere allora restituita la somma di L. 900.000. Ma l'assenza di una qualsiasi comunicazione che in data anteriore al fallimento renda opponibile alla massa la risoluzione del negozio, induce il Tribunale a ritenere che il contratto non si sia risolto ex art. 1455, codice civile e che esso sia soggetto invece alla disciplina degli artt. 72 e segg., legge fallimentare, da invocarsi nella fattispecie (come dedotta dalla curatela) per effetto dell'analogia della situazione concreta con quella disciplinata normativamente.

In questa seconda ipotesi, poiché il fallimento di per sé non dà titolo ad alcun risarcimento del danno, pare equo che il concedente percepisca complessivamente una somma inferiore a quella cui potrebbe aspirare se il contratto si fosse risolto e in tale contesto l'importo di L. 9.000.000 al netto di I.V.A. stabilito dal giudice delegato appare certamente congruo ed adeguato (se si computa la maggiorazione ricavabile dalla vendita del veicolo, L. 4.200.000) a remunerare l'attività prestata dal concedente.

Nel contemperamento degli interessi dei contraenti va rilevato a confronto della difesa dell'opponente che le finanziarie sopportano il rischio di una eccessiva rapida obsolescenza del bene nonché quello di una disagevole ricollocazione sul mercato del bene restituito (il contratto in esame non prevede l' obbligo fideiussorio del fornitore per l'inadempimento dell'utilizzatore come si rinviene in numerosi altri formulari negoziali).

Tenuto conto dei tassi di interesse applicati al contratto dalle società concedenti, mediamente superiori a quelli del cartello bancario, in caso di scioglimento anticipato del rapporto, non essendo maturato il diritto al ristoro dei danni in ipotesi subiti, appare congruo determinare l'equo compenso, ovvero il credito totale per ratei scaduti e non pagati in una misura pari all'incirca al valore iniziale dell'operazione moltiplicato per il tasso di interesse applicato e per il numero delle mensilità scadute diviso per dodici (per stabilirne l'annualità). Il calcolo matematico dell'operazione produce questo risultato: L. 9.093.000 (14.434.400 per 42% per 18 diviso 12). Atteso che la liquidazione può avvenire in via equitativa la curatela ha maturato il credito per la restituzione di L. 2.124.000 pari alla differenza fra quanto percepito dalla Facit e quanto liquidato come equo compenso. Su tale somma dalla data di costituzione in mora - 6 novembre 1985 - decorrono gli interessi al tasso legale sino al saldo. Al fallimento che lo ha richiesto, compete anche il maggior danno ex art. 1224, secondo comma, codice civile, posto che se il curatore avesse tempestivamente riscosso l'importo lo avrebbe depositato in un libretto bancario che nel periodo trascorso può aver fruttato mediamente un saggio pari complessivamente all'8%. Per questa voce compete al fallimento la somma di L. 100.000.

Le esigenze della procedura fallimentare consentono di attribuire la clausola esecutiva alla presente sentenza.

(omissis ...).