Trib. di Verona 23-03-1988 - Pres. Iannetti - Est. Iannetti - Fall. s.p.a. Conceria Colognese c. S.p.a. Banca Cattolica del Veneto
Il Tribunale (omissis ...).
I problemi giuridici che si agitano nella presente causa si risolvono, in ultima analisi, nella verifica dell'esistenza nel nostro ordinamento giuridico del diritto soggettivo del correntista di pretendere dalla banca trattaria il rendiconto completo dell'attività gestoria ed in particolare di esaminare l'intera serie delle girate degli assegni emessi.
La tesi enunciata dalla convenuta è che il corrispondente obbligo della banca si esaurisce, invece, nella trasmissione al cliente dell'estratto conto relativo al C/C bancario e che solo in presenza di uno specifico dimostrato interesse è tenuta a fornire ulteriori informazioni.
Da parte convenuta tale diritto soggettivo è riconosciuto, pertanto, in questo ambito molto limitato.
Il tema non risulta approfondito dalla dottrina e tanto meno dalla giurisprudenza. Per inquadrarlo appare opportuno prendere le mosse proprio dal rendiconto (o estratto conto) e più precisamente dalla natura giuridica della sua approvazione perché le conclusioni sul tema possono aiutare a risolvere il problema sopra posto.
La dottrina e la giurisprudenza, assolutamente prevalente, sono giunti alla determinazione di qualificare tale approvazione una fattispecie complessa composta di due dichiarazioni bilaterali di natura confessoria con la quale ciascuna delle parti, l'una (che trasmette l'estratto conto) espressamente e l'altra (destinataria) anche tacitamente, "dichiara la rispondenza a verità delle poste annotate, da tali ammissioni rimanendo vincolate".
La Corte di Cassazione con sentenza nn. 452 del 1984 (nello stesso senso 1670 del 1971, 1043 del 1975, 1456 del 1975 e 2095 del 1980), ha puntualmente affermato che l'approvazione del rendiconto costituisce confessione extragiudiziale della verità del debito annotato e che l'annotazione non è novativa e perciò trova il proprio fondamento giuridico nel rapporto da cui deriva (del quale può dedursi la nullità o l'annullabilità nonostante la mancata contestazione del conto). Da ciò si deduce che non sono precluse le impugnative tese a contestare la validità dei fatti giuridici, dai quali traggono origine le poste a debito e il tutto è una conseguenza del carattere di mera dichiarazione di scienza, e quindi non novativo, della confessione. L'esattezza della qualificazione giuridica dell'approvazione del conto sopra proposta è comprovata dal regime delle impugnazioni previste dal secondo comma dell'art. 1832 (richiamato dall'articolo 1857, codice civile) tipico della confessione, la quale perde la sua efficacia vincolante quando si dimostra la non corrispondenza dei fatti dichiarati alla realtà.
Se è riconosciuto al correntista, pur dopo l'approvazione del rendiconto, il diritto a contestare la validità dei fatti giuridici da cui scaturiscono le singole annotazioni, egli deve essere posto nelle condizioni di esercitarlo. Impedendo tale esercizio si viene a negare il diritto stesso. Attesa la natura del contratto di conto corrente bancario e del suo modo di svolgersi non si può negare al correntista il diritto di verificarne i movimenti ed, in particolare, la regolarità della circolazione degli assegni emessi e dei loro pagamenti. Esattamente è stato osservato che quando la banca agisce per conto altrui (e ciò si verifica quando paga su ordine del traente) vale la regola enunciata per il mandato: ogniqualvolta ne venga espressamente richiesto dal mandante, il mandatario deve dare conto di tutte le circostanze che riguardano l'esecuzione del mandato. Il riferimento al mandato non è arbitrario. La dottrina non è giunta a conclusioni pacifiche sulla qualificazione del contratto di corrispondenza, detto conto corrente bancario.
Per alcuni è un contratto nominato (deposito bancario, apertura di credito, mandato). Per altri è un negozio innominato. Altri ancora optano per la figura del contratto di collegamento. Pur oscillando tra queste tesi si sottolinea che elemento qualificante di tale figura è l'obbligazione assunta dalla banca alla prestazione di un servizio che sorge sulla base di una pattuizione che a sua volta importa un mandato del cliente alla banca. Tale obbligazione trova ovviamente il limite nella disponibilità dei fondi.
Per meglio spiegare quanto in sintesi si era affermato sull'estensione del conto a cui la banca è tenuta bisogna ricordare che l'art. 1713 stabilisce espressamente per il mandatario l'obbligo di dare "il conto" del suo operato. Tale obbligo non è limitato alla presentazione e alla valutazione di un prospetto analitico nel quale vengono riportate tutte le somme amministrate. La norma è stata unanimemente intesa nel senso che tale obbligo del mandatario risponde alla necessità "di procurare al mandante piena conoscenza degli elementi di fatto suscettibili di interessarlo e chiarezza sull'esito del negozio". Appare ovvio che la verifica presuppone una valutazione e questa a sua volta la conoscenza, perché non si può valutare se non si conoscono i fatti. Tale obbligo mira ad assicurare al mandante una possibilità di valutare l'intera attività gestoria.
Come si può dubitare che chi opera non debba dar conto del proprio operato, a chi, per contratto, ne è il destinatario? E' altrettanto naturale che questi ne possa pretendere il conto. Per questa ragione è opinione comune che l'obbligazione che incombe sul mandatario sia un naturale negotii.
Ne consegue che, inerendo il mandato anche alla figura del conto bancario, l'obbligo della banca non si esaurisce nella trasmissione di un prospetto analitico di tutte le operazioni svolte, ma comporta anche l'onere di fornire tutte le altre notizie che consentano al correntista di verificare se il servizio al quale si è obbligata è stato bene eseguito.
Diversamente argomentando si giungerebbe alla legittimazione di ogni arbitrio del contraente più forte e all'esonero di questo da ogni responsabilità.
Tale diritto, riconosciuto al correntista, non può essere negato al curatore che, nel caso in esame, esercita un'azione a tutela di un interesse riconducibile direttamente alla società fallita, ponendosi nella stessa posizione sostanziale e processuale della fallita.
Ciò spiegato è anche evidente l'interesse attuale e concreto che giustifica la richiesta esibizione prima che scadano i termini di prescrizione fissati per far valere i vizi riscontrabili nella circolazione degli assegni.
Tale interesse acquista una particolare fisionomia nel caso in esame perché ne chiede la tutela il curatore che, oltre ad essere avente causa del fallito, riveste nella procedura fallimentare la qualifica di pubblico ufficiale cui gravano, ex art. 33, legge fallimentare, particolari oneri. Egli deve presentare "una relazione particolareggiata sulle cause e circostanze del fallimento ... sulle responsabilità del fallito e di altri e su quanto può interessare anche ai fini dell'istruttoria penale". Tale interesse pubblico nel fallimento è maggiore che negli altri procedimenti civili come si deduce dall'apertura d'ufficio o su istanza del Pubblico Ministero e, soprattutto, dalla rigorosa tutela penale che accompagna lo svolgimento dell'intera procedura.
Nell'art. 33 si fa obbligo (espresso nel verbo "deve") al curatore di effettuare tutti gli accertamenti in esso elencati. Se il destinatario della norma fosse soltanto il curatore la sua azione potrebbe risultare impossibile nell'eventualità di scomparsa del fallito e/o di distruzione di ogni contabilità. La norma deve essere intesa nel senso che non possono sottrarsi alla collaborazione con il curatore quanti sono venuti in rapporto con il fallito ed in particolare quanti sono stati a lui legati da forme di collaborazione anche generica. L'interesse pubblico connesso al fallimento ha rilievo nei rapporti con gli istituti bancari anche sotto un altro profilo. Invero, nella specie, la Banca Cattolica oppone alla richiesta del curatore il segreto bancario. Si sostiene che la richiesta di esibizione si scontra con la presenza di un dovere della banca (nei confronti dei terzi) alla riservatezza dei dati inerenti alla circolazione successiva all'emissione del titolo con conseguente "interesse autonomo della banca alla non divulgazione dei fatti inerenti alla sua attività". Giustamente si replica da controparte che essendo il titolo destinato, per sua natura, alla circolazione non può essere oggetto di riserbo e che tale riservatezza sarebbe in ogni caso protetta dal curatore che, nella sua qualità di pubblico ufficiale, deve garantire e difendere il segreto bancario.
In ogni caso - pur ammessa l'esistenza di un tale dovere-diritto della banca alla riservatezza - tale diritto risulterebbe compresso o, quanto meno, affievolito dal superiore interesse pubblico che la procedura fallimentare persegue.
La domanda principale va perciò accolta.
(omissis ...).