Fonte: Le Società - Giurisprudenza 4 / 1990, p. 468

 

Commerciale - Societario

I PATTI PARASOCIALI NELLA LIQUIDAZIONE DI SOCIETA'

Cassazione civile sez. I - Sentenza 22 dicembre 1989, n. 5778 - Pres. Bologna - Rel. Borruso - Piva c. Carlucci

I contratti parasociali sono validi soltanto se non compromettono gli interessi della società: di conseguenza, in sede di liquidazione, e' nullo il patto che impone ai soci-liquidatori di una società di capitali, quali contraenti del patto, di svendere il patrimonio sociale ad un prezzo irrisorio rispetto al suo vero valore, contravvenendo, cosi', all'obbligo loro imposto per legge di espletare il loro incarico di amministratori liquidatori di un patrimonio ancora "altrui" con la diligenza del buon padre di famiglia.

La Corte (omissis).

Col primo motivo di ricorso il Piva denunzia violazione degli artt. 2452, 2497, 1418 e 1419, codice civile, in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5, codice procedura civile, sostenendo che i patti parasociali potrebbero legittimamente convenire quanto legittimamente potrebbe essere deliberato dalla società: conseguentemente, poiché ai sensi del secondo comma del citato art. 2452, l'assemblea dei soci puo' derogare alla disciplina legale dei poteri dei liquidatori, anche i patti parasociali lo potrebbero al fine di dividere tra i soci il patrimonio sociale. Ne', in contrario, avrebbe potuto essere opposto - come erroneamente fatto nella sentenza impugnata - che, predeterminando un prezzo di vendita inferiore a quello che avrebbe potuto essere ricavato, cio' nella specie avrebbe costituito un pregiudizio per le società e per i terzi. Tale pregiudizio, infatti, nella specie non avrebbe potuto essere ritenuto sussistente sia per la totale coincidenza tra gli interessi delle società e gli interessi degli unici soci Piva e Carlucci, sia perché il prezzo predeterminato (ú. 2 miliardi) era largamente sufficiente a coprire i debiti delle società (accertati in appena ú. 82.259.850) come i giudici di merito avrebbero omesso di considerare, sia infine perché la violazione delle garanzie dei terzi avrebbe dovuto essere accertata in concreto e non, invece - come a torto avrebbero fatto i giudici di merito - con riferimento ad una ipotetica diversa situazione.

Il suesposto motivo e' privo del benché minimo fondamento.

Infatti, come questa Corte ha piu' volte affermato (cfr. sentt. nn. 4023 del 1969 e 234 del 1964) i c.d. "contratti parasociali", tra i quali rientra certamente quello posto in essere il 7 gennaio 1982 tra il ricorrente ed il resistente per gli obblighi che assumevano in proprio, sono validi soltanto se non compromettono gli interessi della società. Ed i giudici di merito, con apprezzamento di fatto insindacabile in questa sede perché perfettamente motivato sul piano logico-giuridico, hanno, invece, ritenuto che tale pregiudizio, nella specie, sussistesse e consistesse nel costringere i soci contraenti a svendere, quali liquidatori della società, il patrimonio di una società di capitali (cioè di un soggetto giuridico perfettamente distinto da essi) per un prezzo irrisorio rispetto al suo vero valore, contravvenendo, cosi', all'obbligo loro imposto per legge di espletare il loro incarico di amministratori liquidatori di un patrimonio ancora "altrui" con la diligenza del buon padre di famiglia. A cio' puo' aggiungersi che - come del resto accennato nella stessa sentenza impugnata con l'esatto richiamo dell'art. 1418, codice civile, - il contratto parasociale stipulato tra il Piva ed il Carlucci e' nullo anche per l'illiceità o, quanto meno, per la mancanza di una causa plausibile, giacche' da un lato non e' dato scorgere quale interesse, meritevole di tutela giuridica, potesse perseguire l'obbligarsi reciprocamente a svendere a terzi i beni di una società di capitali amministrata dai contraenti ad un prezzo irrisorio e a porre, cosi', in essere una sorta di contratto oneroso mixtum cum donatione a favore di estranei, dall'altro lato contrasta con tutte le norme d'ordine pubblico economico che impongono la trasparenza in tutti gli atti che riguardano la contabilità sociale (ivi compresa la fase liquidatoria) far apparire, mediante la corrispondenza ad un prezzo artificioso, che il valore del patrimonio sociale realizzato alla fine dell'esistenza della società fosse di gran lunga inferiore a quello potenziale.

Cio' spiega anche perché neppure l'assemblea dei soci potrebbe, ai sensi del secondo comma dell'art. 2452, autorizzare i liquidatori a compiere un atto cosi' contrario ai loro doveri e come, pertanto, non giovi al ricorrente richiamare la citata norma.

Ne' le suddette considerazioni sembrano perdere di valore qualora l'atto del 7 gennaio 1982 fosse stato posto in essere per svendere il patrimonio sociale non a terzi, ma agli stessi soci-amministratori e liquidatori della società. Infatti, se e' ben vero che i soci sono perfettamente liberi di porre la società in liquidazione e - detratti tutti i debiti - di ripartirsene l'attivo, e' anche vero, pero', che, a tal fine, devono servirsi delle forme legali appositamente previste dalla legge proprio per il suo conseguimento, senza che possano ritenersi loro consentiti altri atti distorsivi della realtà e, in quanto tali, incompatibili con il principio della chiarezza che deve essere osservato in tutti i momenti della vita della società.

Col secondo motivo di ricorso si denunzia la violazione degli artt. 1362 e 1369, codice civile in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5, codice procedura civile, lamentando che i giudici di merito non avrebbero potuto ravvisare inesistenti nella convenzione del 7 gennaio 1982 due contratti preliminari di compravendita con cui le società S. Felice del Golfo e Immogarda si erano impegnate a trasferire al Piva ed al Carlucci i rispettivi patrimoni immobiliari (gli stessi patrimoni, cioè, oggetto del contratto parasociale) per il prezzo da esse insindacabilmente stabilito. La convenzione de qua, infatti, era stata espressamente sottoscritta dal Piva e dal Carlucci non soltanto in proprio, ma anche nella qualità di soci amministratori e futuri liquidatori delle due società e conteneva, altresì, altre espressioni letterali che dovevano necessariamente far riferire gli impegni assunti anche alle due società, espressioni che nella sentenza impugnata, invece, erano state completamente ignorate. Del resto la sussistenza dei suddetti contratti preliminari era confermata dal comportamento dello stesso Carlucci: tanto vero che egli, in altra causa pendente dinanzi al Tribunale di Milano, aveva chiesto che gli venisse trasferita dalle società la proprietà degli immobili oggetto di detti contratti preliminari e del patto parasociale.

Parimenti la Corte d'appello sarebbe incorsa in ulteriore errore considerando comunque invalidi i medesimi contratti preliminari sol perché stipulati senza le necessarie delibere assembleari.

In proposito, invero, avrebbero omesso di considerare che le società avevano ratificato e parzialmente eseguito i contratti preliminari de quibus con le delibere delle assemblee totalitarie del 4 marzo 1982.

Infatti, dato il dissidio tra il Piva ed il Carlucci, la forma totalitaria di dette assemblee si poteva spiegare solo con la volontà dei soci, recepita dalle assemblee stesse, di autonominarsi liquidatori per dare esecuzione ai predetti contratti preliminari.

Su codesta circostanza si sarebbe offerto di testimoniare lo stesso avvocato (Pistolesi) che ha sottoscritto il ricorso per cassazione ora in esame "sicché la gravata sentenza avrebbe dovuto tenerne conto e, occorrendo, avrebbe dovuto, in applicazione dell'art. 295, codice procedura civile, sospendere il presente giudizio in attesa dell'esito dell'altro".

Anche questo secondo motivo e' assolutamente infondato sia perché l'interpretazione della comune volontà delle parti (e quindi anche della veste con cui essi vollero contrattare) costituisce un apprezzamento di fatto, come tale rimesso al giudizio insindacabile del giudice di merito quando non sia inficiato da distorsioni logico-giuridiche che il ricorrente non riesce a dimostrare, sia perché - a tutto concedere - trattandosi, secondo l'assunto del ricorrente, di un preliminare di vendita posto in essere dalle società (rappresentate dai loro amministratori) a favore di essi medesimi (o delle persone che essi avrebbero nominato), questi avrebbero dovuto astenersi da ogni delibera al riguardo per l'evidente conflitto d'interessi (preso in considerazione anche penalisticamente nell'art. 2631, codice civile) con gli interessi della società.

E quanto sopra e' sufficiente a rendere vane tutte le argomentazioni esposte nel motivo in esame.

(omissis).