Trib. di Verona 03-04-1990 - Pres. Iannetti - Est. Fabiani - Fall. Conceria Colognese s.p.a. c. Banca Popolare di Novara soc. coop. a r.l.

 

Il Tribunale (omissis ...).

L'azione proposta dalla curatela, va esattamente qualificata alla luce dell'art. 67, secondo comma, legge fallimentare, in guisa che era onere dell'attore dimostrare che era intervenuto un pagamento da parte dell'imprenditore fallito entro l'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento e che il convenuto era a conoscenza dello stato di decozione del fallito.

Così riassunto il contenuto della odierna controversia in termini di qualificazione della domanda, va precisato che l'oggetto del giudizio va delineato nel contesto della vaexata quaestio della revocabilità delle rimesse eseguite dall'imprenditore sui propri conti aperti presso gli istituti di credito.

L'esame delle questioni che il Collegio si trova a dover affrontare può seguire il ritmo quale è stato scandito dalle eccezioni di rito e di merito, formulate dalla difesa della Banca Popolare di Novara. Per la complessità e articolazione delle esposizioni difensive di parte convenuta, sembra utile tracciare il percorso argomentativo della presente decisione.

Si procederà, così, alla disamina dei seguenti temi:

1) eccezioni processuali e di rito, in genere;

2) difese relative all'accertamento del contenuto oggettivo degli atti da sottoporre a revocatoria;

3) difese aventi ad oggetto la contestazione della conoscenza, da parte della banca, dello stato di insolvenza della Conceria Colognese s.p.a.

Con riferimento al primo tema, vanno individuati dei sub argomenti:

1/a) improcedibilità dell'azione per difetto di autorizzazione ex art. 31§legge fallimentare;

1/b) nullità delle prove assunte;

1/c) nullità della consulenza tecnica;

1/d) inammissibilità del supplemento di relazione del c.t.u.

1/a) Con il primo mezzo di difesa, la Banca Popolare eccepisce che sussisterebbe difetto di legitimatio ad processum da parte della curatela, per essere la autorizzazione rilasciata dal giudice delegato ex art. 31 legge fallimentare, inficiata da nullità per eccessiva genericità; infatti, secondo la prospettazione difensiva, la domanda presentata dal curatore per stare in giudizio e il relativo decreto di autorizzazione non espliciterebbero il contenuto delle azioni revocatorie da esperire, contenendo entrambi gli atti, una menzione generica dell'art. 67 legge fallimentare. In concreto, va osservato che il curatore aveva richiesto di agire in revocatoria contro 15 istituti di credito e che il giudice delegato aveva "autorizzato il curatore a procedere con l' azione revocatoria ex art. 67 primo e secondo comma legge fallimentare nei confronti delle banche sopra indicate ...".

Ciò premesso in punto di fatto, il Collegio osserva che la censura non è fondata. Il combinato disposto di cui agli artt. 25 e 31 legge fallimentare impone al curatore che intenda agire in giudizio, di munirsi della autorizzazione del giudice delegato: tale autorizzazione, che completa la legittimazione della curatela, deve avere ad oggetto l'indicazione della tipologia della domanda che si intende esperire: nel caso in esame, nel decreto si è fatto riferimento all'art. 67 primo e secondo comma legge fallimentare. Orbene, seguendo quella che è stata, sinora, l'impostazione fornita dalla giurisprudenza alla tematica in esame (sin dall'entrata in vigore della legge), deve affermarsi che il decreto non può non contenere gli elementi minimi idonei a caratterizzare l'azione, senza, però, che sia necessaria una specifica descrizione analitica del petitum, quando questo sia ben evidenziato. Nel caso che ci occupa, sembra al Tribunale che ciò sia avvenuto con la indicazione del termine "azione revocatoria fallimentare" (in giurisprudenza, sulla inutilità di eccessivi formalismi nel contenuto della autorizzazione, Cass. 13 dicembre 1986, n. 7492; Cass. 23 maggio 1986, n. 3453; Cass. 5 febbraio 1982, n. 652; Cass. 6 agosto 1979, n. 4558, per citare, soltanto, talune delle più recenti decisioni del Supremo collegio). La prima eccezione, può, quindi, essere superata. (omissis ...).

Riprendendo quanto elaborato, il Collegio deve passare all'esame delle questioni afferenti all'accertamento del contenuto oggettivo degli atti da sottoporre a revocatoria fallimentare.

Seguendo l'impostazione lessicale dell'art. 67 secondo comma legge fallimentare, occorre stabilire quali siano stati i pagamenti eseguiti dalla Conceria Colognese alla Banca Popolare di Novara, nell'anno anteriore alla declaratoria di fallimento.

Poiché la sentenza dichiarativa dell'insolvenza, è stata pronunciata il 20 gennaio 1986, potranno essere presi in esame i pagamenti successivi al 20 gennaio 1985.

La verifica che si rende necessaria, può essere condotta, mediante l'analisi scomposta di taluni argomenti che, sempre, si ripetono nelle controversie aventi ad oggetto la revocabilità delle rimesse in conto corrente:

2/a) individuazione del contenuto concreto dell'espressione "pagamento" nel contesto dei contratti di conto corrente bancario;

2/b) valutazione della teoria della revocabilità delle rimesse su conto non affidato o ultra fido;

2/c) valutazione della teoria della "differenza fra massimo scoperto e saldo finale";

2/d) individuazione "dell'affidamento" nel conto relativo agli effetti salvo buon fine (sbf);

2/e) individuazione "dell'affidamento" nel conto corrente di corrispondenza;

2/f) valutazione, ai fini dell'accertamento degli atti aventi, asseritamente, natura solutoria, del saldo contabile, del saldo per valuta e del saldo disponibile;

2/g) elencazione degli atti aventi efficacia solutoria.

2/a) Negli atti allegati al fascicolo di parte attrice (e riportati fra i documenti contenuti nella consulenza tecnica), compare una elencazione delle rimesse eseguite dalla Conceria Colognese sui conti correnti e, ad esse, viene assegnata una funzione solutoria. Poiché questo elenco non coincide per nulla con quello stilato dal c.t.u., v'è da pensare che la curatela, in sostanza, abbia richiesto la revocatoria di tutte le rimesse eseguite, per oltre L. 6.000.000.000.

Come è ben noto alle parti, prima del 1982, non si era formato un indirizzo giurisprudenziale ben preciso in tema di revocabilità delle rimesse in conto corrente; mette conto di ricordare, infatti, che in talune pronuncie giudiziali si era pervenuti alla revoca indiscriminata di tutti i versamenti effettuati, senza alcuna indagine sulla portata delle singole rimesse. Per superare tale impasse, l' unica strada da percorrere era quella di approfondire la struttura del conto corrente, onde verificare il rapporto fra versamento eseguito dal cliente ed effetto determinatosi sul conto corrente.

Da ormai molti anni a questa parte, la giurisprudenza ripete (e, secondo quella parte di autori critici, in modo tralatizio) che il contratto di conto corrente bancario, è un contratto innominato e misto, con elementi propri del contratto di mandato e del contratto dal quale deriva la disponibilità occorrente per lo svolgimento di un servizio di cassa (negozio che assorbe le singole operazioni in conto corrente) - ciò a partire da Cass. 30 marzo 1955, n. 933, in Foro it., 1956, I, 763, sino alla più recente Cass. 23 maggio 1986, n. 3447, in Il fallimento, 1986, 1324.

Al fronte compatto dei giudici, si contrappone una parte minoritaria della dottrina che, anche recentemente, ha proposto una rivisitazione della qualificazione del contratto di c/c di corrispondenza, proponendo la tesi del "contratto normativo, incapace di esistenza autonoma e necessariamente accessorio ad una delle operazioni bancarie tipiche". Una lettura, in questi termini, del contratto, significherebbe riconoscere ad ogni singola operazione una propria autonomia con l'ovvia e immediata conseguenza che si aprirebbe la strada alla reintroduzione della compensazione nell'ambito del contratto di conto corrente. Ne discenderebbe un completo travolgimento di tutte le posizioni sinora maturate in tema di revocabilità delle rimesse.

La tesi, qui esposta, sembrerebbe reggersi su un dato normativo niente affatto trascurabile: il legislatore avrebbe previsto le operazioni in conto corrente e non, anche, il contratto di conto corrente bancario, di cui, effettivamente, non vi è traccia alcuna nel capo XVII del libro IV del codice civile.

Nondimeno, una lettura sistematica delle norme previste in materia di contratti bancari, consente di ritenere preferibile la tesi secondo la quale esiste un contratto di c/c bancario, dotato di propria causa e propria autonomia.

L'analisi non può non partire dall'art. 1852 codice civile il quale prevede che le operazioni bancarie in genere, possano essere regolate in conto corrente, senza alcuna esclusione: per i fini che, qui, interessano, si pensi alla apertura di credito, allo sconto, alle anticipazioni su documenti, alla convenzione di assegno. Ciascuna di queste operazioni può avvenire in conto corrente, il che significa come fra le parti si possano venire a creare contrapposte ragioni di debito e di credito, all'interno del medesimo rapporto negoziale.

Ma quando fra le parti vi è una complessità di rapporti che trascendono la singola operazione, non si comprende per quale ragione i contraenti non possano stabilire che tutte le operazioni siano regolate in un unico conto che raccolga il tutto. La valutazione della autonomia negoziale non può essere tralasciata; se il cliente e la banca convengono che tutti i reciproci rapporti, confluiscano in unico conto, non v'è ragione per escludere che, pattiziamente, i contraenti abbiano voluto concludere un unico contratto, all'interno del quale, le singole operazioni rilevano, solo, come variazione quantitativa dell'unico rapporto.

Il fatto che, di sole variazioni contabili e non di vera e propria compensazione si tratti, può essere dimostrato dalla circostanza che l'art. 1853 codice civile prevede la compensazione solo se fra banca e correntista esistano più rapporti (ad esempio un deposito e una apertura di credito) o più conti (un conto nel quale vi è apertura di credito ed un conto nel quale si annotano le operazioni di anticipazione su documenti). La disposizione non prevede, invece, la compensazione all'interno dello stesso conto, per il fatto che le reciproche annotazioni sono delle semplici alterazioni quantitative della misura in cui il cliente ha la disponibilità delle somme versate sul conto. Tale affermazione, divenuta, ormai, ripetitiva nelle rassegne di giurisprudenza, sembra al Collegio possa trovare un riscontro di diritto positivo del tutto determinato, laddove nel conto corrente bancario, affluisca anche una apertura di credito.

Infatti, l'art. 1843 codice civile, prevede espressamente che il correntista (cliente) possa utilizzare più volte il credito e possa ripristinare la disponibilità con successivi versamenti. Pertanto, quando nel conto corrente bancario, il cliente disponga di una apertura di credito alla quale siano correlati altri servizi svolti dalla banca, i versamenti eseguiti dal correntista, assumono la natura di rimesse dirette a ripristinare la disponibilità e non hanno efficacia solutoria, per mancanza della esistenza di un debito nei confronti della banca (ciò che esiste, è solo una partita contabile passiva).

La giurisprudenza di legittimità, in particolare, anche recentemente ha escluso l'operatività della compensazione al fine di escludere la revocabilità di talune rimesse (Cass. 23 aprile 1987, n. 3919 in Il fallimento, 1987, 1135; Cass. 29 novembre 1985, n. 5956, in Foro it., 1986, I, 451, in motivazione).

Va, altresì, osservato che, sino al momento in cui il rapporto negoziale rimane in vita (pur nella contestata applicabilità dell'art. 1823 codice civile dettato in tema di conto corrente ordinario), le posizioni vantate da ciascun contraente, dovrebbero considerarsi inesigibili, con la conseguenza che la rimessa effettuata dal cliente non può valere come pagamento in senso tecnico e, con l'ulteriore effetto, che si deve escludere la compensazione (operante solo in presenza di crediti e debiti esigibili ex art. 1243 codice civile).

L'azione revocatoria fallimentare, per queste ragioni, resiste, allora, al meccanismo compensativo di cui all' art. 56 legge fallimentare.

Per quanto sopra esposto, ne discende che, la rimessa eseguita dal correntista, assume valenza di atto solutorio (diretto ad estinguere un debito maturato nei confronti dell'istituto di credito), quando la stessa viene effettuata dopo la chiusura del conto; a quel punto, infatti, non si tratta più di provvedere al ripristino della disponibilità, quanto piuttosto di eliminare un vero e proprio debito. Sulla efficacia solutoria dei pagamenti successivi alla chiusura del conto, la giurisprudenza si è consolidata sia a livello di legittimità che di merito (Cass. 23 aprile§1987, n. 3919, cit.; Cass. 12 aprile 1984, n. 2353, in Foro it., 1984, I,§2796).

Per quanto attiene alla presente controversia, va osservato che la Banca Popolare di Novara ha, nella sostanza, invitato la Conceria Colognese al rientro

dello scoperto, in data 19 agosto 1985; ebbene, in epoca successiva a tale giorno, si registrano, contabilmente, rimesse per L. 155.624.105 (bonifico Eurovana) e per L. 22.134.220 (per anticipo alla esportazione, pagato in parte). Entrambe, per vero, secondo quanto accertato dal c.t.u., sono avvenute, rispettivamente, il 7 agosto 1985 e il 13 agosto 1985, cioè in data anteriore al 19 agosto 1985, quando venne revocato il fido.

La domanda revocatoria, in parte qua, va quindi respinta.

Per verificare se altre rimesse affluite sui conti della Conceria, aperti presso la convenuta, abbiano natura solutoria, occorre procedere alla disamina delle teorie sviluppatesi, nel corso degli ultimi anni, in materia di revocabilità delle rimesse.

2/b) Come si è già accennato, sino al 1982, l'orientamento giurisprudenziale era assai frastagliato, ma non è necessario ripeterne il percorso, dal momento che la Corte suprema, con la pronuncia 18 ottobre§1982, n. 5413 (in Foro it., 1982, I, 2779) - che costituisce uno dei grands arrets in materia -, ha provveduto a fornire una impostazione precisa e articolata delle regole cui uniformarsi per verificare la revocabilità delle rimesse in conto corrente.

E' noto che detta decisione, mentre ha, da un lato, ricevuto il più ampio conforto dai successivi interventi della stessa Corte regolatrice e della prevalenza dei giudici di merito, ha, dall'altro, sollecitato ampie riserve da consistenti settori della dottrina, pur se a distanza di otto anni da quella sentenza, va osservato come gli appunti critici degli autori si siano indirizzati verso taluni aspetti (allora non considerati) posti in evidenza da recenti decisioni di merito e che si esamineranno sub 2/d), 2/e) e 2/f).

Nella ricordata sentenza (e nelle successive, Cass. 4 luglio 1985, n.§4022, in Il fallimento, 1986, 32, Cass. 3 luglio 1987, n. 5819, in Foro it., 1988, I, 850) si è affermato un principio che il Collegio ritiene di condividere integralmente, principio consistente nel distinguere due ipotesi: I) ipotesi del c.d. "scoperto di conto", caratterizzato dalla mancanza di un formale rapporto avente per effetto quello di costituire a favore del correntista un "credito disponibile", ovvero ipotesi del c.d. "sconfinamento" dal fido concesso; II) ipotesi del conto corrente "passivo", assistito da un formale rapporto di concessione di credito.

Ebbene nel caso sub II), se il saldo debitore non supera il limite dell'affidamento concesso, le rimesse che affluiscono sul conto, svolgono la funzione di ripristino della disponibilità che la banca è, contrattualmente, obbligata ad assicurare a disposizione del cliente; mancando un credito esigibile, le rimesse non possono qualificarsi pagamenti.

Viceversa, nel caso sub I), se vi è carenza di rapporto formale di concessione di credito, in tutto o in parte (cioè, tanto nel caso di assenza che di sconfinamento), ogni qualvolta si viene a creare un saldo debitore, a favore dell'istituto di credito, matura un credito liquido ed esigibile immediatamente, e ciò per effetto, tanto delle norme di cui agli artt. 1720 e 1852 codice civile, quanto del regolamento negoziale che riproduce l'art. 7 comma VI delle norme bancarie uniformi in materia di conto corrente di corrispondenza. Per tale ragione, il versamento eseguito dal correntista mira a eliminare il debito e assume valenza solutoria.

Il ragionamento posto in questi termini dalla Corte regolatrice, merita di essere condiviso, posto che applica al tema della revocatoria, i principi sopra elaborati a proposito della natura del conto corrente bancario. Si impone, poi, una considerazione metagiuridica, tutt'altro che trascurabile: la decisione offre sufficiente chiarezza in materia, in guisa che una compatta adesione della giurisprudenza non può che favorire la certezza dei rapporti giuridici.

2/c) Nonostante questa raccomandazione meriti di essere seguita, va segnalato che una parte della giurisprudenza di merito, ha reputato di optare per altra soluzione, cui si richiama espressamente la difesa della Banca Popolare di Novara. La convenuta, per contrastare la domanda della curatela, oppone la tesi della revocabilità della "differenza fra il saldo negativo massimo raggiunto dal conto nel periodo sospetto ed il saldo finale".

Secondo tale teoria, recepita dalle corti milanesi di primo e secondo grado (ma, per quanto risulta dalle pubblicazioni sulle maggiori riviste, confinata, temporalmente, nel biennio 1985/1986), dovrebbero essere assoggettati a revocatoria i pagamenti che abbiano conseguito l'effetto di ridurre, in concreto, il debito verso la banca; la natura solutoria del versamento, si accerterebbe, ex post, verificando se alla chiusura del conto (o, alla data del fallimento, se il conto non fosse stato, ancora, chiuso), il saldo residuale sia inferiore a quello massimo determinatosi nel periodo sospetto. Se in tale ultimo momento il saldo negativo era 100§e alla chiusura del conto era 40, la revocatoria potrebbe colpire pagamenti per 60.

La tesi, effettivamente, desta una certa suggestione, poiché, quanto meno, semplifica una materia non di agevole comprensione. Aderendo a questa impostazione, si trascura, però, un dato di assoluta importanza: la misura del credito concesso dalla banca. La tesi "milanese", pare adattarsi al caso in cui, nel periodo sospetto, la banca non eroghi ulteriore credito alla impresa (che poi fallirà), ma non al caso in esame, ove è pacifico che la Conceria Colognese, ricevette credito dalla Banca Popolare di Novara anche in periodo prossimo alla chiusura del conto (dell'argomento si tratterà al momento di valutare la scientia decotionis). Per comprendere come non si possa condividere quella soluzione, si può pensare al caso in cui la fallita avesse un debito di 100 nei confronti del proprio fornitore, all'inizio del periodo sospetto, debito ridotto a 40,§al momento del fallimento, mentre nel periodo intermedio si sono avute altre forniture per 50, tutte pagate. E' evidente che, in una ipotesi siffatta, la revocatoria dovrebbe colpire pagamenti per 110 (anche se il creditore è "rientrato" per 60).

La dottrina ha criticato questa tesi, sotto un altro profilo (peraltro, egualmente condivisibile), rilevando che il calcolo della "differenza", omette completamente di valutare e distinguere l'ipotesi del conto cui acceda un rapporto di concessione di credito, da quella in cui tale rapporto manchi del tutto.

Entrambe le argomentazioni sopra riferite, consentono di non accedere alla opzione fatta propria dalla Banca Popolare di Novara.

La successiva parte della motivazione avrà, pertanto, come presupposto, l'adesione all'orientamento fatto proprio dalla Corte suprema.

2/d) Premesso che la curatela poteva, astrattamente, aggredire tutti i versamenti eseguiti sui conti correnti oltre il fido concesso, si tratta ora di individuare, dapprima con riferimento al conto n. 4016 relativo alle linee di credito per "anticipazioni di portafoglio commerciale presentato allo sconto e/o salvo buon fine", l'entità dell'affidamento e se vi sia mai stato sconfinamento, in guisa che eventuali rimesse successive potessero assumere valenza solutoria.

E' bene precisare che la Conceria Colognese intratteneva con la Banca Popolare di Novara, due conti correnti, contraddistinti dai nn. 4015 e 4016, come si evince chiaramente dal contenuto delle pagine 182 e segg. dell'elaborato tecnico.

L'affermazione fatta dal c.t.u. a pagina 93, secondo la quale vi era un unico conto corrente che regolava i rapporti fra le parti, va interpretata nel senso che vi erano più linee di credito, talune delle quali (sconto e sbf) prima di affluire nel conto corrente di corrispondenza, transitavano per un conto anticipi, indicato come il n. 4016. Di fatto, i versamenti eseguiti dalla Conceria o da terzi, compaiono, soltanto, nella colonna "AVERE" del c/c n. 4015 (quello ordinario), che contiene sia versamenti veri e propri provenienti dall'esterno del rapporto banca/cliente (contanti, assegni, bonifici di terzi, ecc. ...), sia accrediti di importi provenienti dall'interno del medesimo rapporto (anticipazioni connesse alle varie linee di credito).

Nondimeno il Collegio ritiene che la verifica dell'esistenza di un eventuale sconfinamento, vada condotta avendo riguardo a ciascuna linea di credito, dovendosi escludere la sommatoria degli affidamenti. Tale opinione si regge sulla considerazione che la banca privilegia distinte linee di credito (con diversi affidamenti) per il semplice fatto che viene valutato separatamente il rischio afferente a ciascuna linea di credito; così, di regola (ed anche nel caso in esame), la banca riconosce un maggior affidamento laddove abbia a disposizione dei titoli (sconto di effetti o anticipazioni al salvo buon fine), piuttosto che nelle ipotesi in cui vi sia solo la fattura a documentazione della esistenza del credito, specie se vantato nei confronti di clienti esteri. Se l'istituto di credito valuta autonomamente, ai fini della assunzione del rischio, ogni concessione di credito, sembra più corretto che l'individuazione dell'affidamento vada operata con riguardo a ciascuna linea di credito (in questo senso, Trib. Torino 2 giugno 1988, in Il fallimento, 1989, 725; Trib. Torino 6 maggio 1987 in re Amministrazione straordinaria S.I.C.M.U. c. Istituto Bancario S. Paolo di Torino, "inedita"), pur se vanno segnalati anche precedenti, di merito, contrari (App. Roma, 9 febbraio 1987, in Banca, borsa e tit. cred., 1988, II, 638).

Prima di ripercorrere, tappa per tappa, l'iter dell'andamento del c/c n.§4016, v'è da chiedersi se sia possibile la revocatoria di rimesse che affluiscano su conti per anticipazioni. Accanto allo sconto (contratto tipico per la concessione di liquidità), la prassi bancaria ha enucleato altre forme di anticipazioni, quelle su fatture, su ricevute bancarie, su crediti all'importazione e all'esportazione. Allo sconto accede, naturalmente, la cessione del credito, mentre nelle altre anticipazioni il mezzo normale per il rientro della banca è il rilascio di un mandato all'incasso con funzione di autosoddisfacimento. In dottrina non è condiviso il fatto che la concessione di un castelletto di sconto (o di anticipazione) concreti un contratto di apertura di credito (come sostengono Cass. 30 marzo 1967, n. 690, in Giust. civ., 1967, I, 869 e, di recente, Trib. Torino 2 giugno 1988, cit.), ma, comunque, non si contesta che anche per tali rapporti la regolarità della concessione del credito, passi attraverso il mantenimento delle erogazioni nei limiti dell'affidamento.

In tale prospettiva, possono essere utilizzate anche per queste linee di credito le medesime elaborazioni svolte dalla giurisprudenza a proposito del c/c di corrispondenza.

Né va trascurato che le operazioni svoltesi sul c/c n. 4016, affluivano poi nel conto n. 4015 (quello di corrispondenza). Per fare un esempio: in data 24 giugno 1985, sul conto n. 4016 viene caricata la somma di L. 21.393.976 (nel senso che vi è utilizzazione di tale importo, in una ipotetica colonna in "DARE") e, in pari data, sul c/c n. 4015 lo stesso importo viene inserito nella colonna in "AVERE". Poi alla scadenza (31 luglio 1985), sul c/c n. 4016, la somma viene scaricata (qualunque sia l'esito del sbf), mentre nel c/c n. 4015 viene segnato (nella colonna in "DARE") l'importo pari all'esito negativo del sbf (senza considerare il "premio" costo della operazione che la banca ritrae dalla concessione del credito), posto che nel caso di anticipazione non andata a buon fine, sorge a favore della banca, un credito verso il cliente alla restituzione della somma anticipata, di regola non pretesa per cassa, ma "richiesta" tramite annotazione dell'importo sul conto corrente ordinario che presenti saldo attivo o disponibilità derivante da apertura di credito. La conferma di tale modalità operativa, si ricava esplicitamente dalla previsione contenuta nel modulo presentato dalla Conceria Colognese per lo sconto o per il salvo buon fine (ad esempio per l' operazione del 24 giugno 1985, pagina 268).

Nel caso che ci occupa, l'esame contabile ha permesso di escludere che il conto corrente n. 4016 sia mai stato scoperto, in guisa che nessuna partita in "DARE" si è mai traslata sul c/c n. 4015 se non al momento del mancato incasso dei crediti anticipati.

Tale conclusione è di facile lettura sol che si osservi l'ultima colonna del prospetto di cui alle pagine 186 e segg., laddove viene indicato con valore sempre pari a 0 l'eccedenza dell'utilizzo sull'importo affidato. Per quanto attiene a quella linea di credito, infatti, era stato concesso un affidamento base di L. 400.000.000 che, a partire dal 30 gennaio 1984 e sino al 21 giugno 1985 è stato continuamente sottoposto a revisione, talora con la concessione di ulteriori affidamenti "a forfait" (quelli contraddistinti dalla cifra tonda), talora con specifico riferimento a ben precise operazioni.

Sta di fatto che, pur essendo stato utilizzato per oltre L. 1.117.657.139,§la linea di credito è, sempre, stata sotto utilizzata, posto che a tale data l'affidamento in essere ammontava a L. 1.439.050.306. Ritiene il Collegio che gli affidamenti risultanti dal libro-fidi che l'istituto di credito deve tenere ai sensi dell'art. 37 della legge bancaria del 1936, possano essere considerati, ai fini che qui interessano, quando le annotazioni sono correttamente tenute (come appare dalla visione delle pagine 314 e segg.).

Considerazioni del tutto analoghe, vanno ripetute per ciò che concerne i crediti all'esportazione e all'importazione (la cui portata quantitativa, peraltro, è assai più modesta).

Di fronte all'inserimento nel libro-fidi delle singole estensioni, la deduzione critica secondo la quale la concessione di un maggior§ affidamento si rappresenterebbe come atto unilaterale, privo di efficacia contrattuale, non sembra accoglibile.

Infatti nessun elemento è stato offerto per dimostrare che i fidi erano più limitati rispetto a quelli indicati dal c.t.u., salvo la deduzione di un capitolo di prova testimoniale, introdotto per la prima volta alla udienza di precisazione delle conclusioni del seguente letterale tenore: "vero che la Conceria Colognese aveva ottenuto fidi dalla Banca Popolare di Novara in misura corrispondente ai prospetti contabili e ai documenti che vengono esibiti al testimone". Il capitolo, per come è stato formulato, appare certamente generico (e tale da precludere un corretto esercizio del diritto alla prova contraria) atteso che non dà conto di quali documenti potrebbero essere esibiti al teste, ed anche inammissibile ex art. 2721 codice civile. La prova formulata, non può, dunque, trovare ingresso nel presente giudizio.

Quanto sin qui affermato, sembrerebbe condurre ad una affermazione di insensibilità delle operazioni su anticipazioni rispetto alla revocatoria fallimentare. Ma, prima di abbandonare questo tracciato, occorre chiedersi se talune anticipazioni non possano considerarsi, preordinatamente concesse, in previsione dell'estinzione di passività pregresse. Infatti, se è ben vero che, normalmente, l'anticipazione è operazione di concessione di "nuovo" credito, non si può escludere che con lo stesso strumento, si sia voluto ripianare lo scoperto di conto ordinario, con strumenti surrettizi alla cessione dei crediti. La prova di un siffatto comportamento non è, certo, agevole; forse, come sostenuto da un autore, potrebbe la prova ricavarsi dal fatto che dopo l'accredito della anticipazione, al correntista siano inibiti ulteriori utilizzi. Il riscontro di tale situazione, porta a concludere che nel caso in esame ciò non sia avvenuto: si osservi che l'ultimo accredito per anticipazioni (dal c/c n. 4015) risale al 25 luglio 1985 per L. 4.178.601, quando con la stessa data la Conceria emetteva un assegno per L. 10.000.000 (assegno n. 970).

Nessuna "irregolarità" sul c/c n. 4016 può essere rinvenuta, ai fini della azione revocatoria promossa dalla curatela della Conceria Colognese.

2/e) Si può, ora, passare all'esame delle risultanze contabili afferenti al c/c di corrispondenza n. 4015. Su tale conto, la società beneficiava di una apertura di credito per L. 30.000.000 come da lettera-contratto del 7 febbraio 1984; tale affidamento, non risulta essersi mai modificato nel tempo o, quanto meno, non vi sono comunicazioni formali che ciò sia avvenuto; né il libro-fidi della banca, contiene una indicazione contraria. In questa ottica, si dovrebbe affermare che tutti i pagamenti eseguiti quando il conto presentava un saldo negativo eccedente l'importo di L. 30.000.000 dovrebbero essere revocati (ovviamente nel concorso dell'elemento soggettivo).

Non si può però trascurare che, autorevole parte della dottrina assume come gli sconfinamenti tali non debbano essere necessariamente considerati (se non da un punto di vista aritmetico), quando sia possibile riconoscere che vi è stato per facta concludentia una modifica del limite dell'affidamento. Si sostiene che il contratto di apertura di credito è un negozio non formale, non necessariamente da stipularsi per iscritto e, comunque, desumibile dal fatto che la banca tolleri sistematicamente uno "scoperto" e che il cliente utilizzi lo scoperto in limiti ben precisi.

Nel caso in esame questa teoria non sembra invocabile sia per ragioni di diritto che in fatto.

Sotto il primo profilo, dal momento che, di fronte ad un contratto stipulato per iscritto (lettera-contratto del 7 febbraio 1984), una modifica negoziale deve essere compiutamente dimostrata con dati positivi inequivoci, atteso che in subiecta materia, non può non applicarsi il disposto dell'art. 6 delle N.B.U. in tema di conto corrente di corrispondenza (Cass. 3 luglio 1987, n. 5819, cit.).

Nel caso in questione, invece, non è stata fornita alcuna prova del fatto fra le parti sia stato convenuto un ampliamento dell'affidamento, ogni qualvolta (o solo, talvolta) la Conceria utilizzava risorse finanziarie oltre il limite di L. 30.000.000.

Si osserva, da parte della dottrina, che la natura di un versamento non può mutare in dipendenza della regolarità (o irregolarità) formale della apertura di credito; con ciò, per vero, si trascura che una apertura di credito implica che la banca, prima di soddisfare le proprie ragioni, debba rendere esigibile il saldo del conto, revocando l'apertura di credito. Quando, invece, non vi è una apertura di credito, ma semplice tolleranza, la banca può immediatamente esigere il pagamento, essendo esonerata dal mettere il correntista nelle condizioni di ripianare lo scoperto. La scelta degli istituti di credito di privilegiare, talora, gli extrafidi (non formalizzati), deriva dalla esigenza di evitare alcuni controlli della Autorità di vigilanza, ma certo questo vantaggio, non può poi non essere valutato in senso sfavorevole, ai fini dell'azione revocatoria.

La dottrina insiste sul fatto che vi sarebbe una apertura di credito conclusa, concordemente, per facta concludentia, ma a ben vedere, poiché verrebbe a crearsi una modifica dell'originario contratto (qui, limitato a L. 30.000.000 di affidamento), non si può non pretendere che, almeno, l'incontro di volontà (necessario perché si formi un negozio) sia inequivoco. Tollerare in alcune circostanze sconfinamenti dal fido, senza che vi sia una regolarità di tale condotta e senza che gli importi eccedenti siano più o meno omogenei, porta ad escludere che fra la Banca Popolare di Novara e la Conceria Colognese sia mai intervenuto un accordo per ampliare lo scoperto di L. 30.000.000 di cui alla lettera-contratto del 7 febbraio 1984. In tale prospettiva, si è giustamente ritenuto che non sussiste responsabilità della banca, quando cessando senza preavviso la tolleranza dello scoperto, la stessa abbia rifiutato il pagamento di un assegno emesso in eccedenza sul fido concesso (Cass. 25 ottobre 1977, n. 4563, in Giust. civ., 1978, I, 245).

In buona sostanza, ciò che davvero rileva, ai fini della sussunzione dell'orientamento della Suprema Corte nelle fattispecie concrete, è accertare se il rapporto fra banca e cliente possa essere governato dal principio di stabilità ovvero di precarietà. Nel primo caso, ne consegue l'irrevocabilità delle rimesse, nel secondo l'ammissibilità dell'azione revocatoria sul presupposto che ogni versamento costituisce adempimento di una obbligazione debitoria liquida ed esigibile. Così, se non è previsto un termine minimo (seppur ridottissimo) di preavviso per lo scioglimento del rapporto e per la restituzione di somme, il rapporto va ritenuto precario; per quanto interessa nella odierna controversia, deve escludersi che per gli affidamenti consentiti oltre L. 30.000.000, la Conceria Colognese avesse la legittima aspettativa alla prosecuzione del rapporto a tempo indeterminato.

Pertanto, ai fini del calcolo delle somme da assoggettare ad azione revocatoria (nel concorso delle altre condizioni), si terrà conto solo del limite di fido di L. 30.000.000.

2/f) Dopo la fondamentale decisione n. 5413/1982, cit., della Corte regolatrice, la giurisprudenza di legittimità si è assestata su quelle posizioni, mentre fra i giudici di merito sono state percorse altre "traiettorie", nel dichiarato intento di meglio precisare a quale saldo fare riferimento per stabilire se vi sia, o no, sconfinamento.

Nell'articolato panorama giurisprudenziale si sono così venuti ad enucleare diversi indirizzi, nel senso che si dovrebbe aver riguardo a:

I) saldo contabile;

II) saldo liquido per valuta;

III) saldo disponibile.

I) Il saldo contabile è quello che risulta dalla sequenza cronologica delle annotazioni sul conto, indipendentemente dalla disponibilità delle somme accreditate e senza alcun riferimento alla data di decorrenza degli interessi. L'utilizzazione del saldo contabile è stata sostenuta da App. Milano 25 gennaio 1985, in Foro pad., 1986, I, 78, da Trib. Milano 19 settembre 1985, in Il fallimento, 1986, 234.

II) Il saldo liquido per valuta designa la differenza fra le opposte partite contabili (in DARE e in AVERE), avuto riguardo al momento in cui vi è la maturazione degli interessi (è la tesi sostenuta da Trib. Torino 24 aprile 1986, inedita).

III) Infine, il saldo disponibile è quello che risulta nel momento in cui è accertata l'effettiva disponibilità delle somme versate dal correntista.

La tesi è stata recepita da Trib. Venezia 29 settembre 1989, in Il fallimento, 1990, 319 e da Trib. Venezia 28 luglio 1987 e 8 luglio 1987, entrambe in Il fallimento, 1988, 471.

Nessuna delle parti, ha posto la questione della considerazione del saldo per operazione o del saldo giornaliero, ma sul punto va segnalato che la giurisprudenza di legittimità si è già espressa, affermando che deve tenersi conto del solo saldo giornaliero (Cass. 18 aprile 1984, n. 2548 in Il fallimento, 1984, 1353).

La difesa della curatela propugna l'invocabilità di tale ultima teoria, chiaramente più "vessatoria" nei confronti del sistema creditizio. Invero, proprio la presunta natura vessatoria di tale tesi, costituisce la "pietra angolare" delle obiezioni che una parte della dottrina ha sollevato per contrastare questo nuovo "furore revocatorio" di curatori e giudici delegati. Ritenere extra ordinem una tesi, solo perché sfavorevole alle banche, non sembra argomentazione corretta e da condividere. Meno sterile e più fattivo, sembra confrontarsi con tale teoria per verificarne la fondatezza. Il tema va affrontato con specifico riferimento al versamento di assegni sul c/c n. 4015, dal momento che per le anticipazioni su crediti, lo stesso consulente ha riconosciuto la disponibilità immediata delle somme (e, comunque, non vi sono stati sconfinamenti).

I) Il saldo contabile non pare utilizzabile, posto che non tiene in alcun conto il fatto che la registrazione della operazione (sia in DARE che in AVERE) in una data giornata non significa che quell'importo segnato sia a disposizione del correntista.

II) Il saldo per valuta si riferisce al solo computo degli interessi, tanto è vero che gli stessi versamenti di denaro contante e di assegni circolari, viene registrato, ai fini della decorrenza degli interessi, in un momento successivo alla effettuazione della operazione. E' ben vero che, il riconoscimento degli interessi, spesso, viene stabilito convenzionalmente proprio in previsione dell'incasso degli assegni versati, ma si tratta di una regola puramente presuntiva. Il calcolo del saldo liquido per valuta può essere adoperato previo riscontro della sua compatibilità con l'attribuzione della disponibilità delle somme (in questo senso, da ultimo, Trib. Torino 16 ottobre 1989, in Il fallimento, 1990, 336).

III) Diversamente, l'adozione del criterio del computo del saldo disponibile, si fonda sul riconoscimento che, di regola, quanto meno sulla scorta delle clausole quali sono recepite nelle norme N.B.U., gli importi versati dal correntista su assegni bancari emessi da terzi (o propri su altre banche), non sarebbero disponibili se non al momento dell'incasso. Per verificare la fondatezza di questa tesi, occorre prendere le mosse dalla clausola sub 2) della lettera-contratto 7 febbraio 1984 a tenore della quale: "l'importo degli assegni bancari ... è accreditato con riserva di verifica e salvo buon fine ... e non è disponibile prima che la banca ne abbia effettuato l'incasso. E' tuttavia in facoltà della banca di rendere disponibile l'importo anche prima di averne effettuato l'incasso".

Detta clausola sembra riprodurre l'art. 4 delle N.B.U. sui c/c di corrispondenza laddove viene enunciato che l' importo degli assegni versati non è disponibile per il cliente prima dell'incasso del titolo da parte della banca e che la valuta applicata determina, soltanto, la decorrenza degli interessi. Il contenuto di tale disposizione è stato oggetto di contrastanti letture; pur tuttavia va segnalato come i giudici di legittimità siano pervenuti alla conclusione che la clausola ha effetto sospensivo e funziona come condizione della disponibilità della somma (Cass. 30 luglio 1984, n. 4552, in Banca, borsa e tit. cred., 1986, II, 29). Da ciò, peraltro, non può ricavarsene l'effetto retroattivo tipico dell'avveramento della condizione sospensiva, ove si osservi che, così facendo, dovrebbe essere rivisto l'orientamento giurisprudenziale attinente alla affermata irresponsabilità della banca che faccia protestare il titolo messo allo "scoperto", prima cioè dell'incasso da parte della banca. La retroattività della condizione, per vero, è solo un effetto di siffatto istituto; mette conto di ricordare, infatti, che l'art. 1360 codice civile consente che la volontà delle parti possa portare ad un momento diverso (da quello iniziale) l'effetto temporale dell'avveramento della condizione. Nel caso in esame, proprio la previsione negoziale di cui alla clausola sub 2), conferma che le parti hanno convenuto che (salva l'ipotesi di concessione immediata di disponibilità) l'incasso rende disponibile la somma dal momento in cui si verifica e non in un momento anteriore. Non può, quindi, venire paralizzata la tesi del saldo disponibile, solo perché ostacolata dal meccanismo di retroattività della condizione sospensiva. Non sembra, invece, decisivo, il richiamo (pur fatto dal tribunale veneziano) alle circolari della Banca d'Italia 23 novembre 1978, n. 13671 e 16 febbraio 1981 n. 14289 secondo le quali la presentazione di un titolo tratto su altra banca non conferisce all'Azienda disponibilità di tesoreria se non dopo l'avvenuto incasso, posto che tale previsione pare meglio attagliarsi alla regolamentazione dei rapporti fra istituto e istituto e non verso il cliente; può, questo dato, assumere, comunque, un valore indiziario del fatto che il mancato incasso non può consentire disponibilità della somma.

Se l'istituto di credito, uniformandosi al contenuto dell'accordo (la cui desuetudine applicativa è, ad avviso di una parte della dottrina, il primo argomento contrario alla tesi sin qui esposta), non rende disponibili le somme formalmente accreditate, "contabilmente", in conto, non v'è dubbio che il successivo versamento da parte del cliente, sia solutorio perché diretto a saldare una posizione di debito esigibile. Qualora, invece, la banca abbia (come è in sua facoltà) reso disponibile l'importo sotteso al titolo versato, v'è da chiedersi quale sia la natura di tale atto, da parte della banca.

Prima di approfondire tale circostanza, occorre chiedersi se, nel caso in esame, la Banca Popolare abbia concesso alla Conceria, la disponibilità delle somme. Ad avviso del Collegio, dovrebbe fornirsi risposta positiva, posto che non consta che la convenuta abbia protestato gli assegni emessi dalla società fallita o, altrimenti, dimostrato che la società non poteva utilizzare quelle somme.

Ciò premesso, va ricercata la natura giuridica della scelta della banca di concedere la disponibilità. Per come è espressa la clausola da un punto di vista lessicale, si dovrebbe pensare che si tratta di una manifestazione unilaterale di volontà, abdicativa del diritto di non concedere disponibilità se non al momento dell'incasso dell'assegno.

Ebbene, in questa prospettiva, il contegno della banca che consenta prelievi sugli importi accreditati, sembra possa essere assimilato alla tolleranza che l' istituto mantiene nelle ipotesi di sconfinamento. Vi sarebbe, pertanto, una precarietà nel rapporto, tale da escludere la legittima aspettativa del correntista a che il trattario faccia fronte (con propri fondi) al pagamento.

L'instabilità del rapporto significa, nell'inquadramento sopra riportato, esigibilità del credito della banca che, così operando, concede occasionalmente credito al correntista. Il fatto che il credito della banca sia immediatamente esigibile, in assenza del diritto del cliente ad essere informato di una contraria volontà della banca (di far fronte al pagamento), sembra confermato dall'art. 11 della lettera-contratto 7 febbraio 1984 relativa alla negoziazione di assegni sull'Italia.

Si dice, infatti, che il cliente è tenuto a rimborsare "a semplice richiesta" gli assegni di cui la banca non sia in grado di conoscere l'esito o di cui non sia in grado di avere la disponibilità del ricavo. Si può sostenere che la banca, legittimamente, dopo il prelievo dell'importo indisponibile, possa stornare a debito l'importo utilizzato, senza dover fornire alcuna informazione al correntista.

E' possibile concludere che, nell'ottica "unilaterale", la concessione di credito da parte della banca equivale a tolleranza di scoperto, in modo da "preparare" la revocatoria.

Ma l'espressione usata nella clausola derogatoria sub 2), potrebbe avere, anche, un altro significato: la norma avrebbe una valenza programmatica, nel senso che la banca può rinunciare al vantaggio di non rendere disponibile l'importo, accordandosi con il cliente e riconoscendogli tale facoltà. Una lettura siffatta, pare confortata dalla Circolare A.B.I. del 5 giugno 1979, secondo la quale le concessioni di utilizzo di assegni accreditati prima della verifica o dell'incasso possono aversi sulla base di fidi aggiuntivi interni, di carattere generale e automatico e che non debbono essere né annotati a libro fidi né comunicati alla Centrale dei Rischi.

Secondo questa impostazione, parrebbe corretto riconoscere che la facoltà per la banca si atteggia quale semplice accettazione della proposta negoziale dal correntista sottesa alla emissione di un assegno allo "scoperto". Che l'emissione di un assegno possa qualificarsi come richiesta di un mutuo occasionale, non sembra agevole da affermare, dal momento che presuppone che il cliente abbia la consapevolezza, al momento della messa in circolazione del titolo, della inesistenza della disponibilità (fatto questo che, quanto meno in questa sede, non risulta dimostrato).

Ma, anche diversamente opinando, resterebbe da osservare che il contegno della banca, si risolverebbe in una condotta meramente omissiva (mancata elevazione del protesto) rispetto ad una volontà del cliente non nota; la banca, infatti, non può conoscere quale sia la volontà del correntista, nel momento in cui emette l'assegno. Un contratto perfezionato per fatti concludenti presuppone che vi sia certezza sulla inequivocità dei rispettivi comportamenti.

L'obiezione che ciò sia avvenuto, non trova, in punto di fatto, alcuna giustificazione, dal momento che la banca ha tollerato che la Conceria Colognese eseguisse dei prelievi a fronte dei versamenti di assegni, ma non vi sono parametri univoci dai quali desumere che un accordo, seppur tacito, si fosse concluso.

Con riferimento alla convenzione di assegno, è noto come il prevalente orientamento della giurisprudenza, ritenga applicabili le norme in tema di mandato; ebbene, in questa ottica, il mandante (cliente) è tenuto a somministrare al mandatario (proprio istituto di credito) i mezzi necessari per l'esecuzione dell'incarico. Quando il mandato consiste nel pagamento di una somma a terzi, qualora il mandatario provveda (art. 1720 codice civile) con i propri mezzi ad eseguire il pagamento (perché nel conto non vi è, ancora, disponibilità effettiva, non essendo stati incassati titoli versati dal correntista), le anticipazioni devono essere rimborsate dal mandante: l'anticipazione determina l'insorgenza di un credito liquido ed esigibile a favore del mandatario, in guisa che il rimborso si appalesa come estinzione di un debito ed assume valenza solutoria.

A conforto della tesi della utilizzabilità del saldo contabile, si afferma che l'assegno (di terzi) viene negoziato dal cliente alla propria banca, alla quale viene trasferita la proprietà del titolo per un corrispettivo rappresentato dalla differenza di valuta fra quella che essa riceve dalla banca trattaria e quella che invece riconosce al correntista. Questa tesi appare, per vero, più fondata su considerazioni de iure condendo piuttosto che di diritto positivo, posto che si trascura che l'assegno, di regola (e salvo prova contraria, non fornita) viene presentato alla banca solo "valuta per l'incasso"; tale fatto esclude che vi sia una cessione del titolo. D'altra parte va osservato che la legge prevede (art. 1859 codice civile) lo sconto di assegni, operazione nella quale è contenuto il trasferimento della proprietà del titolo; laddove, però, sconto di assegni non vi sia (e nessuna prova è stata data in tal senso), non si può attribuire all'operazione di presentazione di un assegno per l'incasso, il trattamento proprio di altra previsione legale tipica (lo sconto di assegni). La dottrina ha ben evidenziato come la girata per l'incasso escluda il trasferimento del titolo in piena proprietà.

E' quindi possibile concludere che, il saldo da tenere in considerazione sia soltanto, il saldo disponibile. Tale criterio importa, per vero, delle difficoltà pratiche di non scarso rilievo, posto che è sommamente difficile stabilire quando vi sia stato l'incasso del titolo. Per questa ragione concreta, di natura assorbente, sembra al Collegio che la valutazione del c.t.u., di considerare disponibile la somma due giorni feriali dopo la presentazione nel caso di assegni su piazza e quindici giorni dopo, nel caso degli assegni fuori piazza, sia congrua ed equilibrata. Nella prima ipotesi, dopo due giorni la banca può conoscere l'esito dell'incasso, perché l'assegno viene presentato nella stanza di compensazione nel giorno successivo. Nella seconda ipotesi, i quindici giorni sono stati presi in esame perché coincidono con il termine ultimo per la levata del protesto ex artt. 32 e 46 legge ass.

Ai fini della individuazione delle somme revocabili, si terrà conto di tali aspetti.

(omissis ...).

3) Definito il contenuto oggettivo della azione, occorre ora passare alla disamina dell'elemento soggettivo: la prova della scientia decotionis.

Anche con riguardo a tale tema, possono essere formulati dei sub argomenti.

3/a) Individuazione dell'onere probatorio.

3/b) Disamina delle risultanze istruttorie.

3/c) Ammissibilità della prova con ricorso alle presunzioni.

3/d) Presunzioni tipiche.

3/e) Importanza del bilancio.

3/a) La curatela ha introdotto in questa causa una domanda revocatoria fondata sull'art. 67, secondo comma legge fallimentare; era, pertanto, onere della attrice, provare che la parte convenuta era a conoscenza, nel momento di ciascun pagamento, dello stato di insolvenza della Conceria Colognese.

3/b) L'esame delle prove orali non consente di svolgere argomentazioni convincenti né nel senso favorevole alla tesi del fallimento, né a favore della difesa della banca.

I testi introdotti dalla convenuta hanno insistito nell'affermare che la Banca Popolare di Novara è venuta a conoscenza dello stato di insolvenza solo nell'agosto del 1985, epoca che coincide con quella in cui sono stati interrotti i rapporti. Il teste Ulliana ha riferito che nessun sintomo del dissesto si era manifestato in epoca anteriore.

Dall'altra parte, i testi introdotti dal fallimento, hanno confermato, in sostanza in modo conforme, talune circostanze che il Collegio ritiene equivoche o insufficienti.

I testi Longo e Centomo, in particolare, hanno dichiarato che nelle ricevute bancarie o sulle tratte, venivano indicati, a caso, numeri di fatture o inesistenti o già pagate o già presentate per l'anticipazione. Sul punto va osservato che il c.t.u. ha concluso che, formalmente, i documenti presentati presso la Banca Popolare di Novara apparivano regolari (pagina 681). D'altra parte non sembra che la banca avesse la possibilità di effettuare un riscontro di corrispondenza fra la ricevuta o la tratta e la fattura; la mole dei crediti ed il fatto che, per lungo tempo, le insolvenze dei clienti fossero assai modeste, non poteva indurre la convenuta ad un controllo che esula dalla normale diligenza.

Egualmente, il fatto che fra i debitori comparissero spesso nomi di clienti sempre uguali (ditte Lazzari e Lacopel) non sembra così decisivo, sol che si pensi come il numero di queste fatture non è elevato in modo non proporzionale al volume di affari e ai nomi degli altri clienti.

Più significativo, pure quanto dichiarato dai testi Centomo e Scotton, laddove si afferma che era la stessa Conceria a pagare, alla scadenza, le tratte e le ricevute, consegnando ai clienti assegni circolari per pari importo. La circostanza assume una valenza non trascurabile, ma non è stato provato che tale fatto fosse direttamente a conoscenza dei dipendenti della banca. Infatti, la circostanza che gli assegni fossero intestati a nomi di fantasia poco significa, ove si osservi che di fronte ad un assegno circolare è normale che il personale della banca non presti particolare attenzione.

Sia dalle deposizioni in atti che dai riscontri documentali, si ricava che nei primi otto mesi del 1985, la Conceria aveva fatto circolare assegni per oltre L. 23 miliardi; tale elemento, di una certa consistenza, va però ridimensionato se confrontato con il notevole fatturato della azienda.

In sede di istruttoria orale è, altresì, emerso che nei primi mesi del 1985, il Banco di Roma aveva ottenuto la cessione di un credito IVA di circa L. 2.500.000.000; da ciò non è, però, derivato che alla Banca Popolare di Novara, la notizia fosse nota.

Gli elementi acquisiti in sede di udienza sembrano, dunque, eccessivamente equivoci.

3/c) La prova relativa all'accertamento della conoscenza dello stato di insolvenza, involge la verifica di stati soggettivi. Per tale ragione, essendo estremamente difficile fornire una prova positiva di tipo oggettivo (Cass. 23 giugno 1977, n. 2667, in Dir. fall., 1977, II, 583), la giurisprudenza si è consolidata nell'affermare che il curatore può dare la prova anche facendo ricorso alle presunzioni.

Poiché la prova in questione, può essere assunta con ogni mezzo, ne deriva che, una volta accertato come sussistano e siano noti elementi esteriori attraverso i quali il dissesto solitamente si manifesta, elementi che debbono essere percepiti da una persona di normale diligenza, al giudice è consentito ricavare che l'insolvenza resa così conoscibile, fosse stata effettivamente conosciuta dalla parte in bonis (Cass. 5 febbraio 1985, n.§792, in Il fallimento, 1985, 832; Cass. 13 dicembre 1980, n. 6450, in Foro it. Mass., 1980, 1228). Dalla conoscibilità di determinati fatti, si può presumere la conoscenza dello stato di insolvenza, purché il procedimento logico sia immune da salti; non si potrebbe far ricorso, quindi, alle cc.dd. "presunzioni presunte".

Anche in subiecta materia, le presunzioni devono assumere il grado di gravità, precisione e concordanza (Cass. 28 dicembre 1988, n. 7070 e 13§dicembre 1988, n. 6776, entrambe in Il fallimento, 1989, 599 e 502), pur se non è necessaria la pluralità delle presunzioni (Cass. 8 marzo 1973, n. 629, in Foro it., 1973, I, 2828; Cass. 7 gennaio 1967, n. 60, in Dir. fall., 1967, II, 436).

3/d) La difesa della convenuta, oppone che la curatela cercherebbe di provare la scientia decotionis per presunzioni, omettendo di far ricorso alle presunzioni tipiche, quali sono la diffusione di protesti. Ebbene, premesso che non vi sono presunzioni tipiche o atipiche, per come la Conceria ha svolto la propria attività nell'ultimo periodo (per quanto si ricava dal contenuto della relazione del curatore ex art. 33 legge fallimentare, acquisita in causa nel fascicolo del fallimento), è logico pensare che un solo protesto avrebbe fatto "saltare" tutta la costruzione architettata dalla società per ottenere credito dalle banche. Dal momento che la Conceria ha operato solo finanziariamente (o quasi), nessun assegno poteva finire in protesto.

Nondimeno, va osservato che il curatore può introdurre ulteriori elementi di rango presuntivo, per dimostrare il proprio assunto.

3/e) In questo contesto, si spiega l'importanza che è stata data al bilancio depositato dalla società negli anni 1983 e 1984.

Il Collegio ritiene che le valutazioni del c.t.u. siano estremamente corrette e puntuali, tali da poter essere pienamente condivise; in particolare occorre soffermarsi sulle valutazioni del bilancio del 1984,§dal momento che dal bilancio dell'esercizio precedente, come afferma il consulente, emergono elementi dai quali era possibile desumere lo stato di difficoltà della società, nozione ben diversa da quella di insolvenza come da qualche tempo sta mettendo in luce la giurisprudenza di merito, rimeditando l'orientamento della Suprema Corte, a proposito della retrodatazione degli effetti della sentenza di fallimento alla amministrazione controllata, ai fini del computo del periodo per l'esercizio delle azioni revocatorie (da ultimo, Trib. Milano 25 settembre§1989 in Il fallimento, 1990, 334).

Per quanto riguarda, invece, l'anno 1984, il dr. Rubini ha evidenziato che la società versava in uno stato di crisi irreversibile in assenza di un massiccio intervento finanziario. Tali conclusioni consentono di affermare che, al momento di deposito del bilancio, ogni creditore avveduto, era in grado di rilevare che l'attivo evidenziato nel bilancio (circa mezzo miliardo) era del tutto inattendibile e che la Conceria Colognese si trovava in uno stato di dissesto finanziario non rimediabile.

Meritano di essere esaminate, analiticamente, le ragioni che hanno condotto il c.t.u. a siffatte conclusioni. Segnatamente, va rilevato come il bilancio non sia stato improntato al rispetto della normativa civilistica e come, invece, siano stati impiegati criteri valutativi di natura fiscale, ben lontani dalla logica economica. In particolare, pur in un contesto ambientale caratterizzato da alta inflazione, la società non prevedeva adeguati fondi di svalutazione dei crediti e del magazzino. Così gli indici di attendibilità del bilancio sono inferiori all'1% (dovuto alla voce del magazzino), in guisa che l'utile d'esercizio è, del tutto, privo di realistico significato, atteso che un margine minimo di errore nella valutazione del magazzino (2,5%), avrebbe azzerato l'utile stesso.

Illuminanti appaiono anche i grafici degli impieghi e della liquidità di gestione reddituale (all. 4/9/8 e 1/11/8), dai quali si evince, da un lato che il rischio di insolvenza è particolarmente elevato laddove un immobilizzo di crediti o una valutazione poco prudenziale del magazzino costituiscono fattori di tensione in tesoreria; dall'altro lato che il deficit di liquidità è intenso nel 1984.

A pagina 468 si afferma che il flusso di cassa del 1984 è praticamente immutato rispetto agli esercizi precedenti in presenza, invece, di una quintuplicazione del fatturato. Decisivo si appalesa, poi, il fatto che nel 1984 il flusso di cassa consenta, solo, di coprire gli interessi passivi in ragione del 36%.

L'eccessivo sovraindebitamento della società, è riassunto dal c.t.u. nelle conclusioni a pagina 515, ove si ribadisce che la crisi della Conceria era irreversibile.

L'attendibilità delle elaborazioni del dr. Rubini, risulta confermata dalla lettura della c.t.u. svolta dal prof. Giuseppe Bruni il quale, nominato consulente nella causa promossa dalla curatela nei confronti degli amministratori e dei sindaci, ha, nel proprio elaborato (prodotto dalla difesa della banca) osservato che il deficit della società era grave nel 1984, che il capitale sociale era perduto interamente già nel 1983, che, infine, i dati di bilancio non erano attendibili.

La Banca Popolare ha prodotto una relazione del proprio c.t.p. dott. Carlesso, nella quale viene evidenziato che la Conceria si trovava in una situazione finanziaria migliore della maggior parte delle aziende del medesimo settore merceologico e che, comunque, la lettura del bilancio poteva far nutrire dubbi e non certezze sullo stato di crisi.

Il Collegio ritiene che, pur dovendosi prendere atto delle repliche del c.t.u., le obiezioni mosse dal consulente di parte, possano essere superate dal fatto che, l'indagine comparativa con aziende dello stesso settore, qualora conducesse alle conclusioni raggiunte dal dott. Carlesso, sarebbe comunque irrilevante, dal momento che la crisi di un settore industriale non elimina la crisi della singola impresa ed il creditore avveduto ben conosce che, non raramente, l'insolvenza dipende proprio dalle difficoltà del mercato. Quanto al fatto che la lettura del bilancio potesse dar adito a dubbi sembra contestabile per il fatto che, intuitivamente, la voce del magazzino era sovrastimata in misura tale da non poter non ingenerare seri ed inequivoci sospetti, come ben hanno evidenziato il dr. Rubini e il prof. Bruni.

Possono, quindi, essere disattese le obiezioni svolte dalla banca sulla non attendibilità della c.t.u.

Nel sistema creditizio, costituisce fatto notorio che l'azienda bancaria si faccia rilasciare dalle società "affidate", copia dei bilanci di esercizio, assai spesso, ancor prima della loro approvazione. Nel caso di specie, l'approvazione del bilancio è avvenuta il 30 aprile 1985 e la sua pubblicazione segue di un mese, essendo avvenuta il 30 maggio 1985. Quanto meno dall'1 giugno 1985, si può affermare che il bilancio sia entrato in circolazione; da tale data si può far iniziare il momento in cui è avvenuta la conoscenza dello stato di insolvenza. L'importanza del deposito del bilancio ai fini della acquisizione della prova della scientia decotionis è già stata considerata dalla giurisprudenza (Trib. Rimini 22 novembre 1985, in Foro romagnolo, 1987, 35; App. Milano 28 ottobre 1983, in Il fallimento, 1984, 561; Trib. Torino 10 giugno 1982, in Il fallimento, 1982, 1516).

Questo elemento presuntivo può collegarsi ad una ulteriore circostanza; il c.t.u. ha indicato come i tassi di interessi passivi praticati dalla convenuta si collocassero nella fascia "media". Se tale fatto, in assoluto, può costituire un punto a favore della tesi della banca, nel caso in esame, sembra ragionevole affermare che, per una azienda che si considerava leader (cfr. relazione dell'amministratore, pagina 579) e che aveva un fatturato enorme (tale da poterla collocare fra le aziende di massima importanza che una banca può vantare), la mancata applicazione dei tassi più favorevoli può significare che la Conceria Colognese non era considerata affidabile.

Se a tali osservazioni si replicasse che in presenza di indizi negativi non si giustificherebbe la protrazione del rapporto, varrebbe affermare che tale fatto è equivoco se lo si valuta come speranza nel superamento dell'affidamento.

Riassumendo il contenuto delle varie proposizioni sinora esposte, il Tribunale reputa che siano revocabili, in quanto atti solutori, tutte le rimesse eseguite a partire dall'1 giugno 1985.

Se si prendono in esame i versamenti quali sono stati elencati al punto 2/g, vanno revocate le rimesse contraddistinte dai nn. 16 in poi.

Il totale di tali rimesse, ammonta a L. 470.899.389 (lire quattrocentosettantamilioniottocentonovantanovemilatrecentoottantanove)

I pagamenti, per tale somma, vanno dichiarati inefficaci ai sensi dell'art. 67 secondo comma legge fallimentare.

La curatela ha richiesto la condanna della convenuta al pagamento degli interessi e del maggior danno da svalutazione monetaria. La banca convenuta oppone che il fallimento non subisce alcun danno dal corso della svalutazione della moneta e che, comunque, non sarebbe provato il maggior danno. Il Tribunale ritiene, invece, che anche la procedura fallimentare sopporti un pregiudizio per il mancato tempestivo riversamento della somma richiesta in revocatoria.

Poiché il curatore è obbligato a versare presso un istituto di credito quanto apprende nel corso della procedura (art. 34 legge fallimentare), è evidente che se le somme fossero state consegnate al curatore all'epoca della domanda, le stesse avrebbero dovuto essere depositate e, di conseguenza, avrebbero comportato il decorso di interessi superiori al tasso legale, posto che i libretti di risparmio, nel periodo 1986/1990,§per fatto notorio fruttano interessi in misura superiore al 5%. Più esattamente tale saggio si può stimare nel 6% (11% meno il 5% legale) per il 1987; nel 5% per il 1988 e 1989; nel 4% nel 1990.

Orbene, posto che la causa è stata radicata con atto di citazione notificato il 23 dicembre 1986 e che la somma capitale va, a questi fini, arrotondata a L. 470.000.000, in via equitativa può essere determinato in L. 80.000.000 il maggior danno da svalutazione (sulla ammissibilità della condanna al maggior danno ex art. 1224 codice civile, Cass. 3 aprile 1987,§n. 3227, in Il fallimento, 1987, 1053).

Sull'importo capitale originario, depurato dalla voce che precede, decorrono gli interessi legali dalla domanda e sino al saldo.

L'esito della lite induce il Collegio a disporre una parziale compensazione delle spese di lite; quali parametri di confronto, va segnalato che la domanda viene accolta in ragione (circa) dell'8%; tale fatto impone di pervenire ad una compensazione, pur se non si può escludere una condanna alla rifusione delle spese, dal momento che la parte convenuta, in tutto il corso del giudizio, non ha mai formulato alcuna proposta di pagamento, neppure in via transattiva. La soccombenza residua quale criterio di regolazione delle spese del processo per la quota del 50% che va posta a carico della Banca Popolare di Novara.

Le spese del fallimento, per intero (compresa la parte da compensarsi), possono essere così liquidate: I) per le spese, L. 688.800; II) per i diritti di procuratore (scaglione valore della causa superiore a L. 500.000.000), L. 3.028.500; III) per gli onorari, va applicato lo scaglione da L. 500 milioni a L. 750.000.000 (posto che si tiene conto dell'importo liquidato in sentenza, Cass. 1 giugno 1977, n. 2227, in Giust. civ. Rep., 1977, voce Avvocato e procuratore, n. 58), e tenuto conto della difficoltà delle questioni trattate e della straordinaria importanza della vertenza, possono essere liquidati onorari di avvocato per L. 17.200.000; il totale ammonta a L. 20.917.300. La congruità della liquidazione si ricava implicitamente dal fatto che la nota spese dell'attore è assai più contenuta rispetto a quella della parte convenuta.

Diversamente, per le spese di consulenza ed accessorie, l'onere va suddiviso equamente fra le parti giusta metà, così confermandosi il decreto di liquidazione del giudice istruttore in data 5 maggio 1989 e 13 maggio 1989.

La curatela ha richiesto altresì la concessione della clausola esecutiva. La domanda appare meritevole di accoglimento. La Banca Popolare ha eccepito che la natura costitutiva della azione revocatoria esclude che si possa pervenire a detta statuizione. L'obiezione è fondata nella parte in cui mette in rilievo la natura della azione, ma omette di valutare che, nel caso di declaratoria di inefficacia di pagamenti di somme di denaro, alla pronuncia costitutiva, accede, naturalmente, un effetto restitutorio con riferimento alle somme revocate.

Per questa parte, la concessione della provvisoria esecuzione non pare inammissibile (ed anzi risulta indirettamente confermata da Cass. 10 marzo§1980, n. 1579, in Il fallimento, 1980, 597).

Nel merito, la domanda può essere accolta con riferimento al periculum in mora; per la massa dei creditori, già gravemente penalizzata dall'evento fallimento, la protrazione della procedura concorsuale rappresenta un pregiudizio grave e irreparabile se non bilanciata dalla possibilità di fruire del ricavato di una azione di cognizione senza attendere l'esito delle impugnazioni.

Da ultimo va precisato che la richiesta di sospensione del giudizio per una pretesa pregiudizialità penale, va disattesa, quanto meno, per il fatto che il nuovo codice di procedura penale non contiene più una norma omologa rispetto a quelle del vecchio codice (art. 3 codice di procedura, penale) e non contempla più ipotesi di sospensione obbligatoria.

(omissis ...).