Fonte: Le Società - Giurisprudenza 11 / 1991, p. 1511

Azioni e quote

DELIBERA MAGGIORITARIA DI SOPPRESSIONE DEL PATTO DI PRELAZIONE

Tribunale Verona - Decreto 22 marzo 1991 - Pres. Daffinà - Rel. Platania - Ric. progetti Industriali s.p.a.

con commento di Ugo Carnevali

La società per azioni può procedere, con le maggioranze previste per le modifiche statutarie, a eliminare un vincolo a suo tempo posto che limiti, ai sensi dell'art. 2355, ultimo comma, codice civile, l'alienazione delle azioni nominative, e a ripristinare il regime della libera circolazione (1).

Il Tribunale (omissis).

Osserva:

l'istituto della prelazione non trova nel nostro ordinamento una compiuta regolamentazione essendo la prelazione disciplinata unicamente con riferimento ai contratti di somministrazione, in materia successoria ed agraria e la dottrina e la giurisprudenza hanno avuto incertezza nel procedere all'inquadramento della figura.

Secondo autorevole dottrina comunque, la clausola di prelazione si distingue dal patto di opzione (art. 1331, codice civile) per la mancanza del requisito della attualità e definitività del vincolo. Tale caratteristica distingue altresì la clausola di prelazione anche dalla proposta irrevocabile (che ha comunque natura di negozio unilaterale).

Secondo un consistente orientamento giurisprudenziale il patto di prelazione deve essere inquadrato nell'ambito dei negozi preliminari unilaterali (Cass. 26 aprile 1968, n. 1270 e Id. n. 1445 del 1980).

Secondo altra, e più convincente giurisprudenza (Cass. 23 gennaio 1975, n. 265) il patto di prelazione non rientra nello schema del contratto preliminare unilaterale sottoposto a condizione sospensiva potestativa consistente nel fatto che il promittente si determini al negozio; il patto di prelazione ha la struttura di un contratto puro nè preliminare nè condizionato in senso tecnico ma al più e lato sensu preparatorio e prodromico rispetto al contratto definitivo. Pertanto il patto di prelazione non è suscettibile di esecuzione in forma specifica ex art. 2932, codice civile, e la sua violazione ne espone il soggetto gravato ed inadempiente alla responsabilità per danni. Il patto di prelazione si differenzia dal contratto preliminare soprattutto in relazione al contenuto della prestazio

ne dedotta in obbligazione; nel patto di prelazione, infatti, la prestazione consiste nel preferire un determinato contraente mentre nel contratto preliminare la prestazione consiste nella stipulazione di un determinato contratto.

Partendo proprio dalle considerazioni esposte la dottrina prevalente e la giurisprudenza hanno ritenuto che l'introduzione di clausola di prelazione (ma anche di gradimento) proprio perché limitante la libertà di contrattazione, sia possibile solo con l'assenso del singolo socio (per tutte Cass. 8 gennaio 1970, n. 52 e Id. 14 gennaio 1977, n. 171).

Tali decisioni, pronunciate entrambe su fattispecie riguardanti l'introduzione di una clausola di gradimento, pongono l'importante e pienamente condiviso principio, per cui "la disposizione del terzo comma dell'art. 2355, codice civile, rileva un implicito divieto circa l'introduzione delle particolari condizioni, a disciplina pattizia già stabilita, se non con atto dispositivo che abbia struttura soggettiva ed efficacia normativa inter partes eguale a quella del detto atto (così testualmente Cass. n. 52 del 1970)".

Viene ulteriormente specificato che "quando vincoli non siano posti dall'atto costitutivo, i soci di una società possono disporre liberamente delle azioni di cui sono titolari, con il solo rispetto delle forme stabilite in relazione al tipo delle azioni; tale libera facoltà di disposizione delle azioni e del diritto di partecipazione in esso rappresentato si presenta quale componente della posizione del socio nei confronti della società, componente di diretto e specifico interesse del socio con rilievo esterno ed anche di natura patrimoniale dato che i vincoli alla circolabilità delle azioni, poco graditi agli operatori economici, si riflettono negativamente sulle quotazioni del valore di mercato delle azioni (così sempre testualmente, Cass. n. 52 del 1970).

Lo scopo della clausola di gradimento (ma anche di prelazione) viene ovviamente riconosciuto nella volontà di evitare effetti pregiudizievoli per la società a seguito dell'ingresso nella compagine di persona poco gradita.

Tuttavia tale interesse non può mai pregiudicare l'interesse del socio al mutamento del diritto alla libera circolazione delle quote e delle azioni (senza il suo espresso consenso).

Tali principi, elaborati, come si è più volte avuto modo di precisare, in tema di introduzione di (più gravosi) limiti alla circolazione delle azioni non sembrano necessariamente applicabili alla diversa questione della eliminazione dei limiti alla circolazione delle azioni.

Ed in proposito l'unico precedente specifico noto della Corte di cassazione risale alla decisione 21 dicembre 1960, n. 3292. Va doverosamente precisato che a prescindere dalla imprecisa massima, la sentenza pone chiaramente il principio che la modifica a maggioranza dello statuto relativamente alla clausola di prelazione (e di gradimento) è ammissibile solo se si elimina la clausola stessa, ovvero se ne riduca la portata, essendo posta la limitazione alla circolazione nell'interesse esclusivo della società.

"L'eliminazione per volontà della maggioranza dei soci, di una condizione che, ai sensi dell'art. 2355, codice civile, ne limiti nell'atto costitutivo della società l'alienazione delle azioni nominative non fa, invece, che ristabilire nella sua integrità quel regime legale di libertà di circolazione delle azioni che, se pur non costituisce l'essenza della società per azioni (tale essenza è costituita dalla responsabilità limitata dei soci) rappresenta, tuttavia, una caratteristica normale di tal tipo di società (così la sent. n. 3292 del 1960)".

Ciò premesso relativamente ai precedenti giurisprudenziali, occorre valutare se le conclusioni cui è giunta la Corte di cassazione, nella sentenza n. 3292 del 1960, conservano validità alla luce delle puntualizzazioni della dottrina e dei mutamenti legislativi nel frattempo intervenuti.

Come è noto un consistente orientamento dottrinale e giurisprudenziale ritiene che l'introduzione di limitazioni alla circolazione delle quote e delle azioni (essendo per tale orientamento irrilevante ogni differenza tra società per azioni e società a responsabilità limitata) fa sorgere il diritto degli altri soci al rispetto delle limitazioni stesse. Il diritto di prelazione, una volta introdotto pattiziamente nell'ordinamento della società, diviene diritto soggettivo essenziale allo status di socio con un proprio contenuto patrimoniale e con efficacia erga omnes (Trib. Udine, 30 ottobre 1982, in Giur. it., Rep., voce Società, n. 371; in Riv. notar., 1983, 204).

Secondo altra giurisprudenza, in particolare del Tribunale di Milano, premesso che in linea di massima tutte le clausole dell'atto costitutivo sono modificabili a maggioranza, gli unici limiti al suddetto principio sono costituiti: 1) dal divieto di introdurre clausole che siano in contrasto con norme imperative; 2) dal divieto di intaccare diritti individuali dei soci e dei terzi; 3) dall'attribuire ai soci o categorie di soci un trattamento deteriore rispetto a quello goduto in precedenza; 4) dal divieto di aggravare la posizione dei singoli soci, modificando le sanzioni previste per l'inadempimento degli obblighi sociali; 5) dal divieto di eliminare condizioni di trattamento favorevole attribuito dall'atto costitutivo.

Posti i suddetti principi, il Tribunale di Milano ritiene che la modifica a maggioranza dello statuto con eliminazione dei vincoli risulti legittima poiché non contrasta con le norme imperative che caratterizzano le società per azioni in quanto la prelazione non è un diritto essenziale del socio derivando da una pattuizione tra soci ed essendo il diritto di prelazione posto nell'interesse non soltanto dei soci ma anche della società che naturalmente può a maggioranza provvedere a rinunciare alla prelazione.

Il punto nodale è costituito dalla esatta individuazione della natura del patto di prelazione inserito nello statuto.

Se infatti il patto di prelazione dovesse essere considerato alla stregua di un accordo tra tutti i soci singolarmente considerati, è ovvio che solo i soggetti dell'accordo - e quindi tutti i soci - potrebbero modificarlo secondo le usuali disposizioni in tema di modifica di patti contrattuali.

Se però così fosse l'accordo non potrebbe che vincolare i soci individualmente considerati e nessun effetto avrebbe nei confronti della società la quale estranea all'accordo e non vincolata, ben potrebbe procedere all'iscrizione sul libro soci dell'acquisto effettuato in ispregio degli accordi sulla prelazione.

Va invece ricordato che secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, l'eventuale violazione del patto di prelazione determina l'inopponibilità dell'acquisto nei confronti della società, sicché la società può legittimamente rifiutare di procedere all'iscrizione dell'acquisto effettuato in ispregio del patto di prelazione (Cass. 16 ottobre 1959, n. 288 e il patto di gradimento Id., 17 gennaio 1986, n. 272).

Consegue che la società è sicuramente parte dell'accordo racchiuso nel patto di prelazione essendo esso volto a tutelare l'interesse sociale che la compagine non si modifichi in modo sostanziale determinando un perturbamento del rapporto fiduciario tra i soci considerato elemento fondamentale per il miglior funzionamento e sviluppo della società stessa.

Proprio l'esatta individuazione della finalità del patto di prelazione inserito nello statuto permette anche di escludere che il patto stesso possa essere concepito quale accordo plurilaterale (tra tutti i soci e la società) essendo al patto stesso del tutto estraneo ogni intendimento di tutela degli interessi dei singoli (salvo quanto in appresso).

In altre parole, il meccanismo della prelazione è posto come strumento di tutela delle ragioni della società così come il patto di gradimento che, costituendo anch' esso limite alla circolazione delle azioni ai sensi dell'art. 2355, codice civile, risulta introducibile nello statuto con le stesse modalità di cui al patto di prelazione venendo a determinare un vincolo alla cedibilità nell'interesse esclusivo della società (sia pure con riflessi nei confronti della posizione degli altri soci).

Orbene l'interesse esclusivamente sociale al rispetto del patto determina la conseguenza che, qualora venga meno tale interesse, la società possa procedere, con le maggioranze previste per la modifica statutaria, a eliminare il vincolo a suo tempo posto, ripristinando il regime della libera circolazione che, come riconosciuto dalla Cassazione, costituisce una caratteristica, delle società per azioni.

E l'interesse della società al ripristino del regime ordinario della circolazione delle azioni (in quanto titoli di credito) risulta tanto più insopprimibile quando tale interesse coincida con quello pubblico.

Ed in proposito occorre richiamare le disposizioni della legge istitutiva della CONSOB (e successive modificazioni) che attribuiscono a tale organo la possibilità di determinare le modalità di accesso alla contrattazione in borsa.

Il regolamento per l'ammissione di titoli alla quotazione ufficiale nelle borse valori (l'ultimo dei quali pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 147 del 1989) dispone che possano essere quotati soltanto i titoli che presentino il requisito (art. 9, regolamento) della libera trasferibilità.

Non può negarsi che l'interesse alla quotazione in borsa rivesta anche carattere pubblico come reso palese dalla possibilità che la quotazione venga addirittura disposta d'ufficio con deroga, se necessario, alle ordinarie disposizioni (art. 25, regolamento).

Comunque risulta certamente contrario agli interessi del controllo pubblico dell'economia (art. 41, Costituzione) consentire che società, aventi i requisiti di redditività e di diffusione tra il pubblico, previsti dalla legge, non siano quotate in borsa e quindi non soggette ai controlli relativi, solo per la impossibilità di riunire in unica assemblea tutti i soci.

Naturalmente analoghe considerazioni possono riproporsi sia per le società le quali aspirano ad essere quotate in borsa allo scopo di acquisire il prestigio derivante dall'inserimento nei listini delle contrattazioni e la possibilità di far ricorso al pubblico risparmio sia per tutte le società per azioni (le uniche i cui titoli possono essere quotati in borsa).

Appare molto importante notare che la soppressione del diritto di opzione ai sensi dell'art. 2441, codice civile, disponibile a maggioranza per espresso disposto di legge, finisce per permettere quel risultato - ingresso nella compagine di soggetti diversi da quelli originali - identico a quello conseguibile con la soppressione del patto di prelazione (v. Cass. n. 3296 del 1960). E non inganni la circostanza che la soppressione del diritto di prelazione debba avvenire con una maggioranza più elevata di quella prevista per le modifiche statutarie in seconda convocazione (art. 2369, codice civile). In realtà nulla esclude che lo statuto (legittimamente) preveda per le modifiche maggioranze anche superiori a quella di cui all'art. 2441, quinto comma, codice civile.

Inoltre a ben guardare la diversa maggioranza può apparire giustificata dal fatto che nell'ipotesi di esclusione del diritto di opzione la società viene liberata (per la sola emissione di cui alla delibera) dall'obbligo, su di essa società incombente ai sensi dell'art. 2441, primo comma, di offrire le azioni di nuova emissione ai soci, mentre con la soppressione della clausola statutaria relativa alla prelazione, la società rinuncia (con atto abdicativo) alla prestazione dedotta nel patto di prelazione facente capo al solo socio e consistente nel non cedere le azioni a persona diversa da quella indicata nello statuto (o nel caso di patto di gradimento, nel non cedere a persone non grate alla società).

Le conclusioni fino ad adesso esposte devono per mera completezza essere verificate alla luce dell'orientamento giurisprudenziale (del tutto unanime a quel che consta) relativo alla possibilità per il socio pretermesso nella vendita, di agire giudizialmente (anche nell'inerzia della società) allo scopo di far accertare (la nullità ovvero) la inefficacia della cessione eseguita in ispregio della clausola di prelazione.

E' infatti ovvio che il socio pretermesso in tanto può agire in giudizio in quanto possa vantare un diritto soggettivo al rispetto della clausola statutaria.

Tale diritto non sembra affatto incompatibile con la riconosciuta natura bilaterale dell'accordo inserito nel patto di prelazione dovendosi ritenere che nella generalità dei casi la clausola di prelazione operi anche alla stregua di un contratto a favore di terzo tenuto conto che la prestazione dedotta nell'accordo (obbligo di preferenza di taluni soggetti) è diretta non già a favore della società nel cui unico interesse è posta, bensì degli altri soci.

Vale la pena di richiamare quindi i principi generali elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza in tema di contratto a favore di terzo segnalando che l'interesse della società alla stipula dell'accordo risulta in tutta evidenza.

In sintesi, in virtù del disposto dell'art. 1411, codice civile, il terzo acquista il diritto, nello stesso momento della stipula, diventando così titolare del diritto; la titolarità del diritto però non esclude la revocabilità della pattuizione che è invece preclusa dall'esercizio del diritto da parte del terzo ovvero dalla dichiarazione del terzo di volere profittare della pattuizione. L'adesione in sostanza costituisce modalità di esercizio del diritto. Il patto di prelazione però ha la caratteristica di determinare il sorgere della prestazione - obbligo di preferenza - soltanto dopo che il socio abbia offerto in vendita la partecipazione sociale. Fino a quel momento l'obbligazione del socio è inefficace ed il terzo pertanto non può neppure dichiarare di voler profittare della prestazione con l'effetto di rendere irrevocabilmente il negozio.

Nulla può quindi ostare a che la società possa rinunciare (con atto abdicativo) al diritto nascente dal patto di prelazione (che, come più volte precisato, determina obbligazioni a carico del solo socio) ovviamente prima che si sia verificato l'effetto della irrevocabilità a seguito della manifestazione di volontà da parte del socio di vendere (intesa ovviamente quale manifestazione di proposta contrattuale e non come mera disponibilità a vendere) e della conseguente nascita in capo agli altri soci del diritto ad ottenere la prestazione.

Naturalmente il terzo (socio) diviene titolare di un diritto perfetto ed intangibile una volta concretizzatasi la proposta contrattuale del socio, con conseguente possibilità di agire per ottenere il riconoscimento del diritto, anche nell'inerzia della società.

(omissis).

Commento

di Ugo Carnevali

(1) Non accenna a sopirsi la controversia che divide tanto la giurisprudenza (contenziosa e onoraria) quanto la dottrina in merito alla possibilità di sopprimere con una delibera adottata a maggioranza (anziché all'unanimità) la clausola di prelazione inserita nello statuto di una società per azioni o di una società a responsabilità limitata.

A favore della soluzione affermativa si vedano, oltre al provvedimento che si annota, Trib. Milano 8 febbraio 1988, in Le Società n. 6, 1988, 616; Trib. Verona 18 dicembre 1987, ivi n. 4, 1988, 403; Trib. Milano 26 febbraio 1987, in Foro it., 1988, I, 1726; Trib. Modena 23 gennaio 1984, in Giur. comm., 1984, II, 791; App. Roma 4 dicembre 1979, in Giur. it., 1980, I, 2, 463; App. Milano 24 aprile 1959, in Foro pad., 1959, I, 700; Trib. Milano 29 dicembre 1957, in Monit. trib., 1958, 762. A questo indirizzo appartiene anche l'unica, peraltro risalente, sentenza della Corte Suprema 21 dicembre 1960, n. 3292, in Foro it., 1961, I, 19.

Prevalente è l'indirizzo contrario all'ammissibilità di una delibera maggioritaria: cfr. Trib. Torino 6 maggio 1989, in Giur. it., 1989, I, 2, 625; App. Milano 7 febbraio 1989, in Le Società n. 7, 1989, 704; App. Bari 15 aprile 1988, in Foro it., 1989, I, 1231; Trib. Ascoli Piceno 22 novembre 1988, in Le Società n. 2, 1989, 186; Trib. Bari 17 ottobre 1987, in Foro it., 1989, I, 1231; Trib. Roma 9 dicembre 1987, in Giur. comm., 1989, II, 135; Trib. Torino 21 giugno 1984, in Vita not., 1984, 1603; Trib. Udine 30 ottobre 1982, in Riv. notar., 1983, 204; Trib. Perugia 8 marzo 1982, in Giur. comm., 1983, II, 308; Trib. Salerno 14 gennaio 1980, ivi, 1980, II, 403; Trib. Roma 27 settembre 1979, ivi, 1980, II, 403; Trib. Salerno 28 giugno 1978, ivi, 1980, II, 403; App. Bari 4 dicembre 1959, in Foro it., 1960, I, 1757.

Del pari divisa è la dottrina. A favore della soppressione a maggioranza cfr. Galgano, Diritto civile e commerciale, III, 2, Padova, 1990, 114; Di Sabato, Manuale delle società, 2a ed., Torino, 1987, 321.

Per la necessità di una delibera all'unanimità cfr., in particolare, Ferrara-Corsi, Gli imprenditori e le società, 7a ed., Milano, 1987, 436, nota 10; Ferri, Soppressione a maggioranza del diritto di prelazione attribuito ai soci nello statuto sociale?, in Riv. dir. comm., 1980, II, 255; Graziani, Diritto delle società, 5a ed., Napoli, 1963, 269; Ascarelli, Sui limiti statutari alla circolazione delle partecipazioni azionarie, in Banca, borsa, tit. cred., 1953, I, 281; e da ultimo Farenga, Spunti ricostruttivi in tema di prelazione convenzionale societaria, in Riv. dir. comm., 1989, II, 267.

In una posizione intermedia, come si dirà più avanti, si colloca Angelici, La clausola di prelazione, in Trattato delle società per azioni diretto da Colombo- Portale, II, 1, Torino, 1991, 203 ss.

Va rilevato che il problema in esame presenta ulteriori profili: la natura del vizio che inficia la delibera presa a maggioranza (qualora si opti per la necessità di una delibera all'unanimità) e la possibilità di rilevare o meno il vizio stesso in sede di omologazione della modifica statutaria.

La discussione viene generalmente impostata sul terreno - assai tormentato - dei c.d. diritti essenziali del socio, cioè di quei diritti soggettivi individuali che si ritengono sottratti al potere di disposizione della maggioranza.

Si nega infatti, dai fautori dell'ammissibilità di una soppressione della clausola statutaria de qua mediante delibera a maggioranza, che il diritto di prelazione costituisca un diritto essenziale allo status di socio, onde dovrebbe valere il principio che le clausole statutarie sono modificabili a maggioranza (cfr. specialm. Trib. Milano 26 febbraio 1987, cit.; App. Roma 4 dicembre 1979, cit.). In altre parole, dalla clausola della prelazione non deriverebbe al socio un vero e proprio diritto soggettivo, ma un semplice interesse, sottoposto al contemperamento con l'interesse della società alla mobilità del capitale secondo la valutazione espressa dalla maggioranza dei soci.

Più articolata è l'argomentazione di coloro che invece ritengono necessaria una delibera adottata all'unanimità. Essa si fonda su due rilievi tra loro connessi (si veda, per una lucida esposizione, App. Milano 7 febbraio 1989, cit.). Il primo rilievo concerne l'interesse protetto dalla clausola in questione: in aderenza a quanto affermato più volte dalla Corte Suprema (Cass. 26 ottobre 1973, n. 2763, in Giur. comm., 1975, II, 23; Cass. 10 ottobre 1957, n. 3702, in Banca, borsa, tit. cred., 1958, II, 14), si afferma che la clausola di prelazione tutela, oltre all'interesse della società (come tipicamente avviene per la clasuola di gradimento), anche l'interesse individuale del socio (e lo tutela, si precisa, in via autonoma rispetto all'interesse della società); secondo taluni, anzi, la clausola de qua tutela esclusivamente l'interesse individuale del socio (cfr. Ferri, op. cit., 257). Pertanto è da riconoscere al socio un vero e proprio diritto soggettivo all'osservanza della prelazione. Il secondo argomento concerne la natura della clausola in esame: essa, sebbene sia collocata nello statuto, ha natura "parasociale", nel senso che rappresenta un patto tra i soci da cui derivano diritti ed obblighi a favore e contro i soci medesimi. In altre parole, il diritto soggettivo al rispetto della clausola spetta agli interessati uti singuli e non uti socii: di qui l'inconferenza del richiamo al principio di maggioranza, che viceversa regola i rapporti uti socii.

In questa sede, non potendo ovviamente avere la delicata questione l'approfondimento che richiederebbe, è dato solo esprimere qualche rapido rilievo.

Il primo dei due indirizzi sopra delineati non appare condivisibile per la svalutazione che compie della posizione soggettiva dell'avente diritto alla prelazione: sotto questo aspetto le considerazioni che sottolineano la differenza, quanto all'interesse tutelato, tra clausola di prelazione e clausola di gradimento appaiono convincenti.

Il secondo indirizzo valorizza bensì la posizione dell'avente diritto alla prelazione, ma gli attribuisce un vero e proprio diritto soggettivo uti singulus, anziché uti socius: resta allora da spiegare come questo si possa conciliare con il fatto che "la clausola è stata, attraverso l'inserzione nello statuto, assunta a norma di organizzazione" (così Graziani, op. cit., 268; cfr. anche Santoni, Patti parasociali, Napoli, 1985, 34- 35) e di conseguenza il trasferimento in violazione della clausola stessa non è opponibile alla società, almeno secondo l'opinione largamente prevalente (diversamente, e coerentemente, Ferri, op. cit., 257, il quale afferma che la clausola di prelazione, appunto per la sua sostanza "parasociale", non incide sulla circolazione delle azioni e pertanto la società non potrebbe rifiutare l'iscrizione di un trasferimento avvenuto in violazione della clausola stessa).

Una posizione che concilia i due indirizzi in conflitto è quella recentemente espressa da Angelici (op. cit., specialm. 194 ss.), secondo cui alla clausola di prelazione dovrebbe attribuirsi il duplice significato di regola statutaria, pertinente all'organizzazione societaria, e di patto parasociale, attinente agli interessi individuali dei soci. Da tale premessa si è dedotto (op. cit., 204) che una delibera maggioritaria di soppressione potrebbe incidere sul vincolo statutario, eliminando la rilevanza delle vicende traslative delle azioni nei confronti dell'organizzazione societaria; essa non potrebbe invece incidere sul vincolo parasociale intercorrente tra i soci, trattandosi più precisamente di delibera, sotto tale aspetto, inefficace. In altre parole, con la soppressione deliberata a maggioranza la clausola di prelazione verrebbe a perdere la sua efficacia reale e manterrebbe solo quella obbligatoria, per cui la violazione della clausola comporterebbe unicamente il risarcimento dei danni (diversamente Ferri, op. cit., 257, che applica per analogia l'art. 732, codice civile).

Il decreto che si annota aderisce all'indirizzo minoritario con argomenti che in parte sono nuovi rispetto a quelli tradizionali.

Si afferma anzitutto che il patto di prelazione non può essere configurato come accordo tra tutti i soci uti singuli, perché, se così fosse, l'accordo stesso non avrebbe alcun effetto nei confronti della società estranea all'accordo stesso, mentre invece si ritiene prevalentemente che la violazione del patto di prelazione determina l'inopponibilità alla società dell'acquisto del terzo. Ne consegue che la società è parte dell'accordo racchiuso nel patto di prelazione.

Successivamente il decreto in esame rinviene l'interesse tutelato del patto esclusivamente nell'interesse della società ad evitare modifiche della compagine sociale che possano turbare il rapporto fiduciario tra i soci. Sotto questo aspetto il provvedimento annotato perviene, di contro all'opinione largamente prevalente, a parificare, quanto all'interesse protetto, la clausola di prelazione a quella di gradimento. L'asserito esclusivo interesse della società collegato al patto di prelazione conduce il provvedimento annotato ad un'ulteriore affermazione: il patto stesso non potrebbe essere concepito come accordo plurilaterale tra tutti i soci e la società (essendo al patto stesso estranea ogni finalità di tutela degli interessi dei singoli), ma avrebbe natura di accordo bilaterale tra soci e società.

Dalla premessa (tutela dell'esclusivo interesse della società) il decreto trae allora la conseguenza: qualora venga meno tale interesse, la società può, con le maggioranze previste per le modifiche statutarie, eliminare la clausola e ripristinare il regime ordinario della circolazione delle azioni.

Si inserisce a questo punto la novità argomentativa segnalata. Il patto di prelazione sarebbe un contratto a favore di terzo (cioè a favore degli altri soci), dal quale deriverebbe un diritto perfetto in capo agli altri soci solo una volta concretizzatasi la proposta contrattuale del socio di vendita delle azioni: unicamente in tale caso il socio diverrebbe titolare di un diritto intangibile da parte della maggioranza.

Non è possibile in queste brevi note analizzare a fondo l'argomentazione sopra riassunta. Osserviamo soltanto che essa non ci pare condivisibile nelle sue premesse, laddove identifica l'interesse tutelato dalla prelazione nell'esclusivo interesse della società e parifica, sotto tale aspetto, clausola di prelazione e clausola di gradimento.