Fonte: Le Società - Giurisprudenza - 8 / 1998, p. 934
Amministratori
RESPONSABILITA'INDIVIDUALE DEI MEMBRI DEL C.D.A. PER OMESSA VIGILANZA
Cassazione civile sez. I - Sentenza 24 marzo 1998, n. 3110 - Pres. Corda - Rel. Felicetti - Gallo c. Banca d'Italia
con commento di Alessandro Colavolpe
Società di capitali - Società per azioni - Amministratori - Consiglio di amministrazione - Di un istituto bancario - Mancato esercizio del dovere di vigilanza ex art. 2392 c.c. - Responsabilità solidale di tutti i componenti - Portata - Responsabilità personale di ciascuno dei componenti del c.d.a. - Configurabilità - Limiti
In materia societaria, alla violazione dell'obbligo di vigilanza gravante sull'organo amministrativo dell'ente, giusto disposto dell'art. 2392 c.c., consegue la responsabilità solidale di tutti i componenti del consiglio di amministrazione e, pertanto, la responsabilità (anche) di ciascuno dei singoli membri che, pur non essendo titolari, in via esclusiva, di poteri individuali di controllo, sono, pur sempre, singolarmente tenuti ad agire affinché tale vigilanza sia adeguatamente esercitata e rispondono, pertanto, dell'omissione di essa a meno che non forniscano la prova che, pur essendosi diligentemente attivati a tal fine, la predetta vigilanza non poté essere esercitata per il comportamento ostativo degli altri componenti del consiglio (I).
Svolgimento del processo.
1. Con decreto del Ministro del Tesoro in data 19 novembre 1993, veniva inflitta a Bruno Gallo, quale componente del Consiglio di amministrazione della Banca cattolica popolare di Molfetta, una sanzione pecuniaria amministrativa di lire 4.600.000, in relazione alla violazione dell'art. 31 e dell'art. 32 lettera f) della legge bancaria, a seguito di accertamenti ispettivi del 26 settembre 1991.
Il Gallo proponeva reclamo alla Corte d'appello di Roma avverso tale decreto, con atto notificato alla Banca d'Italia il 4 giugno 1994. Resisteva la Banca d'Italia, che chiedeva il rigetto del reclamo.
La Corte d'appello di Roma, con decreto depositato il 19 dicembre 1994, respingeva il reclamo, ritenendolo infondato.
Avverso tale decreto ha proposto ricorso per Cassazione il Gallo, formulando due motivi di ricorso. Resiste con controricorso la Banca d'Italia.
Il ricorrente ha anche depositato memoria.
Motivi della decisione.
1. Con il primo motivo si deduce la violazione dell'art. 145 del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (con il quale è stato emanato il T.U. delle leggi in materia bancaria e creditizia), in quanto la Corte d'appello, nella procedura camerale innanzi a sé, non ha fissato un termine differenziato per il deposito della documentazione da parte della Banca d'Italia e per la presentazione delle memorie di parte, né ha consentito, come richiestole dal ricorrente, il deposito di memorie di parte, né ha consentito, come richiestole dal ricorrente, il deposito di memorie di replica. Secondo quest'ultimo ciò ha comportato, per lui, l'impossibilità di conoscere quali specifici fatti abbiano determinato l'irrogazione della pena pecuniaria a suo carico e quali fossero i documenti posti a supporto dell'irrogazione delle sanzioni amministrative, con conseguente lesione del suo diritto di difesa.
Nel ricorso si sostiene che l'art. 145 anzi detto, statuendo che "la Banca d'Italia trasmette alla Corte d'appello gli atti ai quali il reclamo si riferisce, con le sue osservazioni", presuppone l'anteriorità di tale deposito rispetto a quello, previsto dal comma 5 dello stesso articolo, delle "memorie e documenti" che può essere disposto dalla Corte d'appello, come deriva dalla necessità di garantire al reclamante la effettività del diritto di difesa, che non può essere assicurata senza il previo accesso da parte sua a tale documentazione.
Secondo il ricorrente, nel procedimento in questione dovrebbe trovare applicazione, in via analogica, al riguardo, il disposto dell'art. 23 comma 2 della legge n. 689 del 1981, nella parte in cui stabilisce che il giudice, fissando l'udienza di comparizione, deve ordinare all'autorità che ha emesso il provvedimento, di depositare in cancelleria, dieci giorni prima dell'udienza fissata, copia del rapporto con gli atti relativi all'accertamento. In mancanza, secondo il ricorrente, dovrebbe essere sollevata questione di legittimità costituzionale del su detto art. 145, ledendo esso il diritto di difesa del reclamante e ponendo in essere un'irragionevole differenza di trattamento tra procedura da esso regolata e procedura stabilita dall'art. 23 della legge n. 689 del 1981 ed essendo stato comunque emanato in difformità alla delega conferita al Governo dall'art. 25 della legge n. 142 del 1992.
Con il secondo motivo si deduce la violazione dell'art. 2392 c.c. e degli artt. 31 e 32 lett. f) della legge bancaria. Si sostiene in proposito che erroneamente al ricorrente sarebbe stato contestato, quale componente del consiglio di amministrazione della Banca cattolica popolare di Molfetta, l'omesso controllo sull'attività della banca, poiché l'art. 2392 non attribuisce poteri di vigilanza e controllo al singolo amministratore, ma al consiglio collegialmente, come si evincerebbe dall'inesistenza per gli amministratori di una norma analoga a quella dettata in proposito per i sindaci dall'art. 2403 comma 3 c.c.
2. In relazione al primo motivo va pregiudizialmente rigettata la tesi del ricorrente secondo la quale, anche in relazione al procedimento giurisdizionale previsto dall'art. 145 del d.lgs. n. 385 del 1993 (norma applicabile al reclamo ratione temporis, essendo entrata in vigore il 1° gennaio 1994), dovrebbe osservarsi il disposto dell'art. 23 comma 2 della legge n. 689 del 1981, nella parte in cui prevede che il giudice, fissando l'udienza di comparizione, deve ordinare all'autorità che ha emesso il provvedimento di depositare in cancelleria, dieci giorni prima dell'udienza, copia del rapporto con gli atti relativi all'accertamento.
L'art. 145 del d.lgs. n. 385 del 1993, infatti, in materia di sanzioni amministrative irrogate per le violazioni da questo previste, con normativa avente carattere di specialità rispetto a quella generale in materia di illeciti amministrativi dettata dalla legge n. 689 del 1981, previa una particolare procedura di irrogazione della sanzione e di impugnazione del relativo provvedimento, stabilendo espressamente, con norma derogativa di quella stabilita dall'art. 23 della legge n. 689 del 1981 in via generale, che detto provvedimento sia reclamabile dinanzi alla Corte d'appello di Roma, la quale decide in camera di consiglio. La relativa procedura è direttamente disciplinata dallo stesso articolo 145, il quale dispone che il reclamo deve essere notificato alla Banca d'Italia nel termine di trenta giorni dalla data di comunicazione del decreto impugnato e deve essere depositato presso la cancelleria della Corte d'appello entro trenta giorni dalla notifica: "la Banca d'Italia" - secondo la statuizione dell'articolo - "trasmette alla Corte d'appello gli atti ai quali il reclamo si riferisce, con le sue osservazioni" e la Corte, "su istanza delle parti, può fissare termini per la presentazione di memorie e documenti, nonché consentire l'audizione, anche personale delle parti".
Così statuendo la norma ha previsto un rimedio giurisdizionale che si discosta da quello regolato dall'art. 23 della legge n. 689 del 1981, stante la diversa disciplina dettata e l'esplicita adozione della procedura camerale, la quale comporta, per quanto non espressamente stabilito, l'applicabilità dell'art. 738 c.p.c. e dei principi elaborati in materia, anche con riferimento alla conformità della procedura agli artt. 3 e 24 Cost.
Al riguardo va osservato - quanto alla questione di legittimità costituzionale proposta con il motivo - in primo luogo che, secondo l'insegnamento della Corte costituzionale, l'adozione della procedura camerale, anche nei casi di giurisdizione contenziosa, non è di per sé in contrasto con il diritto di difesa, in quanto l'esercizio di quest'ultimo è variamente configurabile dalla legge, in relazione alle peculiari esigenze dei vari tipi di processo, purché ne vengano assicurati lo scopo e la funzione, attraverso la garanzia del contraddittorio, in modo che sia garantita alle parti la possibilità di fare valere le loro ragioni (Corte cost. 14 dicembre 1989, n. 543; 23 dicembre 1989, n. 573; 30 giugno 1988, n. 748). Ne consegue la manifesta infondatezza della questione in relazione all'art. 24 Cost., essendo la disciplina dettata dall'art. 145 anzi detto di per sé idonea a garantire il contraddittorio tra le parti, e, quindi, per entrambe il diritto di difesa, prevedendo la notifica del ricorso alla parte convenuta ed il deposito di memorie e documenti per entrambe le parti, nonché, ove richiesto e ritenuto opportuno dalla Corte, la stessa audizione di esse, esulando dalla legittimità costituzione della norma il concreto rispetto nel singolo procedimento del diritto di difesa, in base alla statuizioni procedurali che la norma rimette alla Corte, in mancanza del quale la violazione del diritto di difesa costituisce vizio procedurale e motivo di gravame del decreto camerale.
Manifestamente infondata è pure la questione di legittimità costituzionale della norma in riferimento all'art. 3 Cost., sollevata sotto il profilo della ingiustificata differenza di trattamento rispetto agli altri illeciti amministrativi, sottoposti quanto alla tutela giurisdizionale dell'incolpato, alle diverse regole generali previste dall'art. 23 della legge n. 689 del 1981, poiché, nel rispetto del diritto di difesa, la disciplina dei singoli procedimenti giurisdizionali è rimessa alla discrezionalità legislativa (Corte cost. 18 maggio 1972, n. 89).
Quanto al profilo dell'eccesso di delega, esso è parimenti manifestamente infondato, tenuto conto che la legge 19 febbraio 1992, n. 142, al comma 2 dell'art. 25, prevedeva espressamente una delega al Governo per l'emanazione di un testo unico delle disposizioni adottate in attuazione della direttiva CEE 89/646 coordinato con le altre disposizioni vigenti nella stessa materia, apportandovi le modifiche necessarie a tal fine, e l'art. 145 in questione sostanzialmente riproduce l'art. 90 della legge bancaria del 1936, con le modifiche e gli adattamenti necessari al fine del su detto coordinamento, cosicché non costituisce emanazione da parte del Governo di una nuova normativa in carenza di delega.
Resta da esaminare, in relazione al motivo, il profilo attinente alla dedotta violazione in concreto del diritto di difesa del ricorrente, per non avere la Corte d'appello fissato alla Banca d'Italia un termine per il deposito della documentazione attinente all'accertamento all'infrazione con scadenza anteriore a quello per il deposito delle memorie e per non avere acconsentito alla concessione di un ulteriore termine per repliche.
Va osservato in proposito che la procedura camerale, quale è regolata dal citato art. 145, stabilisce espressamente che la Banca d'Italia debba trasmettere alla Corte di appello "gli atti ai quali il reclamo si riferisce, con le sue osservazioni", mentre rimette alla Corte la fissazione dei termini per la presentazione di documenti e memorie, nonché di consentire all'audizione delle parti. Il rispetto del principio del contraddittorio esige che, ove il reclamante chieda termini per visionare la documentazione presentata dalla Banca d'Italia e depositare memoria, la Corte dovrà concederli, così come, ove ad una o ad entrambe le parti sia accordato un termine per il deposito di documenti, la scadenza di questo dovrà essere anteriore a quello per il deposito delle memorie, salvo che non sia fissato un successivo termine per repliche, non essendo assicurata la garanzia del diritto di difesa ove non sia previamente posta a disposizione dell'interessato la documentazione depositata dall'altra parte.
Tali regole, peraltro, presuppongono da un lato specifiche istanze di parte in tal senso, così espressamente disposto dall'art. 145; dall'altro, una valutazione della Corte d'appello su di esse, potendo il reclamo essere suscettibile di decisione immediata, che renda non necessaria la concessione di detti termini. Nel primo caso non potrà lamentarsi la mancata concessione di essi, presupponendosi al riguardo al riguardo l'istanza di parte; nel secondo caso il diniego sarà legittimo, ove la concessione dei termini sia in concreto non necessaria ai fini di assicurare il rispetto del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, e la illegittimità del diniego della concessione potrà essere fatto valere con il ricorso a questa Corte ex art. 111 Cost.
Nel caso di specie il reclamante aveva chiesto espressamente, con il reclamo, la fissazione di un termine per la presentazione di memorie ed eventuale comparizioni delle parti, ed aveva lamentato la genericità degli addebiti contestatigli, nonché la impossibilità di difendersi non essendo stato posto in grado di esaminare il verbale ispettivo redatto dalla Banca d'Italia. La Corte d'appello aveva fissato un unico termine ad entrambe le parti per il deposito di documenti e memorie e nella memoria depositata il Gallo lamentava la lesione del suo diritto di difesa, non essendo stato in tal modo posto in condizione di esaminare la documentazione depositata dalla Banca d'Italia e chiedeva termine per la presentazione di memoria di replica, nonché l'audizione personale delle parti.
La Corte d'appello ha respinto, con il provvedimento impugnato, tali istanze e deduzioni, affermando che il Gallo è stato posto in condizione di "addurre le ragioni per le quali ritiene che il provvedimento sanzionatorio sia ingiusto" e tale statuizione appare esatta, tenuto conto dei motivi del reclamo, che riguardavano la legittimità del decreto del Ministro del tesoro, in quanto generico e della relativa procedura in quanto egli non era stato posto in condizione di difendersi in sede amministrativa dalle contestazioni mossegli.
Entrambe tali doglianze, infatti, potevano essere illustrate e vagliate senza che fosse necessario l'esame di alcuna documentazione da depositarsi dalla Banca d'Italia, basandosi unicamente sul testo del decreto impugnato e della lettera di contestazione delle infrazioni da parte della Banca d'Italia, che erano entrambi nella disponibilità del reclamante e sulla base delle quali dovevano esaminarsi e valutare la regolarità della procedura. Né, d'altro canto, il ricorrente ha indicato nel ricorso quali elementi ulteriori, da lui non potuti esaminare, erano emersi dalla documentazione depositata e quale rilevanza potessero avere sulle sue difese.
3. Anche il secondo motivo è infondato.
Con esso, infatti - come sopra esposto - il ricorrente, non contesta che sul consiglio di amministrazione gravasse un dovere di vigilanza affinché le infrazioni che hanno dato luogo all'irrogazione della sanzione amministrativa non fossero poste in essere, ma deduce unicamente che detto dovere di vigilanza gravava sul consiglio di amministrazione collegialmente e non sul singolo amministratore, cosicché - non avendolo esercitato il consiglio collegialmente - non poteva risponderne esso ricorrente in quanto semplice componente di tale organo.
Tale tesi è peraltro infondata, per l'assorbente ragione che, una volta ammesso che l'obbligo di vigilanza gravava sull'organo amministrativo e la sua violazione legittimava l'irrogazione della sanzione, è conseguenza logica e giuridica che del mancato esercizio della vigilanza rispondano in solido tutti i componenti del consiglio - e quindi ciascuno di essi - poiché, anche ove si ritenga che i singoli componenti non siano titolari, come si sostiene nel ricorso, di poteri individuali di vigilanza, essi in quanto componenti del consiglio sono singolarmente tenuti ad attivarsi perché detta vigilanza sia adeguatamente esercitata, e rispondono quindi della sua omissione, a meno che non diano la prova - che nel caso di specie non risulta neppure offerta - di essersi attivati a tal fine e che l'attività di vigilanza non potè essere esercitata per il comportamento degli altri componenti del consiglio.
Ne consegue il rigetto del ricorso.
(omissis).
Commento di Alessandro Colavolpe
Come è noto, l'art. 2392 c.c. fissa i seguenti tre ordini di principi:
- al primo comma, che allorquando vi siano più amministratori, questi "sono solidalmente responsabili verso la società" dei danni derivanti dall'inosservanza dei "doveri ad essi imposti dalla legge e dall'atto costitutivo", "a meno che non si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di uno o più amministratori";
- al secondo comma, che "in ogni caso gli amministratori sono solidalmente responsabili se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione o se, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento od eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose";
- al terzo comma, che un singolo amministratore può esimersi dalla responsabilità solidale nel caso in cui sia immune da colpa, ossia non abbia partecipato all'atto e non abbia concorso al suo prodursi.
Ciò posto, l'esegesi della disposizione or ora evocata ha sollevato - e continua a sollevare - numerosi e delicati problemi che, in questa sede, tenuto conto dei limiti imposti dall'economia del presente lavoro, possono essere solo fuggevolmente accennati.
Innanzitutto, nella sentenza che qui si annota, la Corte di cassazione, ponendosi nel solco di una oramai consolidata tradizione giurisprudenziale [1], muove dal presupposto che la responsabilità solidale degli amministratori sia pur sempre responsabilità per fatto proprio e per propria colpa. La validità di detto presupposto è abbastanza largamente condivisa in dottrina [2] in base a questi rilievi [3]:
a) che con il disposto di cui all'art. 2392, primo comma, c.c., il legislatore ha collegato la responsabilità non già al fatto che gli amministratori non abbiano oggettivamente adempiuto alle loro obbligazioni, ma non vi abbiano adempiuto con "diligenza" [4];
b) che il sopra richiamato art. 2392, terzo comma, c.c. consente all'amministratore di andare esente da responsabilità provando di essere "immune da colpa";
c) che "venuta in parte meno la funzione risarcitoria delle azioni di responsabilità (dati i limitati patrimoni degli amministratori, rispetto alla gravità dei danni che essi possono provocare), la responsabilità ha acquistato una sempre maggiore funzione di deterrente, di spinta agli amministratori ad evitare, o a cercare di evitare, violazione dei loro doveri: il che implica un sistema di responsabilità per colpa, non già un sistema di responsabilità oggettiva". L'impostazione dianzi riferita, peraltro, pur trovando riscontro in oramai risalenti pronunce della stessa Corte, non può dirsi del tutto pacifica in dottrina, ritenendo alcuni [5] che la responsabilità solidale degli amministratori, proprio per effetto della solidarietà, trasforma il criterio di imputazione in una responsabilità indiretta per fatto altrui. Quest'ultimo assunto, a vero dire, appare poco persuasivo, atteso che non soltanto non risulta dalla legge una così radicale deroga ai principi della responsabilità contrattuale [6], ma altresì che la solidarietà non trasforma il titolo della responsabilità in una forma di responsabilità indiretta ed oggettiva, in quanto tra gli obblighi degli amministratori vi è anche il dovere di vigilare e di controllare l'attività altrui allo scopo di evitare danni alla società [7].
Passando ad esaminare un diverso profilo, è noto che il tema delle modalità di esercizio del potere-dovere di "vigilanza sul generale andamento della gestione", posto dall'art. 2392 c.c. in capo agli amministratori, ha a lungo affaticato la dottrina - ma non la giurisprudenza, che ha avuto finora scarsissime occasioni di pronunciarsi in proposito -, senza che, a tutt'oggi, possano dirsi superate le gravi incertezze esistenti sul piano ermeneutico e, conseguentemente, sul piano pratico-operativo. Con la sentenza in commento, la Suprema Corte tocca, ancorché in forma forse eccessivamente sintetica, due aspetti particolari del tema da ultimo richiamato: il primo, riguardante la questione se la "vigilanza" sia un compito collegiale o individuale; la seconda, concernente i limiti del potere-dovere di vigilanza ex art. 2392 c.c.
Fermando ora l'attenzione sul primo dei due aspetti dianzi evidenziati, mi permetto di rilevare che nel mentre la massima riportata in epigrafe enuclea un principio dalla formulazione tutt'altro che chiara ("... i singoli membri ..., pur non essendo titolari, in via esclusiva, di poteri individuali di controllo ..."), dalla lettura del testo della sentenza "massimata" ("... anche ove si ritenga che i singoli componenti" del consiglio di amministrazione "non siano titolari, come si sostiene nel ricorso, di poteri individuali di vigilanza") parrebbe potersi inferire, a mio modo di vedere, che la Corte di cassazione ritiene preferibile aderire alla tesi secondo cui il potere-dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione spetta individualmente a ciascun amministratore [8], piuttosto che a quella per la quale, all'opposto, il potere-dovere di vigilanza possiede carattere collegiale [9]: scelta, questa, che mi pare meritevole di accoglimento, avuto riguardo anche alla circostanza che non manca chi, tra coloro i quali pure annettono al potere-dovere de quo carattere collegiale, sostiene che "quando l'attività di vigilanza o il dovere di intervento si rivelino di fatto impossibili nell'ambito del meccanismo collegiale, scaturisce l'obbligo ulteriore di proseguire l'iniziativa individualmente" [10].
Tuttavia, poiché il giudice di legittimità non indica le ragioni poste a fondamento della adesione alla linea interpretativa dallo stesso accolta, la sentenza qui annotata non reca alcun contributo ai fini dell'individuazione di possibili soluzioni in ordine ad una serie di questioni che rimangono, così, aperte, quale, ad esempio, quella rappresentata dall'estensione del potere-dovere di controllo. Infatti, nell'ambito dell'orientamento dottrinale secondo cui il potere-dovere in discorso costituisce un compito individuale, è dato cogliere una certa qual disomogeneità di pareri, ritenendo alcuni [11] che detto potere-dovere (spettante a ciascun amministratore) abbia un contenuto tale da ricomprendere o, comunque, da non escludere, un controllo analitico sulla gestione sociale, mentre altri [12], facendo perno sulla ratio dell'art. 2392 c.c., escludono che gli amministratori, per esimersi da responsabilità, godano di un autonomo potere di vigilanza di natura analitica (i cui limiti andrebbero lasciati al mero arbitrio del singolo) ed affermano che vigilare integri, piuttosto, il dovere di sorvegliare a che la gestione sociale si svolga in modo conforme a quello che è l'interesse della società.
Un secondo aspetto del tema rappresentato dalle modalità di esercizio del potere-dovere di vigilanza posto a carico degli amministratori attiene, come ho già avuto modo di accennare, ai limiti di detto potere-dovere. La Corte di cassazione fissa il principio secondo cui gli amministratori di società per azioni, "in quanto componenti del consiglio, sono singolarmente tenuti ad attivarsi perché detta vigilanza sia adeguatamente esercitata e rispondono quindi della sua omissione, a meno che non diano la prova ... di essersi attivati a tal fine e che l'attività di vigilanza non poté essere esercitata per il comportamento degli altri componenti del consiglio".
Ora, esiste sostanziale concordanza di opinioni sul carattere collegiale del dovere di intervento, sia pur con la precisazione che "tale potere di intervento collegiale si esplicherà normalmente su sollecitazione e, quindi, per iniziativa dell'amministratore che, nella esplicazione del potere individuale di vigilanza, abbia rilevato una ragione di intervento del consiglio (il che dimostra che questo potere di intervento collegiale risale e si collega pur sempre al potere-dovere individuale di vigilanza)" [13]. In linea di ulteriore approssimazione, non v'ha dubbio che il potere de quo ben possa essere esercitato sì collegialmente, ma con l'assunzione di tutte le informazioni e le conoscenze che ciascun amministratore possa ritenere di dovere ottenere onde svolgere, con diligenza e con piena cognizione degli elementi di fatto da porre a fondamento di una o più deliberazioni consiliari, il compito affidato al consiglio di amministrazione, di talché si è autorevolmente espresso l'avviso che nel corso delle riunioni consiliari non esista limite alcuno alla facoltà di ciascun amministratore di richiedere e di ottenere l'acquisizione di documenti e di atti anche analitici che abbiano rilevanza per la società [14]. Vi è, al contrario, incertezza sul punto se, al di fuori dell'organo collegiale e della sua espressione temporale e spaziale nelle riunioni del consiglio di amministrazione, i singoli amministratori, ai quali non siano stati attribuiti poteri delegati dall'atto costitutivo o per delibera assembleare, abbiano facoltà di esercitare poteri amministrativi individuali in alcuna delle articolazioni ipotizzabili, ossia poteri di controllo gestorio, poteri di istruttoria tecnica, poteri di acquisizione di informazioni concernenti dati, atti e documenti inerenti alla attività sociale o poteri di amministrazione attiva. In dottrina, opinano:
- alcuni [15], che fuori del consiglio di amministrazione il singolo amministratore non abbia poteri, "neppure quello di chiedere direttamente informazioni o di consultare personalmente documenti sociali" [16];
- altri [17], all'opposto, che la funzione di vigilanza implica, per sua stessa natura, l'iniziativa del singolo amministratore, di poi traendosene la conclusione affermativa circa l'esistenza di poteri individuali degli amministratori;
- altri ancora [18], infine, che "il singolo amministratore, fuori dal consiglio, non ha il potere, che ha carattere tipicamente ispettivo, di recarsi personalmente negli uffici della società per acquisire personalmente atti e documenti al fine di sceverare se tra essi vi siano atti o documenti essenziali per la vita societaria, con la precisazione, però, che allorquando "al generale potere di vigilanza si congiunga lo specifico diritto dell'amministratore di essere compiutamente informato delle materie su cui egli è chiamato a deliberare, si può ritenere che il singolo amministratore possa assumere informazioni anche al di fuori e prima del contesto consiliare, purché si tratti di dati e documenti concernenti argomenti posti all'ordine del giorno ..." e la consultazione della documentazione abbia luogo nel rispetto dell'esigenza della riservatezza.
Volendo raccogliere le fila del discorso, dal tenore letterale del passo finale della sentenza che è stato "massimato" ed in precedenza testualmente riportato non è purtroppo possibile arguire in che cosa sia consistito il "comportamento degli altri consiglieri", di talché nessun lume viene fornito dalla Suprema Corte sul punto rappresentato dai limiti entro i quali ciascun consigliere di amministrazione può esercitare il potere-dovere di intervento.
Va osservato che le questioni sulle quali mi sono fin qui brevemente intrattenuto si ripropongono sic et simpliciter nell'ambito del consiglio di amministrazione delle banche, senza alcuna peculiarità di atteggiamenti.
Invero, anteriormente all'entrata in vigore del D. Lgs. 1° settembre 1993, n. 385 ("Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia") (in vigore dal 1° gennaio 1994) poteva porsi - e si è posta - la questione se l'art. 62 della legge bancaria del 1936, contenendo un generico richiamo alla "azione di responsabilità contro i membri degli organi amministrativi e di sorveglianza", comportasse o meno modificazioni ai principi generali riguardanti il contenuto dell'azione sociale di responsabilità. La questione, tuttavia, venne risolta in senso negativo così in dottrina [19] come in giurisprudenza [20].
Sebbene la questione si ponga de iure condendo e non de iure condito, non appare inutile ricordare che nel gennaio 1998 il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria [21] ha approvato lo "Schema per la valutazione dei sistemi di controllo interno" [22] - diramandolo "alle autorità di vigilanza di tutto il mondo nella convinzione che i principi in esso esposti forniscano un valido strumento per l'efficace supervisione dei sistemi di controllo interno" - che "le autorità di vigilanza sono invitate ad utilizzare per la valutazione dei controlli interni sulla totalità delle operazioni, in bilancio e fuori bilancio, delle banche". Tra i principi fissati dall'anzidetto documento, merita di essere ricordato, ai fini che qui interessano, il primo: "Rientra nella responsabilità del consiglio di amministrazione approvare le strategie e le politiche; conoscere i rischi assunti dalla banca; stabilire i livelli accettabili di tali rischi e assicurarsi che l'alta direzione adotti le misure necessarie per individuare, monitorare e controllare i rischi stessi; approvare la struttura organizzativa; assicurarsi che l'alta direzione verifichi l'efficacia del controllo interno". In sede di analisi del principio or ora testualmente riportato, lo stesso Comitato precisa, tra l'altro: "Il consiglio di amministrazione ... ha la responsabilità di stabilire le strategie globali e le principali politiche dell'istituzione e di approvarne la struttura organizzativa generale. Al consiglio di amministrazione spetta in ultima istanza il compito di assicurare che sia istituito e mantenuto un livello adeguato di controlli interni. Ai membri del consiglio di amministrazione è richiesto di essere obiettivi, capaci e inquisitivi, di conoscere le attività svolte dalla banca ed i rischi da essa assunti. Un consiglio di amministrazione autorevole e attivo, specie se assistito da efficienti canali di comunicazione verso l'alto e da competenti funzioni finanziarie, legali e di revisione interna, è spesso nella posizione migliore per assicurare l'eliminazione di problemi che potrebbero menomare l'efficacia del controllo interno ... Il consiglio di amministrazione dovrebbe contemplare tra le proprie attività: (1) regolari colloqui con la direzione per discutere l'efficacia del sistema del controllo interno; (2) un tempestivo esame delle valutazioni dei controlli interni effettuate dalla direzione, dai revisori interni e da quelli esterni; (3) ricorrenti iniziative per assicurarsi che la direzione abbia dato appropriatamente seguito alle raccomandazioni e riserve espresse dai revisori e dalle autorità di vigilanza a riguardo delle debolezze presenti nel sistema di controllo interno.".
Note:
1 Cfr. ad esempio: Cass. 9 luglio 1979, n. 3925, richiamata anche in G. Pescatore - C. Ruperto (a cura di), Codice civile annotato con la giurisprudenza della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione e delle giurisdizioni amministrative superiori, Milano, 1987, II, 3357 (sub art. 2392). Ancora, vedasi App. Napoli 26 novembre 1990, in Le Società, n. 8 , 1991, 1050.
2 Cfr.: G. Grippo, Deliberazione e collegialità nella società per azioni, Milano, 1979, 148; G. Frè, Società per azioni, Bologna - Roma, 1982, 507; G. Ferri, Le società, Torino, 1987, 714; F. Bonelli, La responsabilità degli amministratori, in Trattato delle società per azioni, diretto da G. E. Colombo e da G. B. Portale, IV, Torino, 1991, 393 s.; C. Di Nanni, La vigilanza degli amministratori sulla gestione nella società per azioni, Napoli, 1992, 153 ss.; G. F. Campobasso, Diritto commerciale. Diritto delle società, Torino, 1992, 348; M. Franzoni, Le responsabilità civili degli amministratori di società di capitali, in M. Franzoni, F. Galgano, A. Di Pietro, A. Rossi Vanini, La responsabilità degli amministratori e dei sindaci, Padova, 1994, 55; P. G. Jaeger, F. Denozza, Appunti di diritto commerciale, Milano, 1997, I, 408.
3 Vedasi, in particolare, F. Bonelli, op. cit., 392 s.; F. Bonelli, La responsabilità degli amministratori di società per azioni, Milano, 1992, 112 ss.
4 Cfr.: Cass. 12 novembre 1965, n. 2359, in Foro it., Mass., 1965-1966, c. 691; Cass. 6 marzo 1970, n. 558, in Foro it., 1970, I, c. 1728.
5 Cfr.: R. Weigmann, Responsabilità e potere legittimo degli amministratori, Torino, 1973, 193 ss. e, in particolare, 197; F. Ferrara jr., Gli imprenditori e le società, Milano, 1978 (aggiornata da F. Corsi), 493; A. Borgioli, La responsabilità solidale degli amministratori di società per azioni, in Riv. soc., 1978, 1070 ss.; E. Rossi, Amministratori di società ed esercizio del potere, Milano, 1989, 212.
6 Cfr. in tal senso F. Bonelli, op. cit., 392. Nel medesimo senso, cfr. M. Morelli, Prevenzione di atti dannosi: dovere di intervento degli amministratori, in Le Società , n. 2, 1993, 223.
7 Cfr. M. Franzoni, op. loc. cit. Sul punto, cfr. anche V. Salafia, Responsabilità del consiglio di amministrazione per fatti del delegato, in Le Società, n. 11, 1985, 1178.
8 Sul punto, cfr. per tutti O. Cagnasso, Gli organi delegati nella società per azioni. Profili funzionali, Torino, 1976, 93. In giurisprudenza, vedasi Trib. Milano 17 marzo 1986, in Le Società, n. 6, 1986, 619.
9 Cfr. S. Scotti Camuzzi, I poteri di controllo degli amministratori di minoranza (membro del comitato esecutivo con "voto consultivo"?), in Giur. comm., 1980, I, 788; G. Minervini, I poteri di controllo degli amministratori di minoranza (membro del comitato esecutivo con "voto consultivo"?), in Giur. comm., 1980, I, 812 s.; F. De Vescovi, Controllo degli amministratori sull'attività degli organi delegati, in Riv. soc., 1981, 97 s.
10 Così V. Allegri, Contributo alla responsabilità civile degli amministratori, Milano, 1979, 233. Sul punto, cfr. anche O. Cagnasso, L'amministrazione collegiale e la delega, in Trattato delle società per azioni diretto da G.E. Colombo e da G.B. Portale, IV, Torino, 1991, 311.
11 Cfr. A. Dalmartello, G.B. Portale, I poteri di controllo degli amministratori di minoranza (membro del comitato esecutivo con "voto consultivo"?), in Giur. comm., 1980, I, 799; A. Gambino, Sui poteri individuali dei componenti del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo della società per azioni, in Riv. dir. comm., 1996, 3.
12 Così C. Grassetti, I poteri di controllo degli amministratori di minoranza (membro del comitato esecutivo con "voto consultivo"?), in Giur. comm., 1980, I, 807 ss. Nel medesimo senso, Cfr. O. Cagnasso, op. cit., 96 s.
13 Così A. Dalmartello, G.B. Portale, op. cit., 798. Nel medesimo senso cfr. F. Galgano, La società per azioni, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia diretto da F. Galgano, Padova, 1984, 248 s. In giurisprudenza, cfr. Trib. Trieste 14 novembre 1992, in Le Società , n. 2, 1993, 222.
14 Cfr. in tal senso A. Gambino, op. loc. cit.
15 Cfr.: G. Ferri, op. cit., 667; C. Chiomenti, Il principio della collegialità dell'amministrazione pluripersonale nella società per azioni, in Riv. dir. comm., 1982, I, 325 ss.
16 Così G. Ferri, op. loc. ult. cit.
17 Cfr.: V. Salafia, op. cit., 1178 s.; F. Galgano, La società per azioni, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell'economia, Padova, 1984, 248 s.; B. Marescotti, Impugnazione di delibera del consiglio di amministrazione, in Le Società, n. 6, 1986, 624; V. Salafia, Società fiduciaria: cattiva gestione degli amministratori e beni oggetto della fiducia, in Le Società , n. 7, 1994, 933. In giurisprudenza, Trib. Milano 17 marzo 1986, in Le Società, n. 6, 1986, 622.
18 Cfr. A. Gambino, op. cit., 6 s.
19 Cfr., ad esempio G. Berionne, I. Colonnese, Commento all'art. 62 della Legge Bancaria del 1936, in F. Capriglione, V. Mezzacapo, Codice commentato della banca. Disciplina generale, I, Milano, 1990, 732.
20 Cfr. Cass. 20 novembre 1990 n. 11208, in Le Società , n. 4, 1991, 473 (con commento di M. Cupido).
21 Il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria è un comitato di autorità di vigilanza bancaria istituito nel 1975 dai Governatori delle banche centrali dei paesi del Gruppo dei Dieci. Esso è formato da alti funzionari delle autorità di vigilanza bancaria e delle banche centrali di Belgio, Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Regno Unito, Stati Uniti, Svezia e Svizzera. Il Comitato si riunisce solitamente presso la Banca dei Regolamenti Internazionali a Basilea, dove ha sede il suo Segretariato Permanente.
22 La traduzione italiana del documento richiamato nel testo è stata trasmessa ai propri Associati dall'Associazione Bancaria Italiana in allegato alla Circolare GB/001863 del 16 marzo 1998.