Fonte: Le Società - Giurisprudenza - 10 / 1998, p. 1168
Amministratori
OBBLIGHI DEGLI AMMINISTRATORI IN PRESENZA DI PERDITE OLTRE IL TERZO DEL CAPITALE
Cassazione civile sez. I - Sentenza 23 giugno 1998, n. 6238 - Pres. Sgroi - Rel. De Musis - Mangione c. Fallimento TVR Telecomunicazioni s.p.a.
con commento di Marco Cupido
Società di capitali - Amministratori - Responsabilità - Per mancata convocazione dell'assemblea in seguito a riduzione del capitale sotto il minimo legale - Configurabilità - Anche in caso di clausola statutaria affidante al presidente la convocazione dell'assemblea - Fondamento
Ai fini della responsabilità degli amministratori conseguente alla mancata convocazione, ex art. 2447 c.c., del consiglio di amministrazione della società allorché, per la perdita di oltre un terzo del capitale sociale quest'ultimo si riduca al di sotto della soglia minima fissata dall'art. 2327 c.c., si rende irrilevante il fatto che il consiglio di amministrazione della società, per previsione dello statuto della stessa, possa essere convocato solo dal presidente (il quale risulti altresì abilitato a fissare l'ordine del giorno). Infatti i singoli amministratori debbono ritenersi dotati del potere di pretendere che il Presidente provveda a tale convocazione e con uno specifico ordine del giorno. L'esistenza di un tale potere va desunta: a) dal rilievo per cui ogni singolo amministratore è responsabile del controllo sulla gestione societaria e pertanto egli deve essere ritenuto abilitato a mettere in moto qualunque meccanismo necessario che gli consenta di provvedere a pieno al controllo stesso, e di porre in essere gli adempimenti che questo richieda; b) dall'ulteriore rilievo per cui, risultando essi amministratori solidalmente responsabili fra loro, una tale solidarietà non possa non importare che ciascuno di essi abbia anche il potere di controllare l'operato degli altri amministratori (I).
La Corte (omissis).
Nella memoria il ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata perché, essendo normativamente prevista la responsabilità di tutti i componenti del consiglio di amministrazione, il giudizio avrebbe dovuto essere integrato nei confronti degli stessi, e comunque almeno nei confronti dell'Artioli, essendo stato costui parte nel giudizio di primo grado.
La deduzione è inammissibile.
La Corte d'appello ha esaminato la questione, che era stata già ad essa prospettata, e l'ha risolta negativamente affermando che la solidarietà della responsabilità escludeva la inscindibilità delle cause: sulla questione pertanto, per difetto di impugnazione nel ricorso (le memorie non possono introdurre nuovi motivi) si era formato il giudicato.
Con il primo motivo di ricorso, denunziandosi vizio di motivazione, si deduce che la Corte d'appello non ha tenuto conto: che il consiglio di amministrazione veniva convocato unicamente dal suo presidente e che il Mangione non aveva alcun potere né per disporre tale convocazione né per determinare il correlato ordine del giorno; che dal giugno 1983 al marzo 1984, epoca in cui fu conosciuto il bilancio del 1983 il consiglio di amministrazione non si era mai riunito e si era riunito invece solo il collegio sindacale, il quale nulla aveva eccepito in ordine alle passività della società; che il 16 marzo 1984 e il 24 luglio 1984 il consiglio aveva convocato l'assemblea perché deliberasse ai sensi dell'art. 2447 c.c., anche se poi nella prima di tali riunioni l'assemblea non aveva adottato alcuna decisione; che il Mangione, pur avendo approvato il bilancio 1983 nella riunione del consiglio del 30 maggio 1984, nella successiva riunione del 22 giugno 1984 aveva chiesto approfondimenti su tale bilancio; che il 29 giugno 1984 l'approvazione, da parte dell'assemblea della relazione al bilancio e di questo stesso era avvenuta con il voto contrario del Mangione; che pertanto costui, sia per aver partecipato alla riunione del consiglio che convocava l'assemblea per l'adozione dei provvedimenti di cui all'art. 2447 c.c., sia per aver espresso voto contrario all'approvazione del bilancio 1983, sia perché, in quanto socio di minoranza, non aveva possibilità di determinare il voto dell'assemblea, non versava in colpa.
Con il secondo motivo, denunziandosi violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 2246, 2247 e 2260 c.c., si deduce: a) che la responsabilità del Mangione non ricorreva, ai sensi dell'art. 2260, ultimo comma, c.c. - il quale esclude la responsabilità degli amministratori che dimostrino di essere esenti da colpa - perché il Mangione - che aveva approvato solo la relazione al bilancio 1983 - non aveva approvato tale bilancio e perché al Mangione non era addebitabile il fatto che l'assemblea avesse omesso di decidere nella prima riunione fissata per l'adozione dei provvedimenti di cui l'art. 2447 c.c.; b) che il danno era stato determinato: senza alcuna dimostrazione della sua quantificazione; senza la individuazione di un nesso di causalità tra lo stesso e il comportamento tenuto dal Mangione; senza rilevare la incidenza decisiva di fattori esterni alla società; senza tenere conto che il Mangione, avendo partecipazione minoritaria nella società, non avrebbe avuto potere di incidere sull'adozione da parte dell'assemblea dei provvedimenti di cui l'art. 2447 c.c.
I due motivi, che in quanto connessi possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.
Tali sono il primo motivo e la censura sub a) del secondo motivo.
La ratio decidendi della Corte d'appello è consistita nei rilievi: che nell'anno 1983 l'andamento gestionale della società aveva avuto un decremento progressivo, raggiungendo nell'aprile il passivo di lire 900.000.000, ammontare superiore al capitale sociale; che conseguentemente costituiva omissione grave del consiglio di amministrazione il non essersi, dal giugno 1983 al marzo 1984, riunito al fine di indire l'assemblea per l'adozione dei provvedimenti di cui l'art. 2447 c.c.
E' pertanto irrilevante, in relazione all'indicata ratio, il comportamento tenuto dal Mangione successivamente al marzo 1984, avendo la Corte d'appello individuato come decisivo il ritardo (nella riunione del consiglio di amministrazione) protrattosi nel menzionato periodo.
E' altresì irrilevante che il Mangione, in quanto socio minoritario, non avesse possibilità di incidere decisivamente sulle decisioni dell'assemblea dal momento che l'addebito che gli è mosso è quello del ritardo nella riunione del consiglio di amministrazione.
La deduzione poi che il consiglio di amministrazione venisse convocato dal presidente, abilitato altresì a fissare l'ordine del giorno, non concreta valida censura perché - ipotizzato che la disciplina statutaria conferisse tale potere (solo) al presidente - i singoli amministratori debbono ritenersi dotati del potere di pretendere che il presidente provveda a tale convocazione e con uno specifico ordine del giorno.
Tale potere scaturisce dai rilievi: a) che ogni singolo amministratore è responsabile del controllo sulla gestione societaria e pertanto egli deve ritenersi abilitato a mettere in moto qualunque meccanismo necessario che gli consenta di provvedere appieno al controllo stesso e di porre in essere gli adempimenti che questo richieda; b) che i singoli amministratori sono solidalmente responsabili e tale solidarietà non può non importare che il singolo amministratore abbia anche il potere di controllare l'operato degli altri amministratori. Peraltro, anche a voler ipotizzare che la messa in mora del presidente del consiglio di amministrazione a convocare questo stesso e con un determinato ordine del giorno non determini l'obbligo del presidente di provvedere in tal senso, la messa in mora costituirebbe, per gli altri amministratori - stante la previsione della solidarietà della responsabilità - l'unico modo di esonero da questa stessa.
La censura sub b) del secondo motivo è inammissibile perché non investe la ratio decidendi consistita nell'affermazione che con l'atto di appello non era stata mossa alcuna doglianza avverso la statuizione del tribunale concernente la determinazione dell'ammontare del danno.
Peraltro la censura, se ritenuta come prospettante omissione di pronunzia su questioni devolute al giudice dell'impugnazione è inammissibile in quanto l'esame dell'atto di appello - consentito in relazione alla denunzia di "error in procedendo" rivela che con tale atto non è stata proposta impugnazione né in ordine alla quantificazione del danno ne in ordine al nesso di causalità tra il comportamento illegittimo e il danno stesso.
Il ricorso dev'essere pertanto respinto.
Giusti motivi consigliano la compensazione delle spese.
Commento di Marco Cupido
La decisione annotata offre lo spunto per alcune brevi riflessioni sugli obblighi degli amministratori nella gestione della società ed, in particolare, su quegli obblighi e adempimenti che la legge stabilisce in presenza di una perdita di oltre un terzo del capitale sociale, che riduca quest'ultimo al di sotto del limite legale.
Il nostro ordinamento pone a carico degli amministratori due generali obblighi di comportamento e cioè quello di amministrare con diligenza e quello di non agire in conflitto di interessi.
Ne consegue la responsabilità per decisioni erronee o per cattiva gestione nasce solo ed esclusivamente per quei danni che siano la conseguenza di operazioni poste in essere dagli amministratori in violazione dei suddetti obblighi. In questi casi tale responsabilità è giustificata in quanto derivante da un inadempimento loro imputabile.
Al contrario, come è stato autorevolmente affermato [1] se gli amministratori sono stati adempienti a tutti i loro obblighi e ciò malgrado abbiano commesso errori o abbiano preso decisioni rischiose o in ogni caso abbiano compiuto operazioni che risultino pregiudizievoli ovvero svantaggiose per la società non sorge alcuna responsabilità nei loro confronti: ciò in quanto la legge non prevede in capo agli amministratori un obbligo di gestire e amministrare la società senza che siano commessi errori.
Pertanto, la responsabilità degli amministratori nei confronti della società, prevista e disciplinata dall'art. 2392 c.c. ha ad oggetto il risarcimento dei danni che alla società siano stati cagionati dall'inadempimento, da parte degli amministratori, dei doveri loro imposti dalla legge o dall'atto costitutivo, ovvero dall'inadempimento dell'obbligo generale di vigilanza o dell'ulteriore obbligo generale di intervento preventivo e successivo, posti a loro carico dalla duplice clausola generale contemplata dal secondo comma dell'art. 2392 c.c. [2].
Tra le violazioni degli obblighi aventi un contenuto specifico predeterminato dalla legge o dall'atto costitutivo si pongono e sono da ritenere di particolare rilievo quelle concernenti l'inosservanza dell'obbligo di convocare senza indugio l'assemblea in caso di perdite ai sensi degli artt. 2446 e 2447 c.c.
In particolare, quando la perdita è superiore ad un terzo del capitale sociale e, in conseguenza di tale perdita, il capitale stesso scende sotto il minimo legale, gli amministratori devono "senza indugio" convocare l'assemblea straordinaria, che non può attendere i risultati dell'esercizio successivo, ma deve decidere la riduzione ed il contestuale aumento del capitale ad una somma almeno pari al minimo legale ovvero deliberare la trasformazione della società; ovvero, infine, prendere i provvedimenti di liquidazione della società.
Gli amministratori, in applicazione del procedimento previsto nel caso di riduzione del capitale per perdite superiori ad un terzo che non intaccano il capitale minimo, oltre all'obbligo di convocare l'assemblea straordinaria, devono predisporre una relazione sulla situazione patrimoniale della società da sottoporre al collegio sindacale perché questo esprima le sue osservazioni, che restano, insieme alla relazione, depositate presso la sede sociale affinché i soci ne possano prendere visione.
La suddetta relazione, secondo ormai l'univoco e costante orientamento della giurisprudenza, anche se deve essere redatta con criteri sostanzialmente uguali a quelli prescritti per il bilancio di esercizio, deve evidenziare, quando esiste, lo stato di crisi dell'impresa e le ragioni che l'hanno determinato, così da porre i soci nella condizione di adottare i provvedimenti opportuni al fine di evitare lo scioglimento della società previsto dall'art. 2448 c.c. [3].
Da quanto sopra esposto, non vi è dubbio dunque che, nell'ipotesi di perdite che determinano la riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale, sussiste nei confronti degli amministratori l'obbligo di convocare senza indugio l'assemblea ai sensi dell'art. 2447 c.c., obbligo che, se inadempiuto, è fonte di responsabilità per questi ultimi. Sul punto la giurisprudenza è unanime nel ritenere che costituisce grave irregolarità il fatto che le perdite abbiano mantenuto il capitale al di sotto del limite legale senza che l'organo amministrativo si attivasse a norma dell'art. 2447 c.c. e compisse la doverosa attività ivi prevista, con la conseguenza che, secondo le disposizioni di cui agli artt. 2448, n. 4 e 2449, c.c., essendosi verificato un fatto determinante lo scioglimento della società, l'amministratore non avrebbe potuto intraprendere nuove operazioni e, avendo contravvenuto al divieto, ha assunto responsabilità illimitata per gli affari intrapresi [4].
Pertanto, riteniamo di aderire pienamente alla sentenza annotata che ha ribadito la sussistenza della responsabilità in capo agli amministratori, i quali - pur in presenza di una clausola statutaria che attribuisca soltanto al presidente il potere di convocare il consiglio di amministrazione e fissare l'ordine del giorno allo scopo di indire l'assemblea per l'adozione dei provvedimenti a norma dell'art. 2447 c.c. non si siano in ogni caso attivati, in presenza di una situazione di riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale, per adempiere gli obblighi previsti dalla sopra citata norma.
Conseguentemente, i giudici di legittimità hanno sottolineato, correttamente, l'irrilevanza della previsione statutaria nei confronti di una disposizione normativa che prevede e stabilisce obblighi specifici nei riguardi dell'organo amministrativo della società.
Note:
1 Cfr. Bonelli, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1985, 168 ss.
2 Cfr. Ferro, La responsabilità degli amministratori, in Trattato teorico pratico delle società a cura di Schiano di Pepe, Milano, 1996, II, 521.
3 Per tutte, cfr. Cass. civ. 5 maggio 1995, n. 4923, in Riv. dir. comm., 1997, II, 1, con nota di Carbonetti; Cass. civ. 4 maggio 1994, n. 4326, in Le Società , 1994, 1355; Cass. civ. 7 marzo 1992, n. 2764, in Giur. comm., 1994, II, 588, con nota di Gandini.
4 Cfr. App. Firenze 11 giugno 1993, in Giur. comm., 1994, II, 429; App. Napoli 29 gennaio 1988, in Le Società , 1988, 736; Trib. Torino 10 febbraio 1995, in Fallimento, 1995, 1150; Trib. Torino 24 dicembre 1994, in Dir. fall., 1995, II, 857; Trib. Como 3 febbraio 1994, ivi, 1994, 669; Trib. Genova 2 marzo 1992, in Fallimento, 1992, 1047; Trib. Roma 21 maggio 1984, in Le Società, 1985, 724.