Fonte: Le Società - Giurisprudenza - 7 / 1999, p. 864

Deliberazioni assembleari

IMPUGNAZIONE DI DELIBERA DI S.P.A. E VIOLAZIONE DEL SINDACATO DI VOTO

Tribunale Varese - Sentenza 1 marzo 1999 - Pres. e rel. Santangelo - Stella ed altri c/Banca Popolare Luino e Varese s.p.a

con commento di Luigi Salvato

Società di capitali - Società per azioni - Deliberazioni assembleari - Impugnazione - Legittimazione - Socio astenuto - Sussistenza

Società di capitali - Società per azioni - Deliberazioni assembleari - Impugnazione - Socio decaduto dal diritto di impugnare - Intervento litisconsortile - Ammissibilità

Società di capitali - Società per azioni - Deliberazioni assembleari - Impugnazione - Legittimazione - Socio successivo alla data della delibera - Intervento adesivo dipendente - Ammissibilità

Società di capitali - Società per azioni - Assemblea - Votazione - Prescrizione del presidente per alzata di mano - Tacita approvazione assembleare - Legittimità

Società di capitali - Società per azioni - Deliberazioni assembleari - Nomina degli amministratori - Accordo parasociale - Nullità

Il socio astenuto è legittimato ad impugnare la delibera dell'assemblea ordinaria di una società per azioni avente ad oggetto la nomina degli amministratori (I).

Il socio decaduto dal diritto di impugnare la delibera dell'assemblea ordinaria di una società per azioni per decorso del termine dell'art. 2377, secondo comma, c.c., può esperire intervento litisconsortile nel giudizio di impugnazione proposto da un altro socio (II).

Il socio di una società per azioni, qualora abbia acquistato tale qualità successivamente all'impugnazione di una delibera della società, può esperire intervento adesivo dipendente nel relativo giudizio, allo scopo di sostenere le ragioni dell'impugnante (III).

Il presidente dell'assemblea di una società per azioni, con la tacita approvazione della maggioranza dei soci intervenuti, può legittimamente disporre che la deliberazione assembleare sia votata "per alzata di mano" (IV).

L'accordo parasociale con il quale una delle parti, socio di maggioranza della società cui inerisce il patto, si obbliga ad esprimere tre consiglieri di amministrazione sui tredici previsti dallo statuto e ad astenersi dalla votazione concernente la designazione degli altri designati dalla minoranza, è nullo o comunque ininfluente sul piano assembleare e societario (V).

Il Tribunale (omissis).

La Banca ha eccepito in via preliminare che l'attore Stella, non avendo fatto constare in sede di votazione il proprio dissenso o la propria astensione in ordine alla delibera di nomina del consiglio di amministrazione, non avrebbe legittimazione ad impugnare la medesima. Al riguardo deve peraltro osservarsi come alla pagina n. 2 del verbale di assemblea ordinaria dei soci redatto il 18 febbraio 1997 risulti espressamente la dichiarazione del socio Stella in ordine alla propria volontà di astenersi dalla votazione. Non può peraltro negarsi che nella specie la qualifica di astenuto, necessaria ai fini di acquisire il diritto all'impugnazione sussista e pertanto il rilievo da parte convenuta non può essere accolto.

La convenuta ha altresì eccepito la decadenza del diritto dell'avv. Valcavi ad intervenire nel presente giudizio di impugnazione in quanto risultava già decorso il termine di impugnazione previsto dalla legge, in specie dall'art. 2377, secondo comma. c.c.

L'intervento dell'avv. Valcavi deve, a parere del collegio, essere qualificato come litisconsortile in quanto propone una impugnazione autonoma ma di contenuto del tutto analogo a quella già proposta dagli attori.

Nell'ipotesi peraltro di impugnazione della delibera assembleare di una società per azioni, a prescindere dal fatto che con detta impugnazione, si lamenti una inesistenza, una nullità o una mera annullabilità della delibera, il disposto dell'art. 2377, terzo comma, c.c. che prevede che l'annullamento della delibera abbia effetto rispetto a tutti i soci (norma che ha fatto ritenere sussistente nella specie un'ipotesi di efficacia riflessa del giudicato civile a soggetti che non sono né parti né aventi causa ex art. 2909 c.c.) induce a ritenere che il socio interveniente non debba subire preclusioni al proprio intervento dal decorso del termine decadenziale previsto dalla disposizione in oggetto soprattutto quando, come nel caso di specie, non vi sia alcun ampliamento del contraddittorio rispetto a quello originariamente instauratosi fra attori e convenuti. Non si ravviserebbe alcuna logica nella decisione che impedisse al socio di affermare autonomamente le proprie ragioni in ordine alla supposta invalidità della delibera e poi lo sottoponesse comunque alla efficacia di quella decisione emessa in un processo al quale egli aveva, inutilmente, ma legittimamente, richiesto di partecipare.

La convenuta ha poi ancora rilevato come anche l'intervento della Associazione azionisti e amici della Banca popolare di Luino e di Varese sarebbe inammissibile, in quanto l'Associazione non era socia della Banca all'atto della emissione della delibera assembleare.

Peraltro l'intervento spiegato in giudizio dall'Associazione appare, alla luce delle conclusioni svolte, palesemente di natura adesiva dipendente e pertanto, stante la pacifica acquisizione, in corso di giudizio, da parte dell'Associazione, di certificati azionari della Banca, non vi è dubbio che l'Associazione medesima abbia un interesse a sostenere le ragioni dei soci che hanno impugnato in via principale la delibera. Anche tale eccezione della Banca deve pertanto essere disattesa.

Ai fini dell'esame del merito della quaestio juris oggetto del contendere, ritiene il collegio di dover preliminarmente esaminare la contestata incidenza, sulla validità della delibera in oggetto, del protocollo d'intesa sottoscritto tra la Banca popolare Commercio e Industria e la Banca popolare di Luino e di Varese in data 20 dicembre 1995 e dunque in epoca precedente alla trasformazione della Banca popolare di Luino e Varese da cooperativa a società per azioni e all'acquisizione da parte di Banca popolare di Commercio e Industria di partecipazione azionaria nella Banca poi trasformata.

Ed invero trattasi dell'unico vizio esogeno dedotto dagli attori e dall'intervenuto, in ordine alla predetta delibera, mentre i restanti vizi concernono lo svolgimento della assemblea medesima e i profili formali della sua indizione.

In detto protocollo d'intesa si dava atto al punto 4 che il consiglio di amministrazione sarebbe stato composto, all'atto dell'ingresso della Commercio e Industria nel capitale della Luino e Varese, quale socio maggioritario di controllo, da 13 membri, dei quali almeno 3 sarebbero stati espressi dalla Commercio e Industria e i restanti 10 dal resto della compagine sociale (e cioè dai soci privati), secondo i criteri tradizionalmente adottati nell'ambito della Luino e Varese. L'espressione letterale adottata in detta clausola contrattuale, laddove si attribuisce alla Banca Commercio e Industria il diritto di esprimere 3 amministratori, appare fare riferimento al concetto "omologo" di designazione dei medesimi e dunque di proposizione all'assemblea di 3 nominativi anziché dell'intero numero dei consiglieri.

Non si spiegherebbe altrimenti l'individuazione del soggetto titolare del potere di indicazione degli altri 10 consiglieri, nei "soci privati" della Banca. Detti soci privati infatti non costituivano e non costituiscono oggi un corpus organico, un soggetto con unitarietà di struttura e di indirizzi che possa contrapporsi al socio di controllo Commercio e Industria e dunque godere di un potere, non di mera proposizione, ma di scelta ed elezione dei successivi 10 consiglieri. Non appare pertanto configurabile nella specie alcun obbligo in capo a Commercio e Industria di astensione dalla votazione relativa ai residui 10 consiglieri o comunque alcun obbligo di Commercio e Industria di conformarsi alla volontà espressa in ordine a tali nomi attraverso la proposizione di una lista da parte dei soci privati. Del resto tale obbligo sarebbe stato, come si è verificato nel caso di specie, di contenuto del tutto indeterminato e come tale inattuabile, poiché ben potevano i soci privati (in unità indistinta) presentare più liste senza pertanto poter attribuire in capo a Commercio e Industria alcun obbligo di votare l'una anziché l'altra.

Qualora peraltro accedendo alla tesi prospettata dagli impugnanti si dovesse ritenere che nella specie vi sia stato un patto avente quale contenuto proprio tale obbligo, non vi è dubbio che detto patto dovrebbe essere qualificato come parasociale in quanto afferente l'impegno da parte di un (prossimo) socio ad adottare in sede assembleare determinati comportamenti vincolati, concordati in precedenza.

Il patto parasociale deve infatti essere definito come una convenzione con la quale i soci, o alcuni di essi, attuano un regolamento di rapporti in modo difforme o complementare rispetto a quanto previsto dall'atto costitutivo o dallo statuto della società stessa, e nel caso di specie non vi è dubbio che lo statuto della Banca popolare di Luino e di Varese, quale conformato all'atto della sua trasformazione in società per azioni, non contenga alcun riferimento al protocollo di intesa stipulato in epoca precedente.

La qualificazione come patto parasociale di tale protocollo di intesa condurrebbe, alla luce della giurisprudenza della Suprema Corte formatasi tra gli anni sessanta ed ottanta, ad affermare che nel caso di specie detto patto sarebbe nullo ex art. 1418 c.c. per contrarietà a norme imperative (v. Cass. n. 1290/69 che ha affermato la nullità del patto di sindacato azionario di voto, quando l'assemblea della società risulti permanentemente svuotata di funzione di contenuto, quando venga ad essere soppressa la libertà del voto con la possibilità della formazione di maggioranza assembleare fittizie o quando il voto risulti vincolato ad interessi in contrasto con quelli della società o a favore di persone in conflitto di interessi con la società stessa).

La Suprema Corte ha, poi, in data 25 gennaio 1965 con sentenza n. 136, affrontato una fattispecie che presenta rilevanti punti di contatto con quella oggetto di esame, in quanto in quel giudizio era stata dedotta la violazione denunciata dalla società Saacen, dell'accordo da essa stretto con due società francesi (la Mure e Les Forges de Ciney) nel senso che sarebbe dovuta essere paritetica la loro rappresentanza nel consiglio di amministrazione della società Tecnotermo che avevano progettato di costituire fra loro e che poi costituirono. I giudici di appello avevano accertato che le tre predette società avevano avuto inizialmente in conformità al pregresso accordo, una rappresentanza paritetica nel consiglio di amministrazione del nuovo organismo societario, nel quale ciascuna di esse era stata rappresentata da due amministratori. Successivamente però, in seguito alle dimissioni degli amministratori, si era determinato lo scioglimento del consiglio di amministrazione e l'assemblea della Tecnotermo aveva nominato, in sede di ricomposizione dell'organismo, i nuovi amministratori in difformità agli accordi parasociali e senza garantire dunque alcuna rappresentanza paritetica ai soci.

La Suprema Corte, nel confermare la decisione dei giudici di appello, ebbe modo di affermare che le norme che disciplinano la struttura e il funzionamento delle società regolari data l'incidenza della loro attività nella vita commerciale ed industriale del paese, cioè in una sfera di interessi generali della collettività, non sono di interesse privato, ma di ordine pubblico, con la conseguenza che ogni patto fra soci che stabilisca un assetto qualificativo e funzionale dell'organismo societario diverso da quello stabilito dal legislatore è nullo ai sensi dell'art. 1418 c.c., essendo contrario a norme imperative: come nullo è il patto con cui vengano predeterminati dai soci, invece che dall'assemblea sociale, le prerogative sovrane di questa, riconosciute dalla legge e il criterio di nomina degli amministratori. Sicché qualora l'assemblea, nei casi previsti dalla legge, nomini gli amministratori della società senza uniformarsi ai criteri fissati in un preventivo accordo tra i soci, non è configurabile alcuna responsabilità della società stessa e dei soci, che parteciparono alla deliberazione assembleare, sotto il profilo della violazione di un simile accordo, che è da considerare, data la sua nullità, privo di ogni effetto giuridico.

Tale costante orientamento è stato oggetto di rivisitazione (a detta di alcuni commentatori obiter) da parte della Suprema Corte con la decisione n. 9975/95.

Il Supremo Collegio ha, nella parte motiva, contestato l'affermazione secondo la quale il sindacato di voto ed in specie l'accordo parasociale avente per oggetto la nomina di organi della società, svuoterebbe l'assemblea di ogni significato e la priverebbe del potere di scegliere la forma dell'organo amministrativo nonché le persone degli amministratori e dei sindaci ed ha escluso che, vincolando con i patti parasociali la propria libertà di voto, i soci finirebbero per svuotare l'assemblea delle funzioni e dei poteri che ad essa la legge attribuisce, affermando che così argomentando si confondono piani diversi. Il vincolo nascente dal patto di sindacato opera su un terreno che è esterno a quello dell'organizzazione sociale e non impedisce in alcun modo al socio di determinarsi all'esercizio del voto in assemblea come meglio egli creda; dunque il regolare funzionamento dell'organo assembleare non è in alcun modo pregiudicato. Il fatto che il socio medesimo si sia, in altra sede, impegnato a votare in un determinato modo ha rilievo solo per l'eventuale responsabilità contrattuale nella quale egli incorrerebbe - ma unicamente verso gli altri firmatari del patto parasociale - violando quell'accordo.

Il vincolo obbligatorio assunto opera, cioè, né più né meno che come qualsiasi altro possibile motivo soggettivo ed individuale che possa spingere un socio ad assumere in assemblea un certo atteggiamento e ad esprimere un determinato voto, ma nessuno potrebbe impedire a quel socio di optare per il non rispetto del patto di sindacato ogni qualvolta il suo personale giudizio di interesse ad un certo esito della votazione assembleare prevalga sul rischio di dover rispondere di un inadempimento verso gli altri partecipanti al patto di sindacato, il che non mette di per sé minimamente in discussione la validità del deliberato assembleare, qualunque sia la scelta operata dal socio, almeno fino a quando non risulti possibile dimostrare in concreto l'esistenza di un conflitto di interessi rilevante ai sensi dell'art. 2373 c.c.

L'excursus sin qui compiuto consente di concludere per la irrilevanza, ai fini della dedotta invalidità, del protocollo di intesa stipulato in data 20 dicembre 1995. Detto protocollo, per un verso appare non contenere l'obbligo specifico, e giuridicamente azionabile, in capo a Commercio e Industria di esprimere il proprio voto in assemblea secondo determinate modalità, per altro verso qualora debba essere interpretato nel senso voluto dagli impugnanti, detto patto sarebbe comunque nullo ai sensi della pregressa giurisprudenza della Suprema Corte, o comunque, più correttamente, alla luce della attuale giurisprudenza che qui si condivide, del tutto ininfluente sul piano assembleare e societario, in quanto afferente al diverso profilo dell'inadempimento di un socio all'obbligo assunto nei confronti di altri soggetti, di esprimere in un determinato modo il proprio voto in assemblea. L'organismo societario dunque manterrebbe pienamente in sede assembleare il potere di autodeterminazione e qualora questo criterio fosse stato esercitato da alcuni soci in modo difforme dai patti stipulati in pregresso, l'unica azione esperibile dal soggetto che assume di essere stato parte del patto inadempiuto sarebbe quella di danno in relazione al contratto stipulato e non certo di impugnazione della delibera assembleare pronunciata con il concorso dei soci inadempienti.

Ciò premesso può procedersi all'esame dei motivi di impugnazione afferenti al procedimento formativo della volontà assembleare.

Si lamenta da parte degli attori che nel caso di specie non ricorreva l'ipotesi prevista dall'art. 12 dello statuto della Banca di Luino e Varese per il rinnovo del consiglio di amministrazione e per la conseguente convocazione dell'assemblea da parte del presidente del collegio sindacale. L'assunto è peraltro del tutto infondato: l'art. 12, secondo comma, prevede che nel caso in cui nel corso dell'esercizio vengano contemporaneamente a mancare per qualsiasi motivo 3 o più amministratori decade l'intero consiglio di amministrazione e dovrà essere convocata senza indugio, dal presidente del collegio sindacale, l'assemblea per la nomina del nuovo consiglio di amministrazione.

Le produzioni offerte dalla Banca hanno consentito di accertare che in data 24 gennaio 1997 i consiglieri Ferrini, Lamberti, Babini Cattaneo, Niada, Cantalupi, Compagnoni, Gerini e Malerba ebbero a rassegnare le dimissioni dal consiglio di amministrazione. Non vi è dubbio pertanto che anche l'interpretazione più rigida e forse poco condivisibile della dizione "contemporaneamente" contenuta nell'art. 13 sia nella specie stata rispettata.

Altre deduzioni formulate dagli attori in ordine alle scelte effettuate dal presidente del collegio sindacale, quanto alla convocazione, e, in particolare, alla inserzione sugli annunci a pagamento della Gazzetta Ufficiale alla convocazione in giorno feriale, riguardano presunte inadempienze al protocollo d'intesa che come innanzi detto non spiega alcuna efficacia nel caso di specie.

Può pertanto procedersi all'esame dei vizi che attengono al concreto svolgersi della assemblea, ed in particolare alla contestata esistenza e validità del procedimento formativo della volontà assembleare, quanto alla nomina degli amministratori.

Gli attori nell'atto introduttivo hanno testualmente scritto: "ogni votazione sui nomi è stata effettuata nonostante l'opposizione palese di molti presenti in questa stravagante maniera: si chiedeva chi era favorevole alla lista di maggioranza in blocco, si chiedeva poi chi era contrario e chi si asteneva ... l'adozione del sistema di cui si è appena detto ha portato peraltro ad una soluzione aberrante: avendo proceduto ad una espressione di gradimento generico solo sulla prima lista (quella cioè che presentava i 13 nomi), il presidente dell'assemblea non ha neanche ritenuta opportuna la votazione sull'altra lista considerando in tal modo definitivamente chiusa la partita", e alla pag. 20: "se infatti fosse accolto il principio per cui la lista di 13, votata dalla maggioranza.".

Trattasi in tutta evidenza di ammissione del procuratore, peraltro presente, quale socio, all'assemblea in oggetto.

Nella propria comparsa di intervento l'intervenuto avv. Giovanni Valcavi, intervenuto in proprio e dunque parte nel presente giudizio, così scriveva "il presidente del collegio sindacale, di provenienza di Commercio e Industria che presiedeva la riunione, assecondando la volontà del gruppo di controllo e del suo singolare alleato, ha messo ai voti esclusivamente la lista dei 13 nominativi proposta dal predetto Cerini e li ha proclamati eletti. Non fu neppure messa ai voti e neppure votata la lista dei 10 candidati proposta dai soci di minoranza il cui curriculum era stato illustrato.

La proclamazione degli eletti è avvenuta per alzata di mano e non a voto scritto o comunque espresso in modo da distinguere la minoranza dal gruppo di controllo".

Alla pag. 15: "gli amministratori eletti per alzata di mano con il voto determinante di Commercio e Industria...".

Non può che condividersi allora al riguardo il rilievo di parte convenuta sulla esistenza di una confessione giudiziale che forma piena prova contro colui che l'ha fatta in ordine a circostanze sfavorevoli, come nella specie la esistenza di una votazione per alzata di mano, confessione alla quale significativamente si affianca l'ammissione attorea.

Gli attori e l'intervenuto hanno peraltro nel corso del giudizio modificato l'originaria prospettazione, affermando che non vi sarebbe stata alcuna votazione per alzata di mano e che si sarebbe proceduto esclusivamente alla conta dei contrari e degli astenuti mediante deposizione delle schede nelle rispettive urne.

L'intervenuto avv. Valcavi, in sede di discussione orale, ha rilevato che ammissione di contenuto contrario vi sarebbe stata da parte della Banca convenuta nella memoria 10 novembre 1997, nella quale si dava atto che la circostanza di cui al capitolo 7 dedotto dall'Associazione azionisti ed amici della Banca con memoria 20 ottobre 1997 era ammessa.

Nella memoria della Banca si legge espressamente: "la circostanza di cui al capitolo 7 (calcolo dei voti a favore per differenza rispetto ai voti contrari e astenuti) è ammessa".

Il capitolo 7 risulta, nella memoria 20 ottobre 1997 dell'Associazione, così formulato "se la proclamazione della nomina dei componenti il consiglio di amministrazione di tale assemblea sia avvenuta considerando voti favorevoli il numero degli iscritti con detrazione del numero dei voti contrari ed astenuti, questi ultimi risultanti dalle schede immesse nelle urne esclusivamente per chi votava in tal senso".

Non può che rilevarsi allora, sul punto, che il capitolo dedotto dall'Associazione e la connessa ammissione della Banca concernono non il diverso e precedente momento dell'effettuazione della votazione e del rito della "alzata di mano", quanto quello successivo della proclamazione degli eletti medesimi, questa sì avvenuta, pacificamente, ai fini del calcolo della maggioranza, attraverso la detrazione del numero dei voti contrari ed astenuti dai voti favorevoli, desunti dal numero degli iscritti che risultavano ancora presenti in aula.

Non risulta pertanto ricorrere nella specie la ammissione da parte della Banca di una mancata votazione sulla nomina dei componenti del consiglio di amministrazione.

Gli attori e l'intervenuto avv. Valcavi hanno peraltro ulteriormente richiamato a fondamento della propria tesi, il contenuto, e del verbale dell'assemblea come redatto dal segretario, e del verbale del collegio sindacale in data 16 aprile 1997.

L'esame del verbale di assemblea non appare peraltro fornire conferma alcuna della mancanza della votazione per alzata di mano sui componenti del consiglio di amministrazione.

Nel verbale il presidente ricordava che le votazioni sarebbero avvenute per alzata di mano e che, ove necessario, si sarebbe preceduto a raccogliere la scheda degli azionisti contrari o astenuti rappresentata da uno dei tagliandi in possesso da ciascuno intervenuto. Si procedeva alla votazione in ordine alla nomina del presidente dell'assemblea e si dava atto che "procedutosi alla votazione nel modo anzidetto risultavano favorevoli gli azionisti presenti o rappresentati ad eccezione di voti contrari in numero 11.516 e astenuti numero 310.340".

Si procedeva poi con le medesime modalità alla votazione per la nomina a segretario del notaio Domenico Sciolon e, dopo la votazione effettuata con le medesime modalità di cui sopra, e cioè per alzata di mano, e per controprova con consegna, da parte dei contrari e degli astenuti, dei tagliandi in loro possesso, anche tale votazione aveva esito favorevole per il proposto segretario.

Nel verbale si dava poi atto della votazione relativa alla individuazione in 13 del numero dei componenti il consiglio di amministrazione. Anche in ordine a tale votazione il presidente ricordava chi si sarebbe votato con le modalità già illustrate nella prima votazione e dava atto che la proposta era messa ai voti e, dopo prova e controprova, approvata all'unanimità.

Il segretario dava atto che erano stati posti in votazione i 13 nominativi e che, procedutosi alla votazione con prova e controprova, dopo essere ricorsi all'inserimento nell'urna del tagliando numero 3, prima da parte dei soci contrari, e poi dagli astenuti, la proposta era stata approvata.

La verbalizzazione utilizzata nel dare contezza delle 4 votazioni svoltesi in data 18 febbraio 1997 appare sostanzialmente omogenea e, in particolare, quanto alla quarta votazione, risulta specificamente indicato che detta votazione risulta effettuata con prova e controprova. Non vi è dubbio che la controprova, come espressamente verbalizzato, quanto alla votazione nr. 2 di nomina del segretario, risulta rappresentata dalla consegna, da parte dei contrari e degli astenuti, del tagliando nr. 2. Non vi è dubbio conseguentemente che la prova in oggetto sia costituita proprio dalla alzata di mano e dunque dalla osservazione dell'esistenza in concreto di una volontà di parte dei soci favorevoli alla delibera oggetto di votazione.

Anche l'esame del verbale del collegio sindacale in data 16 aprile 1997 non consente a parere del collegio di trarre le conclusioni volute dagli attori e dall'intervenuto avv. Giovanni Valcavi, in ordine ad una ammissione, da parte dei sindaci, della inesistenza di una votazione per alzata di mano, e dunque in ordine all'esistenza di un fatto nuovo costituito da tale documento proveniente dalla convenuta, che avrebbe indotto le controparti a mutare prospettazione, mutamento questo che comunque mal si concilierebbe con la presenza in assemblea, e dell'intervenuto avv. Valcavi, e degli attori e del loro legale. (omissis).

Deve pertanto concludersi sul punto che la confessione giudiziale da parte dell'intervenuto, l'ammissione degli attori, il tenore e del verbale di assemblea e del successivo verbale del collegio sindacale, forniscono tranquillante conferma dell'esistenza, in ordine alla nomina dei consiglieri, di una votazione per alzata di mano, e dunque escludono l'ammissibilità del capitolato di prova dedotto in ordine alla inesistenza di detta votazione, nonché in tutta evidenza l'accoglibilità del correlato motivo di impugnazione.

Una volta accertato che una votazione per alzata di mano vi fu, occorre chiedersi se la stessa fosse modo legittimo di manifestazione della volontà assembleare, circostanza questa oggetto di giudiziale contestazione.

Per vero tale metodo di manifestazione della volontà assembleare risulta, sulla base delle produzioni effettuate da parte convenuta, adottato, non solo da primarie aziende nazionali ma anche dalla Banca popolare di Luino e di Varese all'epoca in cui la società cooperativa era presieduta proprio dall'avv. Valcavi.

A prescindere da tale rilievo, che di per sé non da contezza della legittimità di tale metodo, va affermato, con Tribunale di Genova 28 dicembre 1994, che non è invalida la deliberazione di assemblea di società per azioni che sia stata adottata con la maggioranza assoluta dei voti espressi per alzata di mano. In tale provvedimento il presidente del Tribunale di Genova ha avuto modo di affermare che il voto per alzata di mano costituisce modo espresso di manifestazione del voto, e come tale, ritiene questo collegio che non vi sia motivo di contestarne la legittimità.

Tale metodo di votazione non risulta contrario alla normativa vigente in materia di procedimento di formazione delle deliberazioni assembleari, né è dato dedurne la contrarietà sulla scorta della, dedotta dagli attori, disomogeneità tra raccolta del voto degli astenuti e dei contrari a mezzo schede, e individuazione del voto favorevole per differenza.

Tale momento attiene invero alla fase, successiva, della rilevazione del voto, e non inficia dunque il pregresso momento della manifestazione della volontà assembleare. Anche in ordine alla rilevazione del voto non può che affermarsi, che, una volta individuati i presenti-votanti e proceduto alla rilevazione dei contrari e degli astenuti, condivisibili esigenze di speditezza, ben giustificano l'individuazione dei voti favorevoli per differenza. Del resto proprio in materia di rilevazione del voto, quanto alle società con azionariato diffuso, la comunicazione della Consob n. Soc-93002635 dell'8 aprile 1993, ha richiesto che venissero inseriti nei verbali assembleari o negli allegati i nominativi dei soggetti che avessero espresso voto contrario o si fossero astenuti o si fossero allontanati prima di una votazione senza dunque procedere alla rilevazione positiva per schede dei voti favorevoli, legittimamente dunque individuati, per differenza negativa, rispetto ai contrari e agli astenuti.

Ai fini che ci occupano merita altresì di essere sottolineato che la proposta del presidente di procedere in tutte le votazioni, e in particolare in quella oggetto di contestazione, alla votazione per alzata di mano, risulta tacitamente approvata dalla maggioranza dei soci intervenuti, in quanto solo il socio oggi intervenuto avv. Valcavi risulta aver manifestamente contestato in assemblea tale proposta del presidente.

(omissis).

Commento di Luigi Salvato

La vicenda sottoposta all'esame del Tribunale può essere così sintetizzata: una banca popolare stipula con il futuro socio di maggioranza un "protocollo di intesa", diretto a garantire la "autonomia gestionale ed operativa del gruppo dirigente" espresso dai soci originari, destinati a divenire soci di minoranza. Le parti convengono di riservare a questi ultimi la designazione di dieci consiglieri di amministrazione e di attribuire al socio di controllo la facoltà di proporre i rimanenti tre e la maggioranza dei membri del comitato esecutivo, nonché "il diritto di gradimento su alcune fondamentali materie" e la facoltà "di far decadere" il consiglio di amministrazione qualora fossero contemporaneamente venuti a mancare i componenti da esso espressi.

L'impugnante ha eccepito che, decaduto il consiglio di amministrazione, nel corso dell'assemblea chiamata ad eleggere le cariche sociali erano state presentate tre liste: una dal socio di maggioranza, composta da tre nomi; due dai soci di minoranza, composte da dieci nomi ciascuna. Il presidente dell'assemblea aveva permesso, a suo avviso malamente, l'accorpamento della lista del socio di maggioranza con una delle due di minoranza ed acconsentito alla votazione per alzata di mano [1]. Alla votazione aveva partecipato il socio di maggioranza, in violazione dell'obbligo assunto con il "protocollo d'intesa", e tale inadempimento avrebbe integrato "un palese conflitto di interessi", con conseguente annullabilità della deliberazione assembleare.

(I) Impugnazione da parte del socio astenuto

Il Tribunale, nel decidere la controversia, ha preliminarmente affrontato e risolto positivamente la questione della legittimazione all'impugnazione della deliberazione assembleare da parte del socio astenutosi dalla votazione. La mancata esplicitazione delle ragioni che fondano il principio enunciato nella massima, benché esso sia prevalente in giurisprudenza ed in dottrina, suggeriscono di svolgere alcune brevi considerazioni, soprattutto perché sono diverse le argomentazioni addotte per sostenerlo [2].

L'art. 2377 c.c. stabilisce che sono legittimati ad impugnare le deliberazioni della società i "soci assenti o dissenzienti", ma non precisa se lo sono anche i soci astenuti. I precedenti specifici non sono molti, ma l'opzione recepita nella massima è stata ancora di recente ribadita dai giudici di legittimità. La Corte di cassazione ha affermato che "per socio dissenziente deve intendersi, in conformità della ratio dell'art. 2377, il socio che abbia negato, in qualsiasi forma manifestata in assemblea, il proprio contributo all'approvazione della deliberazione attraverso il voto contrario o l'astensione, senza che rilevi la motivazione di tali comportamenti, la quale può consistere indifferentemente in una diversa valutazione sul merito della deliberazione rispetto alla maggioranza, ma anche in una mera contestazione della legittimità dell'operato di questa. L'art. 2377 non dà, infatti, alcun rilievo, di per sé, ai motivi del dissenso, ma unicamente alla sua manifestazione" [3]. La motivazione svolta dalla Corte è emblematica, in quanto contiene l'espresso riconoscimento che la lettera della norma non permette di enunciare il principio, ricavato "implicitamente", identificando quale scopo della disposizione quello di precludere l'impugnativa soltanto a chi, votando favorevolmente e concorrendo a formare la volontà sociale, non può vantare un interesse all'azione di annullamento [4].

La possibilità di superare la lettera della norma è, forse, meno agevole di quanto traspare dalle decisioni della giurisprudenza. La norma che circoscrive la legittimazione ai soli soci assenti o dissenzienti, "in una con l'asserito suo carattere eccezionale e con la conseguente impossibilità di farne oggetto di applicazione analogica", giustifica infatti almeno il dubbio che essa possa essere riconosciuta al socio astenuto, data l'impossibilità di ricondurla ad una delle categorie espressamente previste [5]. L'ostacolo interpretativo non sembra superabile escludendo in linea di principio che l'astensione sia assimilabile all'assenza e ritenendo che la parificazione sia, però, possibile all'esito di un'indagine condotta caso per caso, diretta ad accertare se essa esprima un mero disinteresse o un vero e proprio dissenso [6]. Siffatta opzione finisce infatti con il subordinare il riconoscimento della legittimazione ad una verifica che introduce nel processo elementi di incertezza di intuitiva evidenza, della cui correttezza può dubitarsi. I motivi dell'astensione sono infatti giuridicamente irrilevanti e l'astensione, per definizione, manifesta soltanto la volontà di non prendere posizione, dato che, se il socio intende opporsi alla deliberazione, ha a sua disposizione lo strumento del dissenso espresso con il voto contrario [7]. La tesi che afferma la legittimazione del socio astenuto attraverso una piena assimilazione dell'astensione all'assenza è più affidante, ma, in talune configurazioni, incontra significativi ostacoli. Ritenere che il concetto di assenza esprime non soltanto la mancata partecipazione all'adunanza, ma anche l'intervento in assemblea al quale segue l'astensione, implica qualcosa di più di una mera interpretazione estensiva, tenuto conto della diversità del significato dei termini nel linguaggio comune ed in quello giuridico. Inoltre, neanche è agevole desumere argomenti a favore dalla circostanza che l'art. 2377, primo comma, c.c., stabilisce che le deliberazioni sono efficaci nei confronti dei soci "non intervenuti o dissenzienti". Se con questa formula il legislatore ha inteso precisare che l'efficacia vincolante concerne anche gli astenuti, l'adozione di una diversa subito dopo, nel secondo comma, potrebbe voler significare che, ai fini della legittimazione, occorre invece proprio l'assenza o il dissenso.

La difficoltà dell'assimilazione è dimostrata anche dalle incertezze che caratterizzano la questione nella giurisprudenza amministrativa. Infatti, in tale ramo del diritto, ad un indirizzo orientato nell'affermare che, in mancanza di disposizioni che espressamente stabiliscono le modalità del computo del quorum deliberativo, sono illegittime le deliberazioni che escludono a tal fine gli astenuti, in quanto essi vanno considerati come soggetti che non approvano la proposta [8], se ne contrappone un altro favorevole a ritenere che le astensioni diano, invece, prova di affidamento alle altrui determinazioni [9], ovvero ad interpretare il principio generale secondo il quale le deliberazioni degli organi collegiali si intendono approvate a maggioranza assoluta dei presenti nel senso che, ai fini della validità delle riunioni e delle deliberazioni, i membri astenuti devono essere computati per la formazione del quorum [10].

In tale quadro di opinioni, un più sicuro criterio interpretativo potrebbe, forse, essere ricavato dalla disciplina concernente il computo del quorum deliberativo, anche perché non sembra assumano rilievo le ulteriori difficoltà che essa pone, derivanti dalla necessità di distinguere tra assemblea ordinaria e straordinaria e di riconoscere la legittimità delle clausole statutarie che espressamente regolano la materia per la prima delle due [11]. La soluzione offerta a quest'ultimo problema, che pure sembrerebbe preliminare, è ininfluente, perché le due possibili offrono entrambe elementi a conforto della tesi favorevole alla legittimazione all'impugnazione da parte del socio astenuto. Invero, se si ritiene che gli astenuti devono essere inclusi nella base di computo del quorum deliberativo, ciò significa che l'astensione incide direttamente su di esso e, quindi, produce sulla deliberazione un effetto analogo al dissenso [12], sicché, per tale constatazione, a prescindere da incerti psicologismi, le due ipotesi possono essere assimilate. Se, al contrario, si ritiene che dell'astensione non deve tenersi conto ai fini del computo del quorum, il risultato è quello di considerare il socio assolutamente estraneo a quello specifico atto assembleare, rispetto al quale, non essendo identificabile una sua partecipazione all'attività deliberativa del collegio, egli deve essere considerato come non intervenuto e, quindi, legittimato all'impugnazione [13]. In ogni caso, la conclusione non riesce ad eliminare il senso di insoddisfazione che produce una soluzione che incentiva la deresponsabilizzazione del socio e pregiudica l'efficienza della gestione, sicché dovrà costituire oggetto di approfondimento la diversa opzione espressa di recente dal legislatore, sia pure in un caso particolare, al fine di accertare se siano da essa ricavabili elementi in grado di permettere la rimeditazione del principio [14].

(II-III) Impugnazione da parte del nuovo socio e del socio decaduto dal diritto

Gli ulteriori due problemi di legittimazione che il Tribunale ha dovuto affrontare sono derivati dal fatto che la deliberazione è stata impugnata anche da un socio decaduto dal relativo diritto, a causa del decorso del termine decadenziale di tre mesi stabilito dall'art. 2377, secondo comma, c.c., nonché da un altro socio divenuto tale in data successiva a quella dell'adozione dell'atto. Di particolare interesse appare la seconda questione, che può porsi soltanto in riferimento all'azione di annullamento [15], e che è stata risolta con il principio affermato nella terza massima, espressivo di una soluzione di mediazione, comunque riconducibile all'indirizzo più restrittivo.

La giurisprudenza e la dottrina prevalenti negano, infatti, la legittimazione all'impugnazione della deliberazione assembleare da parte del socio che ha acquistato la partecipazione sociale in data successiva a quella della sua adozione. In particolare, si sostiene che, poiché l'art. 2377 c.c., attribuisce il diritto all'impugnativa soltanto ai soci assenti o dissenzienti (ovvero, come si è detto, agli astenuti), la formulazione della norma necessariamente richiede che il socio sia tale già al momento in cui l'atto è formato [16]. E'rimasto minoritario l'orientamento che riconosce al nuovo socio la legittimazione, ritenendo che egli l'acquisti a titolo originario, in quanto è davvero difficile sostenere tale soluzione attraverso l'identificazione della finalità dell'azione di annullamento in quella di assicurare il buon andamento della società [17]. Peraltro, la tesi restrittiva non è immune da perplessità, in quanto sembra fragile il presupposto interpretativo da cui essa muove, costituito dalla lettera dell'art. 2377, secondo comma, c.c. La norma condiziona infatti la legittimazione all'impugnazione alla mancata partecipazione alla delibera, circostanza questa ben diversa dal possesso della qualità di socio alla data della sua adozione, che non è ricavabile ex se da quella sola espressamente stabilita. Molto più convincente appare la tesi che deriva dalla configurazione della partecipazione sociale come posizione contrattuale l'ammissibilità dell'impugnativa - se, ovviamente, non è decorso il termine di tre mesi - ed afferma che il socio acquista il relativo diritto a titolo derivativo [18]. In contrario, non sembra possa essere contrastata sostenendo che il diritto d'impugnazione è un diritto personale, e perciò intrasferibile, ovvero ritenendo che tale diritto è concepito a tutela di soggetti che versano in una situazione particolare e irripetibile. Infatti queste ultime conclusioni sono essenzialmente derivate dal fatto che la norma non contempla i nuovi soci, che è però circostanza da sola irrilevante, alla quale può opporsi che la finalità della disposizione è, invece, proprio quella di escluderla soltanto per coloro i quali hanno partecipato alla formazione dell'atto. In tale contrasto di opinioni, ammettere che il nuovo socio può spiegare intervento adesivo dipendente può significare accedere alla tesi più rigorosa, tenuto conto della natura di tale intervento e dei poteri processuali dell'interveniente. L'intervento dell'art. 105, secondo comma, c.p.c., concerne infatti il caso in cui un terzo si inserisce in un processo tra altre parti, ponendosi accanto ad una di esse per adiuvarla. L'intervento è consentito in presenza di un interesse giuridicamente rilevante che, nonostante non sia tale da legittimare l'interveniente a proporre in via autonoma una sua pretesa, lo abilita ad intervenire per cercare di influire sulla decisione relativa al diritto di cui è titolare la parte principale, provocando un esito della controversia favorevole a quest'ultima.

L'intervento adesivo dipendente dà quindi luogo ad un giudizio unico con pluralità di parti nel quale la pronuncia che lo definisce non può che essere la stessa rispetto alla parte principale e all'interveniente. I poteri di quest'ultimo sono ridotti e limitati all'espletamento di un'attività meramente accessoria, subordinata a quella svolta dalla parte adiuvata. Il terzo può solo sostenere le ragioni di una delle parti, assumendo una posizione subordinata o addirittura, secondo alcuni, esercitando la medesima azione, alla quale egli aderisce attraverso una legittimazione straordinaria concorrente, ovvero mediante l'esercizio di un'azione sui generis di cui sarebbe titolare [19]. In particolare, egli può sviluppare le proprie deduzioni ed eccezioni unicamente nell'ambito delle domande ed eccezioni proposte da detta parte; se le parti del giudizio principale pongono termine al rapporto processuale, ovvero, per rinuncia od acquiescenza delle stesse, la lite cessa di esistere non ha il potere di far proseguire il processo. In caso di rinuncia, neppure è necessaria la sua accettazione, dato che non è configurabile un suo interesse alla prosecuzione del giudizio e, secondo l'interpretazione offerta dalla giurisprudenza costante della Cassazione, non può neppure proporre autonoma impugnazione [20]. Al fine che interessa appare, quindi, sufficiente osservare che l'interveniente è titolare di poteri così limitati da far ritenere che, in buona sostanza, la soluzione affermata nella sentenza non è molto distante da quella propugnata dall'indirizzo più restrittivo [21].

(IV) Modalità di voto in assemblea e poteri del presidente

Un altro profilo di interesse della decisione concerne due problemi che appaiono unificati nella quarta massima, ma che non sono necessariamente connessi, e riguardano, rispettivamente, il sistema di votazione delle deliberazioni assembleari ed i poteri del presidente dell'assemblea della s.p.a.

Relativamente al sistema di votazione, la sentenza si inserisce nel solco dell'orientamento assolutamente prevalente, che reputa legittima l'adozione della deliberazione per "alzata di mano" [22]. La questione dei metodi di votazione si pone perché il codice civile non li ha disciplinati, anche se l'evoluzione degli ultimi anni sta in parte colmando la lacuna, attraverso la previsione, in taluni casi, del sistema del voto di lista e la disciplina del voto per corrispondenza [23]. Allo stato, è proprio il silenzio del legislatore sulla materia a far ritenere che l'autonomia privata può liberamente esplicarsi, con l'osservanza dei soli limiti derivanti dal procedimento di formazione della volontà assembleare. Il sistema in esame non ne incontra però alcuno, in quanto permette di identificare ex post i soggetti che hanno concorso all'adozione della delibera e versano eventualmente in conflitto di interessi; garantisce la trasparenza del procedimento; permette al socio di astenersi; non è in contrasto con le esigenze che richiedono l'adozione di sistemi capaci di assicurare la agevole e sicura identificazione delle manifestazioni di voto. Le questioni sorte in ordine ai metodi di votazione hanno, infatti, riguardato eminentemente l'ammissibilità - essenzialmente nelle società cooperative - dell'elezione delle cariche sociali con voto segreto, che presenta caratteri tali da rendere dubbia la possibilità di ritenerlo adeguato ad assicurare il soddisfacimento di dette esigenze. L'ammissibilità del voto segreto è stata infatti a lungo negata dall'orientamento prevalente della giurisprudenza onoraria, sul rilievo che esso impedisce al socio di dimostrare il proprio eventuale dissenso, quindi incide sul diritto di agire in giudizio per la dichiarazione di invalidità della deliberazione e sul diritto di recesso, e non permette di individuare il contenuto della manifestazione di volontà del socio al quale è eventualmente imputato un conflitto di interessi. L'interpretazione più restrittiva non ha ricevuto però il conforto della più recente giurisprudenza di legittimità, orientatasi nell'affermare l'ammissibilità del voto segreto, almeno nel caso dell'elezione delle cariche sociali, desumendola dalla previsione contenuta in tal senso nella legislazione speciale e dalla considerazione che siffatte deliberazioni non possono dare luogo a conflitto di interessi, né al diritto di recesso.

La giurisprudenza di merito non ha pienamente aderito all'indirizzo della Corte [24], che non sembra aver fugato tutti i dubbi che il voto segreto pone. Ritenere, infatti, che il socio può dimostrare di avere dissentito facendo risultare dal verbale la sua posizione contraria significa affermare che la legittimazione è condizionata dalla violazione della regola convenzionale o da una sua conformazione che finisce con l'essere tale da porla sostanzialmente nel nulla e da vanificare la stessa finalità che dovrebbe giustificarla. La preordinazione di meccanismi diversi di controllo rischia peraltro di appesantire inutilmente gli oneri procedimentali, apparendo comunque il metodo in contrasto con le esigenze di trasparenza che dovrebbero caratterizzare la vita della società. La libertà dei soci di determinarsi liberamente sui sistemi di votazione fa sì che la scelta può costituire o meno oggetto di una specifica clausola statutaria. Nel primo caso, dall'espressa previsione del metodo da osservare deriva l'annullabilità delle deliberazioni eventualmente adottate con un metodo diverso. Nel secondo - verificatosi nella fattispecie in esame - ovvero qualora lo statuto preveda una pluralità di sistemi di votazione, sorge il problema di identificare l'organo sociale titolare del potere di scelta. Al riguardo, la sentenza precisa che "la proposta del presidente di procedere in tutte le votazioni, e in particolare in quella oggetto di contestazione, alla votazione per alzata di mano, risulta tacitamente approvata dalla maggioranza dei soci intervenuti". La puntualizzazione così operata induce a ritenere che il Tribunale ha esattamente identificato nell'assemblea l'organo deputato a scegliere il metodo di votazione [25].

La correttezza della soluzione può essere dimostrata senza che occorra prendere posizione sulla questione della posizione del presidente dell'assemblea e accertare se egli abbia una competenza propria ovvero derivata dall'assemblea. Invero, anche aderendo alla prima tesi, i poteri del presidente non possono che essere quelli di carattere ordinatorio o comunque limitati a valutazioni di carattere meramente tecnico-formale [26]. Tra essi non può certo ricomprendersi quello di scelta del sistema di votazione, in quanto la relativa opzione si riflette sul modo stesso di essere della società, sicché attribuirla al presidente significherebbe affermare che egli ha una posizione di supremazia rispetto all'assemblea, pervenendo ad un risultato non condivisibile secondo nessuna delle diverse configurazioni che si danno circa la posizione del presidente [27]. Peraltro, il presidente può proporre all'assemblea di seguire un determinato sistema, come è avvenuto nella fattispecie in esame. In tal caso, una volta effettuata la proposta, la relativa deliberazione ben può essere adottata mediante la verifica delle opposizioni. Quest'ultima non è altro che uno dei tanti sistemi di votazione possibili, neppure molto diverso da quello per alzata di mano e, conseguentemente, non può ritenersi che la proposta ha ottenuto soltanto un "consenso tacito" ed argomentare di deliberazione approvata tacitamente [28]. Piuttosto va osservato che la dottrina non ha mancato di segnalare che il vero problema è spesso quello del sistema da seguire nella votazione preliminare, qualora insorga una contestazione su quello proposto del presidente [29]. Nel caso in commento tale questione non si è posta, dato che, per quanto risulta dalla decisione, l'impugnante non ha dissentito dal metodo adottato per la votazione strumentale, ma ha limitato la contestazione alla proposta concernente la votazione principale.

(V) L'influenza del patto parasociale sulla validità della delibera

Superate le questioni preliminari, i giudici hanno esaminato l'eventuale influenza dell'eccepito inadempimento dell'accordo parasociale sulla validità della deliberazione assembleare. La questione sembra risolta con qualche incertezza, come si evince dallo stesso tenore della quinta massima, che induce eminentemente dubbi di metodo e sulla opportunità di taluni passaggi argomentativi, forse non necessari nell'economia della decisione. La sentenza è caratterizzata da una motivazione alternativa, mentre la graduazione delle questioni che gli stessi giudici hanno stabilito, e la soluzione data a quella preliminare, induce a chiedersi se occorresse esaminare, sia pure incidentalmente, la validità del patto parasociale.

Il Tribunale lo ha interpretato, affermando che il socio di maggioranza si era obbligato esclusivamente a designare un numero limitato di consiglieri, senza assumere l'impegno di astenersi dal partecipare alla votazione di quelli proposti dagli altri soci. L'accordo - puntualizza infatti la sentenza - non contemplava "l'obbligo specifico e giuridicamente azionabile, in capo a Commercio e Industria, di esprimere il proprio voto in assemblea secondo determinate modalità" e, quindi, nessun inadempimento poteva esserle imputato. Con tale affermazione il caso avrebbe potuto ritenersi chiuso. Così invece non è accaduto ed giudici hanno proceduto oltre, precisando che, comunque, qualora il socio di maggioranza si fosse obbligato ad astenersi dal partecipare alla votazione, siffatta pattuizione avrebbe integrato una sottrazione all'assemblea del potere di nomina degli amministratori, quindi la lesione delle "prerogative sovrane dell'organo". In tal caso, l'accordo avrebbe dovuto essere giudicato "nullo ai sensi della pregressa giurisprudenza della Suprema Corte" [30] "o, comunque, più correttamente alla luce della attuale giurisprudenza" [31], "del tutto ininfluente sul piano assembleare e societario", in quanto l'unica azione esperibile nei confronti della parte inadempiente sarebbe stata quella di danno, risultando intangibile la deliberazione assembleare.

Sintetizzato così l'iter argomentativo della sentenza, deve senz'altro convenirsi con l'affermazione che, se l'accordo [32] si risolveva nell'assunzione da parte del socio di maggioranza dell'obbligo di designare un numero limitato di amministratori rispetto ai posti disponibili, era davvero difficile potere fondatamente dubitare della sua legittimità, in quanto da esso non derivava un vincolo di voto, né una sottrazione all'assemblea del potere di nomina [33]. Il meccanismo attraverso il quale realizzare lo scopo, costituito dal c.d. voto di lista, e prima ancora la stessa finalità avuta di mira dalle parti, non solo rendeva plausibile l'esclusione dell'obbligo di astensione, ma ancora più deponeva nel senso della validità dell'accordo. Infatti, l'art. 2368 c.c., stabilisce che l'atto costitutivo, per la nomina alle cariche sociali, può stabilire norme particolari e la norma, nell'interpretazione offertane dalla dottrina, permette appunto di prevedere quale sistema di voto quello indicato nell'accordo [34], secondo una ricostruzione ora confortata dall'interpretazione sistematica, dato che esso è stato espressamente previsto dall'art. 4, D.L. n. 332/1994, convertito in L. n. 474/1994 [35]. Quest'ultima disposizione non è direttamente applicabile al caso in esame, perché concerne soltanto le società controllate direttamente o indirettamente dallo Stato oggetto di procedure di dismissione pubblica che prevedono, nei propri statuti, limiti al possesso azionario.

Non occorre qui occuparsi dei problemi interpretativi posti dalla norma e neppure della condivisibilità o meno dell'innovazione legislativa [36], ma - anche all'interno di un sistema che va caratterizzandosi per la definizione di un diritto societario per settori - da essa è desumibile il favor del legislatore per una regola che realizza la democrazia all'interno della società e può essere strumentale rispetto allo scopo di attirare l'investimento dei piccoli risparmiatori, grazie alla concreta possibilità loro offerta di contare qualcosa. Inoltre, significativamente, la norma non contempla una mera possibilità, ma un vero e proprio obbligo, sicché, alla luce della sua ratio, sembra possibile ritenere che una modalità di elezione degli organi sociali stabilita con carattere di inderogabilità per talune particolari società può costituire senz'altro oggetto di una disciplina pattizia per le altre.

Depone per la correttezza di tale ipotesi interpretativa la considerazione che la Corte di cassazione ha in un caso identificato i sistemi di votazione che possono essere statutariamente previsti proprio valorizzando le norme che, nella legislazione speciale, ne prevedono specificamente alcuni, onde ricavarne l'ammissibilità dell'estensione pattizia [37]. Dunque, secondo tale ricostruzione, l'accordo esattamente è stato giudicato valido, apparendo altresì logicamente coerente con il suo contenuto la mancata assunzione da parte del socio di maggioranza dell'obbligo di astenersi dalla votazione dei consiglieri proposti dagli altri soci. Identificato quale scopo del patto quello di assicurare alle minoranze la nomina di un numero prefissato di amministratori, appare chiaro che esso non è vanificato dalla partecipazione alla loro elezione da parte del socio di maggioranza, a meno che ciò non sia frutto di intese dirette ad eluderlo [38]. Peraltro, il voto di lista può essere realizzato attraverso sistemi diversamente congegnati [39] e tra essi è riconducibile anche quello convenuto nell'accordo. Inoltre, la decisione di accorpare due delle tre liste presentate neppure atteneva alla modalità di attuazione, né richiedeva l'esercizio dei poteri del presidente dell'assemblea o una deliberazione dell'adunanza, in quanto si è evidentemente trattato di una scelta riservata ai proponenti delle liste.

Il Tribunale, come si è accennato, ha però ritenuto di esaminare anche un'ipotesi alternativa, derivata dalla identificazione quale oggetto dell'accordo della disciplina del diritto di voto e dell'assunzione da parte del socio di maggioranza dell'obbligo di astenersi dal votare candidati diversi da quelli da esso stessi designati. L'ipotesi, benché delineata in linea meramente eventuale, ha condotto il collegio ad affrontare il problema della legittimità di un patto di sindacato, definibile come tipico.

La sentenza non apporta elementi nuovi su tale problematica, oggetto di un dibattito che, come è noto, ha assunto dimensioni singolarmente vaste. I giudici si sono limitati a richiamare l'orientamento della Corte di cassazione, al quale hanno dichiarato di volere aderire, sicché sarebbe un fuor d'opera riesaminare, ovvero anche solo sintetizzare lo stato della questione [40]. Sembra quindi opportuno soffermarsi soltanto a segnalare che, nonostante l'affermazione di adesione all'indirizzo dei giudici di legittimità, non è, forse, agevole ricondurre la decisione al suo interno e, soprattutto, può porsi qualche dubbio in ordine alla tecnica di risoluzione delle questioni applicata dal Tribunale di Varese.

La sentenza, per una motivazione talora perplessa e per la mancata esplicitazione di argomentazioni specifiche, fa dubitare che si sia inteso prestare senz'altro ossequio all'orientamento più recente dei giudici di legittimità. A tratti traspare anzi un'opzione per quello più risalente nel tempo, e ciò sia per la precisazione che il patto avrebbe dovuto essere "giudicato nullo ai sensi della pregressa giurisprudenza della Suprema Corte", "o comunque, più correttamente alla luce della attuale giurisprudenza, ... del tutto ininfluente sul piano assembleare", sia per la puntualizzazione che l'indirizzo più recente, "a detta di alcuni commentatori" sarebbe frutto di un obiter [41].

In primo luogo, sembra opportuno osservare che la Corte, con le sentenze pronunziate anteriormente al 1995, benché abbia manifestato costantemente un particolare rigore ed una chiara diffidenza nei confronti degli accordi parasociali, non sembra aver espresso un indirizzo assolutamente univoco.

Con riferimento alla specifica questione delle convenzioni aventi ad oggetto la nomina degli amministratori, all'iniziale affermazione della loro nullità per violazione delle norme di ordine pubblico che disciplinano l'assetto delle società di capitali [42] è, infatti, seguita l'enunciazione del principio secondo il quale essi sono leciti - inter partes - almeno nei casi nei quali non svuotano permanentemente l'assemblea delle funzioni sue tipiche, privandola di contenuto [43]. Quest'ultimo orientamento è divenuto prevalente nella giurisprudenza di merito [44], a fronte di una più problematica articolazione delle posizioni della dottrina sulla questione dei requisiti di validità dei patti parasociali [45].

Entrambi gli indirizzi appaiono comunque inconciliabili con quello più recente espresso dalla Corte con la sentenza n. 9975 del 1995, nonostante l'inciso contenuto nella decisione ("o comunque") per affermare l'infondatezza della domanda possa far sorgere qualche dubbio al riguardo. L'elemento comune, pure identificabile nella circostanza che i sindacati di voto, operando su un piano parasociale, non incidono sui poteri e sulle funzioni dell'organo assembleare [46], e quindi il loro inadempimento non influisce sulla validità delle deliberazioni assembleari [47], è insufficiente a permetterne l'assimilazione. La sentenza del 1995 contiene infatti un ulteriore passaggio costituito dall'esame della questione dei requisiti di validità degli accordi, risolto nel senso che essi sono soltanto quelli propri di ogni contratto, secondo un principio ribadito e portato ad ulteriori conseguenze da una recente sentenza della Corte d'appello di Milano [48], che più decisamente supera l'indirizzo secondo il quale dovrebbe comunque aversi riguardo all'influenza derivante sull'organizzazione della società. Allo stato uno dei nodi della questione è, quindi, quello della possibilità di ritenere o meno che i requisiti di validità possano essere identificati avendo riguardo anche all'influenza che esso ha sull'organizzazione della società, forse non risolubile con la sola considerazione che, poiché il patto non incide sulla validità degli atti sociali, deve essere valutato senza tenere conto delle correlazioni con il contratto di società. Infatti, non sembra infondato chiedersi, come ha efficacemente osservato un'autorevole dottrina, se un tale approccio non significhi stendere un "velo di benevola ipocrisia", sulla questione [49] e non considerare, con scarso realismo, che le conseguenze patrimoniali dell'inadempimento configurano spesso un vincolo particolarmente intenso, certo più forte di quello derivante dalla preoccupazione delle conseguenze dell'inadempimento sulla validità delle deliberazioni sociali, che rischia di svuotare di significato le regole di funzionamento della società. In ogni caso, ciò che qui interessa non è il merito della questione, ma la necessità di determinarsi sulla validità del patto in un giudizio che ha ad oggetto l'annullabilità della delibera. Se il patto parasociale, secondo la Cassazione, "opera su un terreno che è esterno a quello dell'organizzazione"; se esso "non impedisce in alcun modo al socio di determinarsi all'esercizio del voto in assemblea come meglio egli creda" e l'eventuale inadempimento "ha rilievo solo per l'eventuale responsabilità contrattuale"; se, infine, il "vincolo obbligatorio assunto opera, cioè, né più né meno che come qualsiasi altro motivo soggettivo ed individuale che possa spingere un socio ad assumere in assemblea un certo atteggiamento e ad esprimere un determinato voto" [50], è legittimo chiedersi se il giudice dell'impugnazione della deliberazione assembleare, in questo come in molti altri casi, debba o meno esaminare la validità del patto.

Per le considerazioni svolte dalla Cassazione, il patto parasociale resta infatti evidentemente estraneo al giudizio nel quale si controverte esclusivamente della validità della deliberazione assembleare. Rispetto a quest'ultimo esso rileva come mero fatto, quindi soltanto in quanto sia possibile ricavare da esso elementi per evincerne l'esistenza di un interesse del socio in conflitto con quello sociale, a prescindere dalla sua validità. Pertanto, può dubitarsi della necessità, al fine della decisione, di esaminare un rapporto che non ha carattere né di punto, né di questione pregiudiziale o condizionante il diritto azionato nel giudizio [51].

Sarebbe stato forse possibile - nella decisione che si commenta, ma anche in molte altre che hanno esaminato i patti parasociali - non esprimersi sulla loro validità e ciò, da un canto, avrebbe permesso una più agevole definizione della controversia, dall'altro, avrebbe evitato di enunciare principi non necessari nell'economia della decisione, i quali comunque hanno soltanto il valore di obiter e richiedono peraltro un più compiuto approfondimento della rilevanza degli effetti che essi provocano sulla disciplina del funzionamento della società.

Note:

1 Computando erroneamente i voti; le irregolarità denunciate, giudicate irrilevanti all'esito della prova di resistenza, riguardavano peraltro modalità di fatto, come tali prive di particolare interesse.

2 In dottrina, per una completa rassegna delle diverse tesi, R. Sacchi, L'intervento e il voto nell'assemblea della s.p.a.. Profili procedimentali, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E Colombo e G.B. Portale, Torino, 1994, 3, 1, 278; G. Zanarone, L'invalidità delle delibere assembleari, ivi, Torino, 1993, 3, 2, 288; R. Rordorf, Impugnativa del bilancio da parte del socio astenuto, nota a Trib. Genova 18 marzo 1991, in Le società , 1991, 1388; P. Marano, L'astenuto: assente o dissenziente, nota a Trib. Udine 12 febbraio 1990, in Giur.comm., 1991, II, 990; S. Rossi, L'astensione dal voto nell'assemblea di società per azioni, in Giur. comm., 1987, I, 544.

3 Cass. 21 novembre 1996, n. 10279, in Foro it., 1997, I, 3651, con nota di L. Delle Vergini; analogamente, Cass. 20 giugno 1997, n. 5542, in Giust. civ., 1997, I, 2743, puntualizza che la conclusione è confortata dall'interpretazione logica. Tra i giudici di merito, alle sentenze richiamate nella nota che precede e nella nota 6, adde, App. Milano 29 marzo 1991, in Giur. it., 1991, I, 2, 794, con nota di R. Weigmann; Trib. Milano 29 settembre 1988, in Le società , 1989, 162, con nota di V. Salafia.

4 App. Milano 29 marzo 1991, cit.; in tal senso, F.Ferrara jr - F. Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano, 1999, 550, dato che gli AA. sottolineano che la legittimazione non deriva dal dissenso, bensì dalla mancata partecipazione alla formazione della volontà.

5 R. Rordorf, Impugnativa del bilancio, cit.; A. Mineo, La legittimazione del socio astenuto all'impugnativa delle deliberazioni assembleari, in Riv. soc., 1964, 100.

6 E'questa la posizione sovente accolta in giurisprudenza: Trib. Genova 18 marzo 1991, cit.; Trib. Udine 12 febbraio 1990, cit; Trib. Napoli 20 maggio 1983, in Le società, 1984, 445; in dottrina, G. Ferri, Le società, Torino, 1987, 652; G. Grippo, Il recesso del socio, in Trattato delle società per azioni, cit., 6, 1,174.

7 Per una puntuale critica dell'orientamento che valorizza i motivi dell'astensione e ritiene necessaria una indagine caso per caso, P. Marano, op. cit., 991.

8 C. conti, sez. contr. enti, 27 novembre 1992, n. 44, in Riv. Corte conti, 1993, fasc. 1, 34; C. Stato, sez. VI, 5 settembre 1991, n. 538, in Cons. Stato, 1991, I, 1346.

9 T.A.R. Abruzzo, 29 luglio 1991, n. 296, in Trib. amm. reg., 1991, I, 3546; T.A.R. Abruzzo, sez. Pescara, 5 luglio 1985, n. 330, in Foro amm., 1986, 907, ha ritenuto illegittimo il regolamento di una U.S.L. che escludeva dal computo del quorum deliberativo gli astenuti.

10 C. Stato, sez. V, 21 giugno 1985, n. 242, in Foro amm., 1985, 1080. Non sono ricavabili indicazioni significative da Cass., sez. un., 16 dicembre 1994, n. 10798, in Mass. Foro it., 1994, in quanto la sentenza concerne un caso nel quale la modalità del computo del quorum deliberativo è specificamente disciplinata.

11 Le difficoltà, segnala la dottrina, derivano dalla mancanza di indicazioni testuali e dalla circostanza che la soluzione è diversa secondo si ritenga che l'organizzazione della società è caratterizzata dall'istanza partecipativa o da quella efficientistica, opinandosi che le astensioni concorrano nel computo della base di riferimento del quorum deliberativo dell'assemblea straordinaria e non di quella ordinaria, salvo, per quest'ultima, la previsione di una diversa regolamentazione statutaria; sul punto, diffusamente, R. Sacchi, op cit., 278, ove completi riferimenti. In giurisprudenza, Trib. Pescara 9 gennaio 1993, in P.Q.M., 1993, fasc. 3, 45; Pret. Milano 12 gennaio 1990, in Le società , 1990, 631, con nota di M. P. Severi, nel senso dell'esclusione dal computo delle azioni o quote del socio astenuto, con riferimento però al caso di astensione obbligatoria; per ulteriori riferimenti, L'assemblea delle s.p.a., a cura di E. Bocchini, Padova, 1991, 84.

12 Pettiti, La prova di resistenza delle deliberazioni assembleari di società, in Impresa e società. Scritti in memoria di A. Graziani, Napoli, 1968, 1571; A. Mineo, op. cit., 101.

13 In particolare, G.F. Campobasso, Diritto commerciale, 2, Torino, 1998, 313, fa riferimento all'astensione come ad una mancata partecipazione a quella sola specifica deliberazione. Nel diritto amministrativo è stata significativamente sottolineata la differenza tra l'astensione e il caso del voto espresso mediante scheda bianca, in quanto di quest'ultimo si tiene conto ai fini della determinazione del quorum funzionale, siccome - diversamente dalla prima - solo esso costituisce manifestazione, in forma indeterminata, dell'atto del votare, T.A.R. Sicilia 30 gennaio 1995, n. 118, in Trib. amm. reg., 1985, I, 1044.

14 Il riferimento è all'art. 131, D.Lgs. n. 59/98, che attribuisce soltanto al socio dissenziente il diritto di recesso dalla società quotata che divenga non quotata all'esito di un'operazione di fusione.

15 L'azione di nullità non può infatti incontrare i limiti esaminati nel testo, in quanto l'art. 2379 c.c., tenuto conto della ratio che informa l'azione e della sua stessa finalità, non condiziona affatto l'azione alla partecipazione all'assemblea o la preesistenza ad essa della qualità di socio, Cass. 8 giugno 1988, n. 3881, in Giur. it., 1988, I, 1, 2925.

16 Per tutti, F. Ferrara jr - F. Corsi, op. cit., 550; F. Di Sabato, Manuale delle società, Torino, 1996, 470; G. F. Campobasso, op. cit., 314; in giurisprudenza, Cass. 13 aprile 1989, n. 1788, in Le società , 1989, 1030; Cass. 15 marzo 1984, in Giur. comm., 1985, II, 23; tra i giudici di merito, Trib. Padova 18 gennaio 1986, in Le società, 1986, 1092; Trib. Milano 30 giugno 1983, in Banca borsa tit. cred., 1985, II, 517. Per ulteriori, esaustivi riferimenti, M. Marulli, in G. Cavalli - M. Marulli - C. Silvetti, La società per azioni, in Giur. sist. dir. civ. comm., fondata da W. Bigiavi, Torino, 1996, 324; G. Zanarone, op. cit., 284.

17 P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, Milano, 1958, 10; per una critica convincente, cfr. G. Zanarone, op. cit., 286.

18 G. Cottino, Diritto commerciale, I, 2, Padova, 1994, 506; F. Ferrara jr - F. Corsi, op. cit., 550, anche se ritengono che il trasferimento sia possibile soltanto se abbia costituito oggetto di specifica pattuizione.

19 Per tutti, C. Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, I, Torino, 1998, 343; F.P. Luiso, Diritto processuale civile, I, Milano, 1997, 299.

20 La Corte d'appello di Torino, con ordinanza del 26 novembre 1996 (in Foro it., 1997, I, 934, nella nota di commento di G. Giovannoni, riferimenti sull'indirizzo della Corte di cassazione), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 105, secondo comma, c.p.c., per come interpretato dal diritto vivente in relazione all'inesistenza di un potere di autonoma impugnazione da parte dell'interventore adesivo, questione dichiarata infondata dalla Corte cost. 30 dicembre 1997, n. 455.

21 Per l'identificazione dei poteri dell'interveniente secondo la giurisprudenza, M. Finocchiaro, in Rassegna di giurisprudenza del c.p.c., art. 105, c.p.c., a cura di G. Stella Richter e P. Stella Richter, Milano, 1996, 906; G. Giovannoni, In tema di legittimazione ad impugnare dell'interventore adesivo dipendente: necessità di rivedere l'orientamento giurisprudenziale, nota a Cass. 16 aprile 1994, n. 3616, in Foro it., 1995, I, 2969. Le pronunzie concernenti l'intervento nei giudizi d'impugnazione delle deliberazioni societarie sono rare, mentre è vivo il dibattito sull'ammissibilità dell'intervento nel procedimento dell'art. 2409, c.c., sul quale, per riferimenti, A. De Angelis, Partecipazione dell'esperto di parte all'ispezione ex art. 2409 c.c.; intervento nel procedimento e diritto di controllo del socio, nota a App. Roma 31 ottobre 1995, in Temi romana, 1996, 105.

22 Trib. Genova 28 dicembre 1994, in Giur. comm., 1996, II, 533, con nota di A. Pericu, Computo e rilevazione delle maggioranze nelle assemblee di società per azioni con azionariato diffuso; in dottrina R. Sacchi, L'intervento e il voto nell'assemblea della s.p.a., cit., 295, ove ampi riferimenti.

23 F.Ferrara jr - F.Corsi, op. cit., 749; E. Pagnoni, in Il T.U. della intermediazione finanziaria, a cura di C. Rabitti Bedogni, Milano, 1998, 697; G. Cosattini, La disciplina della votazione per corrispondenza nelle società soggette a privatizzazione ex l. n. 474/1994, in Giur. merito, 1996, 587.

24 Cass. 21 novembre 1996, n. 10279, in Le società , 1997, 775, con nota di M. Balzano; per il contrario orientamento, Trib. Vibo Valentia 23 agosto 1996, ivi , 1997, 428, con nota di S. Leone; nelle note di commento riferimenti di giurisprudenza e di dottrina.

25 La conclusione non è peraltro affatto pacifica; per indicazioni sui diversi orientamenti, R. Sacchi, Il presidente dell'assemblea, in Riv. dir. civ., 1996, I, 287; D. Cenni, Presidente di assemblea di società per azioni, in Contr. e impr., 1993, 847; in giurisprudenza, secondo Trib. Lecce 21 marzo 1992, in Giur. comm., 1993, II, 126, con nota di G. Martina, Osservazioni a Trib. Lecce 21 marzo 1992 in tema di deliberazione di fusione, se l'atto costitutivo prevede una pluralità di sistemi di votazione per la nomina alle cariche sociali, l'assemblea - quindi non il presidente - ben può scegliere di volta in volta quale sistema adottare.

26 Esemplificativamente, dovrebbe ritenersi che spetta al presidente la decisione sulla legittimazione del socio il cui diritto di voto sia stato sospeso, ma non l'esclusione dal voto qualora questi versi in conflitto d'interessi (per la seconda ipotesi, App. Venezia 14 gennaio 1993, in Le società , 1993, 937; App. Bari 23 febbraio 1988, in Dir. fall., 1988, II, 716); su tali questioni, D. Cenni, op. cit.

27 Per l'orientamento contrario, F. Di Sabato, op. cit., 453; D. Cenni, op. cit., 864. Gli AA. precisano, però, che la decisione spetta al presidente, salvo, in caso di dissenso, la determinazione ad opera dell'assemblea, sicché la decisione soltanto apparentemente è del presidente, in quanto è in effetti sempre condizionata all'assenso dell'assemblea. In tal senso, appare chiarificatrice l'osservazione di F. Galgano, La società per azioni, Padova, 1988, 235, che la scelta è operata dall'assemblea, ovvero "con la tacita adesione di questa, dal presidente".

28 In tal senso, invece, A. Pericu, op. cit., 545, il quale però puntualmente distingue la deliberazione approvata tacitamente dalla deliberazione implicita. Per un caso in cui è stato ritenuto rilevante il consenso tacito espresso dall'assemblea, sia pure concernente la designazione del soggetto chiamato a presiedere l'assemblea, Trib. Milano 9 novembre 1987, in Riv. not., 1989, 239.

29 R. Sacchi, op. cit., 297.

30 Il richiamo dei giudici, esplicitato nella decisione, è alle sentenze 25 gennaio 1965, n. 136, in Giust. civ., 1965, I, 1452; 23 aprile 1969, n. 1290, in Foro it., 1969, I, 1375.

31 Si tratta della sentenza 20 settembre 1995, n. 9975, in Le società , 1996, 37, con nota di F. Pernazza, Validità delle convenzioni di voto: un "anticipatory overruling"? e in Giur. it., 1996, I, 1, 164, con nota di G. Cottino, Anche la giurisprudenza canonizza i sindacati di voto?

32 Peraltro, il patto parasociale si caratterizzava in quanto stipulato tra la società ed il socio di maggioranza anteriormente all'acquisto della partecipazione da parte di quest'ultimo, circostanza non frequente, ma legittima (sulla partecipazione della società all'accordo parasociale, G. Santoni, Patti parasociali, Napoli, 1985, 97).

33 L'accordo parasociale costituito dall'attribuzione di una mera facoltà di designazione è quello che, secondo la dottrina maggioritaria, pone minori problemi sotto il profilo della sua validità: per tutti, P.G. Jaeger, Il problema delle convenzioni di voto, in Giur. comm., 1989, I, 239. Peraltro, un significativo precedente circa le possibilità offerte dall'art. 2368 c.c., è costituito dalla sentenza della Corte di cassazione che, nelle società cooperative, ha ritenuto legittimo il sistema di nomina degli amministratori mediante il ricorso a schede prestampate contenenti i nomi di tutti o di alcuni dei candidati, Cass. 19 ottobre 1990, n. 10171, in Foro it., 1991, I, 2154.

34 Per tutti, P. Marchetti, Riforma del collegio sindacale e ruolo dei revisori contabili, in Privatizzazioni e riforma del diritto societario, in Quaderni di finanza, fasc. 10, Consob, 1995, 61.

35 La norma, nella parte di interesse dispone "... le liste potranno essere presentate dagli amministratori uscenti o da soci che rappresentino almeno l'1% per cento delle azioni aventi diritto di voto nell'assemblea ordinaria e saranno rese pubbliche, mediante deposito presso la sede sociale e annuncio su tre quotidiani a diffusione nazionale, di cui due economici, rispettivamente, almeno venti giorni e dieci giorni prima dell'adunanza; alle liste di minoranza dovrà essere riservato complessivamente almeno un quinto degli amministratori non nominati ai sensi dell'articolo 2, comma 1, lettera d), con arrotondamento, in caso di numero frazionario inferiore all'unità, all'unità superiore ...".

36 Sui quali, anche per riferimenti, P. Matteini, Voto di lista: una piccola riforma o una previsione inutile?, nota a Trib. Roma 18 marzo 1996, in Foro it., 1997, I, 3436; e la nota di commento di P. Anello e S. Rizzini Bisinelli, in Le società , 1996, 839.

37 Il riferimento è a Cass. 21 novembre 1996, n. 10279, cit., secondo la quale l'ammissibilità del voto a schede segrete nelle società cooperative è confortata dalla circostanza "che nella legislazione speciale si rinvengono norme che espressamente prevedono l'elezione delle cariche sociali con voto segreto (cfr. art. 6, L. 1° agosto 1981, n. 416, in materia di cooperative giornalistiche)".

38 La questione sarebbe stata in tal caso molto simile a quella esaminata da Trib. Roma 18 marzo 1996, cit., che ha appunto riguardato un caso di voto concertato diretto ad eludere le norme che garantiscono la presenza nel consiglio di amministrazione di rappresentanti delle liste di minoranza.

39 Per l'esemplificazione dei metodi applicativi, P. Matteini, op. cit., 3438.

40 Nella vastissima letteratura sul tema, per tutti L. Farenga, I contratti parasociali, Milano 1987; G. Santoni, Patti parasociali, cit.; di recente, V. Buonocore, V. Calandra Buonaura, F. Corsi, R. Costi, A. Gambino, P.G. Jaeger, Un revirement della cassazione in materia di sindacati di voto?, nota a Cass., 20 settembre 1995, n. 9975, in Giur. comm., 1997, II, 58; per completi riferimenti di giurisprudenza, F. Camilletti, Le convenzioni di voto negli orientamenti della giurisprudenza, in Rass. dir. civ., 1995, 844; Id., Convenzioni di voto e conflitto di interessi, nota a Cass. 27 luglio 1994, n. 7030, in Giur. comm., 1997, II, 103. Peraltro, il patto parasociale in questione, tenuto conto dei soggetti tra i quali è intervenuto, del tempo della stipula, del riferimento a società bancarie e del suo stesso contenuto, presenta profili che meriterebbero un particolare approfondimento, se fosse però possibile avere un'esatta conoscenza dell'accordo, non ricavabile dalla sentenza.

41 Il riferimento è a G. Cottino, Anche la giurisprudenza, cit.; peraltro il carattere di obiter dell'affermazione contenuta nella sentenza del 1995 non è affatto pacifico come risulta dagli scritti di V. Buonocore, R. Costi e P. G. Jaeger, richiamati nella nota che precede.

42 Cass. 25 gennaio 1965, n. 136, cit.

43 Cass. 17 aprile 1990, n. 3181, in Foro it., 1991, I, 1533; Cass. 23 aprile 1975, n. 1581, in Giur. comm., 1975, II, 575; Cass. 23 aprile 1969, n. 1290, cit. In particolare, la sentenza del 1969 esplicitamente dà atto che "questa Suprema Corte, temperando il rigore di una giurisprudenza originariamente più intransigente, ha affermato che ... la questione della nullità dei patti parasociali, concernenti l'esercizio del voto, deve essere risolta in base all'esame delle singole situazioni", per indicazioni su tale evoluzione, F. Di Sabato, op. cit., 462.

44 Per una rassegna, cfr. gli scritti di F. Camilletti richiamati nella nota 40.

45 Le distinzioni riguardavano, oltre che il contenuto del patto, le modalità di espressione del voto, a maggioranza o a minoranza, la questione del conflitto di interessi con la società: L. Farenga, op. cit.; G. Santoni, op. cit. La Cassazione aveva identificato il discrimen tra sindacati leciti ed illeciti con riferimento alle modalità di deliberazione, all'unanimità o a maggioranza; per una recentissima sintesi, V. Salafia, I patti parasociali nella disciplina contenuta nel D.Lgs. n. 58/98, in Le società , 1999, 261.

46 Così testualmente la sentenza n. 9975 del 1995, cit.

47 Secondo un principio che - sia pure in riferimento alle società quotate nei mercati regolamentati - non sembra innovato dal D.Lgs. n. 58/98: V. Salafia, op. cit., 266.

48 App. Milano 24 luglio 1998, in Giur. it., 1998, 2336, con nota di G. Cottino, Ancora dei sindacati di voto: con qualche variazione sul tema.

49 G. Cottino, op. ult. cit.

50 Così, testualmente, Cass. 20 settembre 1995, n. 9975, cit.

51 Sull'accertamento incidenter tantum dei diritti e dei rapporti pregiudiziali, A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1996, 71.