Fonte: Le Società - Giurisprudenza - 11 / 1999, p. 1373
Amministratori
SULLA RESPONSABILITA' DEGLI AMMINISTRATORI PRIVI DI DELEGA
Tribunale Napoli - Ordinanza 17 maggio 1999 - Pres. Lipani - Est. Abete - Ric. Bombaci
con commento di Alberto Figone
Società di capitali - Amministratori - Amministratori privi di delega - Responsabilità - Dovere di controllo e diligenza - Fattispecie
La valutazione della diligenza degli amministratori costituisce oggetto di un giudizio ex ante e la funzione di controllo e vigilanza sull'operato degli amministratori delegati non può reputarsi prerogativa di ciascun singolo componente del consiglio di amministrazione (I).
Il Tribunale (omissis).
3) "... accordata [nde: la cautela de qua] sul presupposto che i convenuti (tutti, senza, ripetesi, distinzione alcuna in relazione alla durata delle cariche ...) [nde: invero, si è ritenuto di censurare l'assimilazione tra la posizione di "chi nel Banco aveva operato (a torto o a ragione) per lustri e chi viceversa vi era appena entrato il 29 aprile 1994 (come il Bombaci)" (così, testualmente, ricorso introduttivo, pag. 3)] fossero venuti meno al dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione ...", il G.I. non si è "minimamente posto il problema di verificare il nesso di causalità tra la citata pretesa omessa vigilanza generale e le perdite (ma quali?); di analizzare le condotte dei singoli amministratori (e sindaci), specie in relazione alla durata della carica (come perfino il Banco aveva chiesto); di procedere ad una verifica della fondatezza degli addebiti mossi dal Banco agli amministratori con riferimento alle singole posizioni creditorie individuate in citazione (si consideri - come si è scritto ripetute volte - che le delibere del Banco hanno sempre perseguito, per tali posizioni, la ristrutturazione delle stesse e/o l'acquisizione di ulteriori garanzie; ad alcune di esse, poi, non ha partecipato il dott. Bombaci perché cessato dalla carica!" (così, testualmente, ricorso introduttivo, pagg. 8-9);
(omissis).
Ai fini della compiuta disamina delle censure "di merito", siccome in precedenza enucleate sub 3), occorre previamente dar atto, in rapporto agli amministratori senza delega in carica nel periodo compreso tra il 1° luglio 1991 ed il 16 gennaio 1995 - è il caso del reclamante, componente del consiglio di amministrazione per il periodo compreso tra il 29 aprile 1994 ed il 16 gennaio 1995 - che, l'ordinanza impugnata, alla stregua degli accertamenti ispettivi condotti dalla Banca d'Italia, fonda la loro probabile responsabilità su "la violazione ... del dovere - sancito dall'art. 2392, secondo comma, c.c. - di vigilare diligentemente sul generale andamento della gestione, in relazione alle enormi carenze riscontrate dagli ispettori nei controlli interni e nell'istruttoria delle pratiche di fido, ..." (così, pag. 37); in particolare, a supporto del giudizio prognostico all'uopo formulato, il provvedimento reclamato richiama esiti e rilievi di cui al rapporto ispettivo della Banca d'Italia, ove si identifica nel degradato contesto amministrativo, nella marcata inaffidabilità del sistema informativo, nella mancanza di una pianificazione strategica adeguatamente formalizzata, nel diffuso disinteresse per l'approntamento di adeguati flussi informativi, nella prassi di non sottoporre a tempestive verifiche la validità delle decisioni assunte, nell'insufficiente attenzione verso una razionale pianificazione degli assetti organizzativi, il complesso delle concause delle perdite accumulate dal Banco di Napoli nel periodo compreso tra il 1991 ed il 1996, il complesso delle disfunzioni "che nessuno dei consiglieri di amministrazione privi di deleghe pare essersi con la necessaria diligenza attivato per eliminare o attenuare, le iniziative prese da taluni di loro (e soprattutto dal prof. Somogyl) essendo rimaste "episodiche ed isolate", e che, evidentemente, chiamano direttamente in causa anche la precipua e solidale responsabilità di detti amministratori, non a caso tutti quanti perciò sanzionati dal Ministero del tesoro, in relazione al proprio dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione" (così ordinanza reclamata, pag. 41; non è fuor di luogo precisare che l'assemblea ordinaria del Banco di Napoli ha, in data 7 agosto 1997, deliberato l'estensione dell'azione di responsabilità, in precedenza autorizzata nei confronti dei soli amministratori delegati e direttori generali in carica nel periodo 1° luglio 1991-16 gennaio 1995, agli amministratori senza delega ed ai sindaci in carica nel medesimo periodo, sicché la circostanza che il reclamante abbia ricoperto la carica di amministratore delegato dal 17 gennaio 1995 al 10 maggio 1995 non riveste valenza nel presente contesto processuale).
La puntualizzazione che in primo luogo si impone a fronte del costrutto motivazionale che sorregge la probabilistica affermazione di responsabilità, attiene alla intrinseca natura degli addebiti ascritti agli amministratori muniti di delega e, parallelamente, sub specie di inottemperanza al dovere di vigilanza ex art. 2392, secondo comma, c.c., agli altri amministratori.
Invero, mercè il rinvio alle risultanze degli accertamenti condotti dagli ispettori della Banca d'Italia, si è ritenuto di configurare l'azione gestoria, segnatamente in rapporto all'organizzazione interna ed all'istruttoria delle pratiche di fido, in termini palesemente contrari agli elementari principi di buona amministrazione.
Or dunque, se non vi è margine, in linea di principio, per valutazioni in tema di economicità e di opportunità dell'azione dell'organo di amministrazione, giacché per quanto penetrante e pervasivo possa concepirsi il controllo dell'autorità giudiziaria, è indubitabile che trovi limite nell'autonomia privata (cfr. in tal senso Cass. 28 aprile 1997, n. 3652), è al contempo indiscutibile che l'insindacabilità dell'operato degli amministratori non è assoluta, ben potendosi accertare se abbiano agito con la diligenza e la prudenza che vengono normalmente richieste nella gestione di un patrimonio altrui (cfr. in proposito App. Genova 5 luglio 1986, in Giur. comm., 1988, II, 730; cfr., inoltre, Trib. Milano 28 marzo 1985, in Fall., 1985, 1287, ove è stato giudicato gravemente colposo il comportamento di amministratori che avevano emesso cambiali per un importo cinque volte superiore al capitale sociale, per partecipare alla costruzione di un edificio, sulla base del semplice accertamento dell'esistenza del piano edificatorio e senza controllare che l'operazione venisse condotta da un operatore di provata professionalità).
A tal ultimo riguardo la più recente giurisprudenza di legittimità ha puntualizzato "che non sempre risulta agevole distinguere in concreto tra valutazioni di mera opportunità (come tali non censurabili in sede giudiziaria) e la deduzione della violazione dell'obbligo di agire con diligenza. Il discrimine tra queste due diverse figure, tuttavia, sussiste, e va soprattutto individuato in ciò: che la scelta tra il compiere o meno un certo atto di gestione, oppure di compierlo in un certo modo o in determinate circostanze, non è mai di per sé sola (salvo che non denoti addirittura la deliberata intenzione dell'amministratore di nuocere all'interesse della società) suscettibile di essere apprezzata in termini di responsabilità giuridica, per l'impossibilità stessa di operare una simile valutazione con un metro che non sia quello dell'opportunità e perciò di sconfinare nel campo della discrezionalità imprenditoriale; mentre, viceversa, è solo l'eventuale omissione, da parte dell'amministratore, di quelle cautele, di quelle verifiche, o di quelle informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel genere che può configurare la violazione dell'obbligo di adempiere con diligenza il mandato di amministrazione e può quindi generare una responsabilità contrattuale dell'amministratore verso la società. In breve: il giudizio sulla diligenza non può mai investire le scelte di gestione degli amministratori, ma tutt'al più il modo in cui esse sono state compiute" (così Cass. 28 aprile 1997, cit.). Va debitamente soggiunto che la valutazione della diligenza degli amministratori costituisce oggetto di un giudizio ex ante, da riferire, ciò, alle circostanze, oggettive e soggettive, del momento in cui furono posti in essere gli atti dai quali ebbe a scaturire un pregiudizio per la società.
In secondo luogo, del pari in linea generale, va precisato che, al di là del dovere di diligenza gravante sugli amministratori in rapporto ai poteri ed alle prerogative ad essi demandate - vuoi in veste di amministratori delegati vuoi in quanto meri componenti del consiglio di amministrazione le cui attribuzioni non siano state delegate, né congiuntivamente né disgiuntivamente, a taluni dei suoi componenti - è indubitabile che, in ogni caso, i membri del consiglio, pur privi di poteri di attiva amministrazione - ferme le attribuzioni insuscettibili di delega -, son tenuti ex art. 2392, secondo comma, c.c. a vigilare sull'operato del comitato esecutivo ovvero degli amministratori delegati, sia allo scopo di prevenire possibili pregiudizi per la società (ed i creditori sociali) sia allo scopo di eliderne ovvero di attenuarne le conseguenze dannose (nei casi di conferimento di delega non è erroneo configurare una sorta di attenuazione dell'obbligo di diligenza limitatamente agli amministratori deleganti, nei limiti, evidentemente, delle materie devolute, giusta il disposto dell'art. 2392, primo comma, ultima parte, c.c.; per converso, si tende a riconoscere che il dovere di vigilanza permanga integro, stante la sua generale valenza, benché non vi siano state deleghe di poteri). Il duplice profilo teleologico dianzi individuato, d'altro canto, non osta - ci sembra - alla unitaria connotazione della funzione di vigilanza, esprimendone icasticamente, in rigorosa aderenza alla dicotomica articolazione dell'art. 2392, primo comma, c.c., sia la componente preventiva sia quella, per così dire, "successivo-riparatoria", destinata, quest'ultima, ad esplicarsi anche in rapporto agli effetti dannosi degli illeciti compiuti antecedentemente all'assunzione della carica da parte degli amministratori (cfr. all'uopo Cass. 26 novembre 1964, n. 2794 ove si puntualizza, con specifico riferimento alla seconda parte del secondo comma dell'art. 2392 c.c. che l'amministratore che, succedendo ad altro amministratore, riceve una gestione affetta da gravi irregolarità ed a tali irregolarità omette del tutto di dare adeguata rilevanza, informandone il consiglio di amministrazione e l'assemblea dei soci, è responsabile non già dell'attività dei precedenti amministratori, bensì della propria omissione, a seguito della quale la società viene a risentire interamente delle conseguenze dannose di quelle medesime irregolarità; in senso analogo cfr. Cass. 19 novembre 1976, n. 4338).
Per altro verso, non è fuor di luogo sottolineare che la responsabilità ex art. 2392 c.c., sia essa ancorata alla violazione del dovere di diligenza ovvero alla violazione del dovere di vigilanza, è pur sempre responsabilità per fatto proprio, per colpa propria: benché il meccanismo posto a presidio dell'adempimento dell'obbligazione risarcitoria destinata a scaturire dall'inottemperanza ai doveri anzidetti, sia quello della solidarietà, in dipendenza, evidentemente, della frequente (de facto) imputabilità a più soggetti - i componenti dell'organo amministrativo - del medesimo illecito, è indubitabile che non si risponda per fatto altrui (cfr. in tal senso App. Napoli 26 novembre 1990, in Le Società , 1991, 1050 e, prim'ancora, Cass. 9 luglio 1979, n. 3925).
Altresì, non può tacersi che il thema del potere-dovere di vigilanza - inteso nei termini anzidetti - involge, inevitabilmente, il profilo, tuttora oggetto di ampia disputa dottrinaria, della correlativa - collegiale o individuale - titolarità e, dunque, delle relative modalità di esplicazione e dei relativi limiti di esercizio.
Invero, se nessun dubbio sussiste in ordine all'esplicazione (e, prim'ancora, alla titolarità) collegiale del potere di vigilanza e d'intervento, appunto, mercé l'azione dell'organo consiliare, nel contesto spazio-temporale delle riunioni del consiglio di amministrazione, incertezza, invece, si prospetta in merito alla facoltà degli amministratori, segnatamente degli amministratori privi di delega, di esercitare individualmente poteri di controllo analitico sulla gestione sociale, poteri di istruttoria tecnica, poteri di acquisizione di informazioni concernenti dati, atti e documenti inerenti l'attività sociale (individua senz'altro, quale titolare del potere di vigilanza, altresì ciascun componente del consiglio Trib. Milano, 17 marzo 1986, in Le Società, 1986, 619; non pare, invece, offrir spunti meditati perché possa esser consapevolmente ascritta a tal ultimo indirizzo Cass. 24 marzo 1998, n. 3110. Più articolato è il complesso delle ricostruzioni dottrinarie: si è sostenuto che al di fuori del contesto consiliare il singolo amministratore non abbia poteri, "neppure quello di chiedere direttamente informazioni o di consultare personalmente documenti sociali"; di contro, si è ritenuto che la funzione di vigilanza implica per sua stessa natura l'iniziativa del singolo amministratore e su tale scorta si è argomentato per l'esistenza di poteri individuali, di vigilanza e di intervento, di ciascun amministratore; in posizione mediana, infine, si è opinato nel senso che il singolo amministratore, fuori del contesto consiliare, non è munito del potere, tipicamente ispettivo, di recarsi personalmente negli uffici della società per acquisire atti e documenti al fine di sceverare se tra essi vi siano atti o documenti essenziali per la vita societaria, nondimeno, onde acquisir piena cognizione in merito agli argomenti all'ordine del giorno delle riunioni consiliari sui quali è chiamato a deliberare, ben potrebbe assumere informazioni in previsione e prima della seduta collegiale, limitatamente a dati e documenti concernenti gli argomenti posti all'ordine del giorno).
Ebbene, reputa il collegio che la funzione di vigilanza, latu sensu intesa, non possa reputarsi prerogativa di ciascun singolo componente del consiglio.
A tal fine è ad evidenziarsi, innanzitutto, che, quanto meno con riferimento alle società per azioni - è il caso di specie -, la presenza di una pluralità di amministratori, importa necessariamente (art. 2380, secondo comma, c.c.) la caratterizzazione in forma collegiale dell'organo gestorio. Su tale scorta può correttamente rilevarsi, in chiave sistematica, che, allorquando il legislatore ha inteso pur nel contesto dell'organo collegiale di appartenenza, attribuire prerogative e facoltà a ciascuno dei componenti, lo ha esplicitato inequivocamente: è il caso, emblematico, dell'art. 2403, terzo comma c.c., ove espressamente si conferisce a ciascun sindaco il potere di procedere in qualsiasi momento, anche individualmente, ad atti di ispezione e di controllo. Né, invero, a fondare il postulato interpretativo che si è ritenuto di condividere ed affermare, concorre, riduttivamente, il mero canone ermeneutico ubi lex voluit, dixit, noluit, tacuit: l'operata opzione esegetica disvela la sua solida ratio, giacché l'attribuzione di funzioni di vigilanza e controllo a ciascun componente dell'organo di amministrazione, segnatamente agli amministratori deleganti, avrebbe comportato nelle s.p.a., a tutto scapito della linearità dell'assetto organizzativo e della ripartizione delle funzioni, una sostanziale duplicazione di competenze già demandate all'organo - ed ai suoi singoli membri - all'uopo istituzionalmente preposti (nelle s.r.l. le prerogative accordate a ciascun socio, ex art. 2489 c.c., valgono ex se ad elidere in radice, in ipotesi di amministrazione collegiale, la necessità di configurare poteri di vigilanza in capo a ciascun membro del consiglio).
D'altro canto, non è ad opinarsi che l'individuazione del referente soggettivo della responsabilità nella persona di ciascun amministratore, quale palesata dall'espressione "amministratori" rinvenientesi al secondo comma dell'art. 2392 c.c., postuli necessariamente la titolarità individuale della funzione il cui inesatto assolvimento se ne prospetta quale fonte genetica: la titolarità (e la correlata estrinsecazione) collettiva del compito istituzionale de quo agitur, non importa deroga al principio cardine della responsabilità individuale, per fatto proprio, per colpa propria, in considerazione del meccanismo di esenzione di cui al terzo comma dell'art. 2392 c.c. Anzi, non è privo di significato il rilievo esegetico alla cui stregua il mezzo all'uopo previsto, nella disposizione codicistica da ultimo citata, onde consentire l'esonero dalla responsabilità, anche con riferimento a presunte inottemperanze nella funzione di vigilanza (l'inciso "per gli atti o le omissioni" richiama simmetricamente il dovere di diligenza ed il dovere di vigilanza), si sostanzi nell'annotazione senza ritardo del dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio di amministrazione, il che induce a ritenere, siccome la disponibilità del libro ai fini dell'annotazione si attua essenzialmente, se non esclusivamente, nel contesto spazio-temporale delle riunioni consiliari, che è nel corso delle riunioni medesime che vengono assunte le determinazioni in tema di vigilanza da cui (in ipotesi di inettitudine) è doveroso dissentire, che è nel corso delle stesse riunioni che, al cospetto di atti di mala gestio, vengono decretate le iniziative necessarie al fine di eliderne o ridimensionarne le pregiudizievoli conseguenze, sicché è in siffatto contesto che l'amministratore privo di delega ha da far annotare, a fronte della colpevole inerzia della maggioranza, la sua contraria opinione, che, dunque, è collegiale l'esplicazione ed, evidentemente, la titolarità della funzione medesima.
Non è privo di significato, del resto, il rilievo per cui, pur quando si reputa che l'attività di vigilanza è prerogativa di ciascun singolo amministratore, si riconosce indubitabilmente che gli amministratori non possono adottare individualmente i provvedimenti che si rendono necessari, dovendo all'uopo sollecitare la riunione del consiglio di amministrazione affinché collegialmente siano assunte le necessarie determinazioni (si reputa, in particolare, che la collegialità sia un connotato ineludibile, giacché si ricade nell'attività deliberativa; nondimeno, siffatta ricostruzione non coglie che l'attività deliberativa trova pur sempre la sua matrice giustificativa nella attività di controllo precedentemente espletata, sicché può a giusta ragione essere ricondotta nel quadro dell'attività di vigilanza latu sensu intesa).
Certo, non ignora questo collegio giudicante che a fondare la responsabilità dell'amministratore, occorre imprescindibilmente dar prova del nesso di causalità tra l'atto di mala gestio ovvero l'inottemperanza al dovere di vigilanza ed il danno lamentato ossia che il pregiudizio al patrimonio sociale sia da ricondurre eziologicamente all'atto (doloso o) colposo ascrivibile all'organo gestorio (cfr. in tal senso Trib. Milano 1° luglio 1976, in Dir. fall., 1977, II, 111; Trib. Roma 19 gennaio 1982, in Soc., 1983, 337; Trib. Milano 6 febbraio 1989, in Giur. comm., 1989, I, 2, 758; Trib. Pavia 12 luglio 1989, in Giur. merito, 1990, 505; Cass. 25 settembre 1980, n. 5327).
Altresì, è ad opinarsi che, allorquando si addebiti agli amministratori privi di delega l'omessa vigilanza (intesa, benvero, non solo in chiave preventiva, altresì in prospettiva "successivo-riparatoria" ovvero ex post facto, in quanto destinata all'assunzione delle iniziative necessarie al fine di eliminare ovvero di attenuare gli effetti pregiudizievoli dell'atto gestorio) sull'attività degli amministratori delegati, la prova del nesso di causalità fra la violazione del dovere incombente sui primi e la produzione del danno deve ritenersi raggiunta mediante la dimostrazione che, se il controllo fosse stato eseguito in conformità alla legge, il danno - secondo la comune esperienza - non si sarebbe verificato.
La responsabilità di amministratori (e sindaci) è responsabilità colpevole.
Per altro verso, la natura contrattuale della responsabilità ex artt. 2392-93 c.c. (cfr. in tal senso Cass. 9 luglio 1987, n. 5989) solleva senz'altro la società dalla dimostrazione del dolo o della colpa degli amministratori, operando a pieno titolo la previsione dell'art. 1218 c.c.; segnatamente, accertata l'esistenza di un danno per la società dipendente da mala gestio degli amministratori e da omesso controllo degli amministratori privi di delega, è a reputarsi che tali ultimi, qualora vogliano andar esenti da responsabilità, debbano fornire la prova dell'impossibilità materiale e contingente di evitare, con la richiesta diligenza, il verificarsi del pregiudizio al patrimonio sociale. In quest'ottica può assumersi, circa i limiti del potere-dovere di vigilanza, che gli amministratori diversi da quello che ha compiuto l'atto pregiudizievole, pur antecedente all'assunzione della carica da parte dei primi, vadano esenti da responsabilità a condizione che non sia stato loro possibile né avvertire il compimento di tale atto, né conseguentemente intervenire per impedirlo ovvero per eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose (cfr. in proposito Cass. 24 marzo 1998, n. 3110, ove si prefigura un'esenzione da responsabilità allorché la funzione di vigilanza abbia trovato ostacolo nel comportamento - in verità non meglio definito - degli altri amministratori).
Alla luce delle operate puntualizzazioni si valuterà la posizione di Francesco Bombaci.
Il dato che va innanzitutto evidenziato attiene alle più che probabili irregolarità gestionali, alla più che probabile irragionevolezza che ha connotato l'azione degli amministratori muniti di delega, siccome poste in risalto dai rapporti ispettivi della Banca d'Italia - "da ritenersi particolarmente attendibili in considerazione dell'affidabilità e competenza tecnica dell'organo da cui provengono" (così ordinanza pronunciata sul reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. di Angelo Mancusi, pag. 9) - e significativamente riscontrate dalle denunce e dai rilievi formulati dal sindaco Iannuzzi, entrato a far parte dell'organo di controllo in data 29 aprile 1994, e da tal Gennaro Cuomo, a sua volta a capo del servizio controllo crediti e contenzioso a decorrere dal 6 luglio 1994 (cfr. ordinanza "Mancusi", pag. 12 e segg.).
Nondimeno, è a puntualizzarsi che non vi è margine, di già nel presente contesto cautelare, per ascrivere al reclamante, in forza di presunte colpevoli deficienze nell'assolvimento dei compiti (collegiali) preventivi di vigilanza, la macroscopica irregolarità sostanziatasi nella predisposizione del bilancio dell'esercizio chiuso al 31 dicembre 1993, di poi rivelatosi inveridico ed inattendibile e, ciò nonostante, palesante un utile pari a L. 110.000.000.000, utile, all'esito dell'approvazione assembleare, integralmente distribuito ai soci evidentemente su conforme determinazione della medesima assemblea. Invero, rilievo pregnante in tal senso riveste la circostanza alla cui stregua il Bombaci ebbe ad assumere la carica di componente effettivo del consiglio di amministrazione in data 29 aprile 1994, contestualmente ossia all'approvazione del documento contabile, la cui predisposizione, pertanto, non gli può esser imputata.
Al contempo, in rapporto alla previsione della seconda parte dell'art. 2392, secondo comma, c.c., peculiare valenza riveste la circostanza che di già la "semestrale" al 30 giugno 1994 ebbe a dar ragione di sofferenze per L. 3.400.000.000.000, evidenziando una perdita pari a L. 219.000.000.000; il bilancio predisposto a chiusura del medesimo esercizio, altresì, ebbe a registrare sofferenze per la maggior cifra di L. 4.500.000.000.000 e una perdita per complessive L. 1.147.000.000.000. In questi termini vi è ragione per opinare, pur nei limiti della summaria cognitio, che il reclamante o, più esattamente, il consiglio nella cui compagine il Bombaci era inserito, abbia provveduto se non ad eliminare, senza dubbio ad avviare l'opera di ridimensionamento degli effetti e della portata delle pregresse irregolarità che incisivamente avevano infirmato la veridicità delle precedenti prospettazioni contabili, in guisa da renderle appariscenti e da portarle alla luce. Del resto, la stessa circostanza che in data 6 luglio 1994, a capo del servizio controllo crediti e contenzioso, sia stato assegnato Gennaro Cuomo ovvero colui che ebbe immediatamente a denunciare disfunzioni ed incongruenze (in particolare che non venivano espletati controlli nell'assunzione e nella gestione di posizioni di rischio; che vi era un rilevante arretrato nella trattazione delle pratiche riguardanti gli incagli, le sofferenze e le transazioni; che, infine, vi erano disfunzioni sul piano organizzativo e strutturale), costituisce segno ulteriore del nuovo corso inaugurato dall'organo gestorio in cui sedeva il Bombaci, in un'ottica indiscutibilmente volta a disvelare ed a porre rimedio ai vecchi mali, alle passate irregolarità.
Del nuovo corso, d'altra parte, dà atto lo stesso istituto di emissione.
Nella raccomandata a mano rimessa in data 2 gennaio 1995 al Banco di Napoli, avente ad oggetto la situazione aziendale, l'istituto centrale riconosce "che l'azione di riqualificazione successivamente avviata da codesto Banco è stata sottoposta a diversi momenti di riflessione congiunta ..."; che "tra le iniziative assunte al fine di porre rimedio alle carenze dell'area estero vi sono la trasformazione della filiale di Parigi in un ufficio di rappresentanza ...", che, "per quanto attiene alla qualità del credito, anche a seguito della costante opera di sensibilizzazione svolta dalla Vigilanza, codesta Azienda ha intrapreso un processo di revisione del portafoglio crediti che, sebbene non ancora ultimato, ha portato ad una consistente emersione a "sofferenza" di partite precedentemente ricomprese tra gli impieghi vivi; secondo quanto riferito, dalle posizioni di rischio sottoposte da questo Istituto all'attenzione di codesta azienda per approfondirne la natura, ad inizio ottobre [nde: 1994] erano state classificate a voce propria esposizioni pari a circa 460 mld; per altri 139 mld era imminente o in corso il passaggio a sofferenza; circa 500 mld erano "sotto osservazione"".
Certo, è innegabile che il reclamante ben avrebbe potuto, di già nel mese di ottobre, allorché la falsità del bilancio al 31 dicembre 1993 era stata sufficientemente disvelata, esperire impugnativa di nullità (giacché chiunque vi abbia interesse, anche in difetto della qualità di socio, è legittimato all'azione per la declaratoria di nullità della deliberazione di assemblea di società per azioni di approvazione del bilancio, è ad opinarsi che siffatta iniziativa prescinda - e prescindesse, nella fattispecie - da collegiali determinazioni in tal senso da parte dell'organo consiliare); ed, al contempo, impugnare di nullità la delibera di distribuzione degli utili, giacché meramente fittizi (non possono essere pagati dividendi sulle azioni, se non per utili realmente conseguiti e risultanti dal bilancio regolarmente approvato: art. 2433, secondo comma, c.c.). Tuttavia (pur a prescindere dal rilievo che, a rigore, la distribuzione di utili fittizi postula che l'effettiva consistenza patrimoniale della società - cioè la differenza positiva tra attivo e passivo - sia tale da non comprendere, oltre al capitale sociale ed alla riserva legale, la somma distribuita come utile), è indubitabile che la declaratoria di nullità del bilancio e, soprattutto, la ripetizione dei dividendi distribuiti sulla scorta della delibera di approvazione del bilancio al 31 dicembre 1993, avrebbe potuto trovar ostacolo nella previsione di cui all'art. 2433 u.c. c.c., segnatamente, risultando dal bilancio regolarmente approvato utili netti corrispondenti, nella verosimile buona fede degli azionisti percettori; in tal guisa, in relazione al dettato dell'art. 2392, secondo comma, seconda parte, c.c., scarsa valenza, scarsa efficienza causale avrebbe rivestito siffatta iniziativa.
Per altro verso è, sì, vero che la citata missiva in data 2 gennaio 1995 della Banca d'Italia ancora ribadiva che, limitatamente alle esposizioni della "Federconsorzi", "codesto Banco dovrà uniformarsi all'orientamento espresso da questo istituto (cfr. nota n. 15791 del 30 luglio 1991), includendo dette posizioni tra le sofferenze ed apportando le necessarie rettifiche alle segnalazioni finora trasmesse"; pur tuttavia, l'istituto di emissione nella medesima comunicazione attesta, inequivocamente, che "il complesso delle iniziative intraprese da codesto banco denota la consapevolezza delle problematiche esistenti e conferma la volontà dei vertici della banca di perseguire con coerenza l'obiettivo della riqualificazione interna e di colmare le lacune esistenti in rilevanti aspetti della realtà aziendale e del gruppo".
In tal guisa vi è margine per ritenere che le persistenti incongruenze gestionali e, per i fini che qui rilevano, le persistenti deficienze nella funzione collegiale di vigilanza di cui - nel periodo 29 aprile 1994/16 gennaio 1995 - a pieno titolo è stato partecipe il reclamante, costituiscono, al più, nel quadro di un fenomeno imprenditoriale, per tradizioni ed incidenza sul "sociale", di valenza macroeconomica, il segno della ineludibile lentezza di un processo comunque inequivocamente rivolto al recupero della legalità gestionale, nel cui solco, quindi, il ripristino delle regole del buon imprenditore rappresentava un risultato inevitabilmente destinato ad esser conseguito per gradi e non repentinamente.
Alla stregua delle anzidette considerazioni, dunque, la culpa del reclamante non appare - allo stato - assistita dall'imprescindibile fumus, ovvero non appaiono - allo stato - censurabili, sotto il profilo della dovuta ragionevolezza e conformità agli elementari principi di buona amministrazione, le modalità di esplicazione della funzione di vigilanza cui collegialmente ha atteso, sicché si giustifica la revoca della cautela nei suoi confronti disposta. (omissis).
Commento di Alberto Figone
(I) La pronuncia in esame, resa in sede di reclamo avverso un provvedimento cautelare di sequestro conservativo, consente di svolgere alcune riflessioni sulla responsabilità degli amministratori di società di capitali ed, in particolare, degli amministratori privi di delega.
Come è noto, il primo comma dell'art. 2392 c.c. chiama gli amministratori a rispondere verso la società dei danni derivanti dall'inosservanza dei doveri imposti loro dalla legge o dall'atto costitutivo, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di uno o più amministratori delegati [1]; per il secondo comma poi gli amministratori sono comunque solidalmente responsabili per l'omessa vigilanza sull'andamento della gestione societaria, ovvero per aver mancato di impedire il compimento o eliminare le conseguenze dannose di atti pregiudizievoli alla società, di cui fossero stati a conoscenza.
Tanto la responsabilità degli amministratori delegati quanto quella degli amministratori privi di delega è responsabilità per fatto proprio: in altri termini, gli amministratori senza delega non rispondono degli atti e delle azioni degli amministratori delegati (o del comitato esecutivo) solo per essere componenti del consiglio di amministrazione, bensì quando sia loro imputabile un comportamento negligente omissivo nei termini sopra rappresentati. La responsabilità degli amministratori privi di delega trova dunque il suo presupposto in un inadempimento dei doveri propri degli amministratori delegati; senza di esso infatti non si potrebbe configurare un'omissione di controllo e di vigilanza.
Se, in linea di principio, è agevole individuare la responsabilità dell'amministratore nel non aver osservato, nell'esercizio delle sue attribuzioni, la diligenza del mandatario, assai complessa è l'applicazione pratica di quel principio. Il mandato è infatti quel contratto con cui un soggetto si impegna a compiere per conto e nell'interesse di un altro, atti giuridici determinati (art. 1703 c.c.); gli amministratori invece hanno il compito di gestire la società, ossia di compiere tutti gli atti che ne consentano il funzionamento, salvo che non siano riservati alla competenza dell'assemblea. Il rinvio alla diligenza del mandatario (ispirata a quella del buon padre di famiglia) intende imporre all'amministratore un grado di diligenza medio (ossia riferito ad un amministratore medio), salvo poi richiedere gradi più elevati avuto riguardo a diverse variabili (qualifica professionale dell'amministratore, specificità dei compiti attribuitigli, entità del suo compenso, ecc.), ovvero gradi inferiori (specie quando, nelle piccole società a partecipazione familiare, l'incarico sia gratuito).
Certo, proprio perché l'attività di impresa si sostanzia nel compimento di una serie di atti, accomunati dall'elemento dell'alea, non è possibile estendere i medesimi criteri valutativi, propri di singoli atti specifici posti in essere dal mandatario. Sussiste, infatti, nell'attività degli amministratori un ampio margine per valutazioni di mera opportunità e convenienza imprenditoriale, che non sono certo censurabili dall'autorità giudiziaria, la quale è tenuta invece a verificare se vi sia stata violazione dell'obbligo di agire con diligenza. Come precisa la Corte di cassazione (e di ciò dà atto la pronuncia qui annotata) il discrimine fra queste due figure esiste: la scelta fra il compiere o meno un certo atto di gestione, oppure compierlo in un certo modo o in determinate circostanze non è mai di per sé sola suscettibile di essere apprezzata in termini di responsabilità giuridica; di contro, è solo l'eventuale omissione, da parte dell'amministratore, di quelle cautele, verifiche o informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel genere che può configurare violazione dell'obbligo di diligenza nel mandato ad amministrare [2].
In altri termini, il giudizio sulla diligenza degli amministratori non può mai investire le scelte di gestione, ma al più il modo in cui esse sono state compiute. Si tratta di una valutazione da effettuarsi certamente ex ante, ossia tenendo conto delle circostanze, oggettive e soggettive, del momento in cui furono posti in essere gli atti dai quali ebbe a scaturire un pregiudizio per la società; una valutazione ex post infatti comporterebbe sostanzialmente responsabilità degli amministratori per il solo fatto dell'essersi verificato un danno per la società, ossia una forma di responsabilità oggettiva [3].
Individuato l'ambito della responsabilità degli amministratori delegati, occorre procedere all'analisi della posizione degli altri componenti del consiglio di amministrazione. Come si è evidenziato, il secondo comma dell'art. 2392 c.c. chiama questi ultimi a rispondere per una condotta omissiva (sia per mancanza di vigilanza sull'attività degli amministratori delegati, sia per non aver impedito il compimento di atti, o non averne attenuato le conseguenze pregiudizievoli). A sua volta il terzo comma dell'articolo predetto precisa le modalità con le quali gli stessi possono andare esenti da responsabilità, tramite una condotta formale (annotazione del dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, con contestuale comunicazione al presidente del collegio sindacale). Si discute in dottrina come in giurisprudenza se il controllo di cui al secondo comma dell'art. 2392 c.c. debba essere espletato dai componenti del consiglio di amministrazione in forma collegiale, ovvero individuale.
La decisione in commento, al pari di altre che l'hanno preceduta [4], propende per la prima soluzione, sulla scorta di un'interpretazione sistematica della norma. Osserva infatti il Tribunale partenopeo che, se l'esonero da responsabilità presuppone l'annotazione del dissenso nel libro di cui si è detto, "siccome la disponibilità del libro ai fini delle annotazioni si attua essenzialmente se non esclusivamente, nel contesto spazio-temporale delle riunioni consiliari", ne consegue che "è nel corso delle riunioni medesime che vengono assunte le determinazioni in tema di vigilanza da cui è doveroso dissentire". Sul punto, come ricorda la decisione annotata, è intervenuta anche di recente la Suprema Corte, la quale, dopo aver ribadito la responsabilità solidale di tutti i componenti del consiglio di amministrazione, ha tuttavia precisato che non rispondono dell'omissione di controllo e vigilanza quei consiglieri che forniscano la prova che, pur essendosi diligentemente adoperati, siano stati impediti nell'esercitare tale vigilanza per il comportamento ostativo degli altri componenti del consiglio.
La pronuncia in esame, sulla base di una valutazione di merito della documentazione acquisita agli atti, esclude la ricorrenza di quei presupposti che, secondo l'istruttore, avrebbero invece legittimato parte attrice a richiedere il sequestro dei beni del reclamante. Da quanto si apprende dal testo dell'ordinanza, il reclamante era stato componente del consiglio di amministrazione della società attrice solo per pochi mesi rispetto al più vasto arco temporale in relazione al quale era stata esperita azione di responsabilità nei confronti dei componenti del consiglio. Se la responsabilità degli amministratori trova il suo fondamento nella colpa, e se la responsabilità nei confronti della società ha natura contrattuale, ne consegue che graverà sull'amministratore dimostrare di aver correttamente adempiuto al suo incarico (magari dimostrando di non aver potuto esercitare la dovuta vigilanza per il comportamento ostativo degli altri membri del consiglio di amministrazione) [5] competendo alla società solo l'onere della prova dell'esistenza di un danno, come conseguenza della gestione di quel consiglio di amministrazione. Ovviamente tale principio deve coordinarsi con le regole proprie del procedimento cautelare; il Tribunale esclude così la sussistenza, a livello di fumus, di un bonum jus della società attrice, nel presupposto, tra l'altro, che nel periodo cui si riferivano gli addebiti dedotti in giudizio, sia il reclamante, sia l'organo amministrativo nella cui compagine questi era inserito "avevano provveduto, se non ad eliminare senza dubbio ad ovviare l'opera di ridimensionamento degli effetti e della portata delle pregresse irregolarità che necessariamente avevano inficiato la veridicità delle precedenti prospettazioni contabili".
Va qui ricordato che, se la responsabilità degli amministratori, nei confronti della società è solidale, nei rapporti interni tuttavia essa va graduata, tenendosi conto del tempo in cui è stato ricoperto l'incarico e delle funzioni in concreto svolte: si tratta di un'applicazione dei principi generali in ordine alla responsabilità solidale dei debitori [6]; ove dovesse sussistere una responsabilità dei componenti del consiglio di amministrazione per omissioni sulla condotta degli amministratori delegati, potrà pertanto assumere rilevanza anche la più o meno lunga durata dell'incarico rispetto ai fatti contestati.
Note:
1 Risulta invece irrilevante, ai fini dell'esonero da responsabilità, una semplice divisione di fatto delle competenze fra gli amministratori: cfr. Cass. 4 aprile 1998, n. 3483.
2 Cass. 28 aprile 1997, n. 3652, in Le Società , 1997, 1389, con nota Figone.
3 Cfr., per utili riferimenti, Trib. Milano 14 settembre 1992, in Le Società , 1993, 511, con nota di Ponti.
4 Cfr. ad es. Trib. Trieste 14 novembre 1992, in Le Società , 1993, 222, con nota di Morelli.
5 Cfr. al riguardo Cass. 24 marzo 1998, n. 3110, in Le Società , 1998, 934, con nota di Colavolpe.
6 Cfr. Trib. Ancona 4 luglio 1995, in Gius, 1995, 3882.