Sentenza Cassazione civile, sez. I, 07-09-1999, n. 9477 - Pres. Senofonte - Rel. Plenteda
[Tassazione dei redditi di lavoro autonomo]
In tema di imposte sui redditi, le somme riscosse in dipendenza di una transazione, avvenuta dinanzi al pretore del lavoro, finalizzate a reintegrare il percipiente dei mancati redditi provenienti dalla sua attività all'interno di una società a causa della cessazione del rapporto intercorso con questa, vanno assoggettate a tassazione, senza che rilevi che tali somme trovano titolo nella perdita della carica di consigliere delegato (per essere stato l'interessato obbligato di fatto a rassegnare le dimissioni), ovvero nella cessazione dell'attività di prestatore d'opera continuativa e coordinata o ancora nell'una e nell'altra.
Svolgimento del processo - Il 2 agosto 1988 A.C. propose ricorso alla Commissione Tributaria di I° grado di Milano avverso il silenzio rifiuto della Intendenza di Finanza di Milano di rimborso della somma di L. 45.000.000, versate a titolo IRPEF il 15 maggio 1986 in forza di transazione, avvenuta dinanzi al Pretore del lavoro, di un giudizio che aveva avuto ad oggetto il risarcimento del danno a fronte della cessazione dell'incarico di consigliere delegato della società M. s.p.a., alla cui rinunzia era stato di fatto obbligato. Sostenne il ricorrente che, essendo stata la somma versata a titolo risarcitorio, non fosse dovuta l'imposta riscossa. La Commissione accolse il ricorso e ordinò il rimborso. L'Ufficio appellò la decisione denunziando la violazione dell'art. 17 D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, perché non era stata inviata all'Intendenza di Finanza la copia del ricorso introduttivo e chiese l'annullamento della decisione in quanto le somme corrisposte erano soggette ad IRPEF. L'appellato resistette e la Commissione Tributaria Regionale accolse con sentenza 4 marzo 1997 la impugnazione, rilevando che la cessazione di un rapporto di lavoro continuativo e coordinato aveva determinato la perdita di un reddito, sicché le somme corrisposte transattivamente meritavano l'assoggettamento alla imposizione.
Ha proposto ricorso per cassazione A.C., deducendo tre motivi di censura, illustrati da memoria. Si è costituito il Ministero delle Finanze, senza formulare richieste.
Motivi della decisione - Con il primo motivo denunzia il ricorrente la violazione degli artt. 2383, 2389, 2099 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c. Lamenta anzitutto la errata qualificazione data dalla sentenza impugnata al rapporto di lavoro, di natura subordinata, mentre si era trattato di un incarico di amministratore della società M., dal quale era stato ingiustificatamente rimosso; lamenta pertanto la attribuzione alle somme erogate del carattere retributivo, nonché la violazione del principio dell'onere della prova, avendo essa affermato che dovesse il ricorrente dimostrare la natura risarcitoria della erogazione.
La censura è infondata.
L'art. 49 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, dopo aver premesso - al pari dell'art. 49 del vigente T.U.I.R. D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 - che sono redditi di lavoro autonomo, soggetti a tassazione, quelli derivanti dall'esercizio di arti e professioni, specificava al terzo comma: "sono inoltre redditi di lavoro autonomo a) i redditi derivanti da collaborazione coordinata e continuata aventi per oggetto la prestazione senza vincolo di subordinazione, di attività diverse da quelle considerate nei titoli II e V, quali i redditi derivanti dagli uffici di amministratore, sindaco o revisore di società ed enti...". E' dunque fuor di dubbio che tali proventi fossero e siano tassabili, al pari di qualunque altro reddito di lavoro, inconferente essendo la circostanza che abbiano o meno del lavoro dipendente o di quello autonomo il carattere della retribuzione; sicché non sono risolutivi nella specie l'assunto e la prova di esso che le somme riscosse in dipendenza della transazione conclusa nel maggio 1986 tra il ricorrente e la società M. abbiano trovato titolo nella perdita della carica di consigliere delegato, ovvero nella cessazione dell'attività di prestatore d'opera continuativa e coordinata o ancora nell'uno o nell'altra, come nello stesso ricorso si espone con riguardo al tenore dell'atto introduttivo del giudizio dinanzi al pretore del lavoro, giacché i compensi, tanto dell'una quanto dell'altra, sono sottoposti a tassazione. E' dunque senza pregio la deduzione del ricorrente che le somme corrisposte dalla società ai suoi amministratori rivestano natura di "compensi" o di "remunerazioni" e che non abbiano pertanto carattere retributivo, mentre senza fondamento è la tesi che quelle somme giovarono a risarcire il pregiudizio della ingiustificata revoca del mandato, dal momento che la circostanza dedotta dal ricorrente, che sia stato obbligato di fatto a rassegnare le dimissioni dalla carica di consigliere delegato - alla stregua di quanto esposto nella narrativa della sentenza impugnata - al di là del difetto assoluto di prova è comunque inidonea a sottrarre le somme riscosse all'imposizione, in quanto l'ipotesi risarcitoria invocata, come disciplinata dall'art. 2383 c.c. - richiamato dall'art. 2487 c.c. per le società a r.l. - non può trovare applicazione nella specie, disponendo tali norme che l'incarico di amministratore sia stato revocato e non rinunziato e lo sia stato senza giusta causa, nella specie semplicemente dedotta, nella unilaterale prospettazione dell'interessato. Sicché in realtà la transazione appare finalizzata a reintegrare il percipiente dei mancati redditi provenienti dalla sua attività all'interno della società a causa della cessazione del rapporto intercorso, con l'effetto che non li esenta in alcun modo dalla imposizione fiscale.
Con il II° motivo ha dedotto il ricorrente la violazione degli artt. 46 e 49 D.P.R. 597/1973 in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c. e all'art. 2383 c.c., nonché la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Ha in particolare dedotto che la Commissione Regionale, senza fornire alcuna ragione del rovesciamento della decisione di I° grado, aveva applicato alla situazione di fatto sottoposta al suo esame regole e discipline del rapporto di lavoro subordinato, mentre si era trattato di rapporto assolutamente estraneo ad esse e persino alle cosiddette attività parasubordinate.
Anche tale censura è infondata.
Non risponde, intanto, al vero che la sentenza impugnata abbia ritenuto il rapporto dell'A. con la società M. di lavoro subordinato; utilizzando la incontroversia deduzione del ricorso introduttivo al Pretore del lavoro in cui l'A. riferì circa l'esistenza "di un rapporto lavorativo e coordinato" oltreché della carica sociale di Consigliere delegato, i giudici tributari, pur incentrando in quel rapporto di prestazione d'opera - non subordinato - le argomentazioni a sostegno della tesi adottata, hanno tuttavia fatto cenno anche alla funzione di organo amministrativo della società, considerando che le dimissioni, ammesso che il ricorrente vi fosse stato costretto dalle vicende interne, non costituiscono affatto atto lesivo della persona, tanto più che è un atto volontario" ed implica una scelta della persona di per sé dignitosa".
Con il III° motivo il ricorrente ha ribadito la denunzia precedente, lamentando la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, con riferimento al fatto che la natura risarcitoria risultava dall'atto transattivo, sicché avrebbe dovuto la impugnata sentenza indicare dettagliatamente ed analiticamente le ragioni idonee a disattendere quell'atto.
La censura è assorbita da quanto rilevato in ordine al primo motivo del ricorso, non risultando da nessun atto e in nessuna difesa che le somme erogate abbiano avuto la pretesa finalità risarcitoria, non essendo stata esplicitata né la revoca dell'incarico, né la deliberazione dell'assemblea dei soci che la dispose né la mancanza di causa ovvero la sua ingiustificatezza.
Il ricorso va pertanto respinto e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali in L. ... di cui L. 2.500.000 per onorari, oltre a quelle prenotate a campione.
PQM - La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in L. 2.800.000 di cui L. 2.500.000 per onorari, oltre a quelle prenotate a campione.