IL DIRITTO ALL' INFORMAZIONE DEL CURATORE NEI RAPPORTI BANCARI

FONTE: Valeria Castagna in Il Fallimento n. 11, anno 1998

Atti del convegno di Bologna 5-6 giugno 1998 - I RAPPORTI GIURIDICI PENDENTI, allegato pag. 229

 

1.- Documentazione bancaria e diritti del curatore.

L'argomento in esame, che si può dire sconosciuto alla dottrina ed alla giurisprudenza risalenti, ha invece suscitato attenzione crescente nell'ultimo decennio, a fronte dell'atteggiamento di resistenza adottato da taluni Istituti di Credito nei confronti delle richieste avanzate dai curatori fallimentari di ottenere copia - in particolare - delle movimentazioni dei conti intrattenuti dal fallito ovvero di diversa documentazione, comunque attinente al rapporto contrattuale facente capo al fallito ed ha trovato soluzioni diverse, sia sul piano processuale che sostanziale.

Appare opportuno tracciare qui un breve excursus delle decisioni giurisprudenziali più rilevanti in materia (sotto il profilo dell'impostazione giuridico-sistematica del problema), al fine di illustrare il percorso di elaborazione compiuto ed altresì di introdurre la conclusione cui si intende qui aderire. Corre l'obbligo di avvertire che tale rassegna non ha assolutamente i caratteri dell'esaustività e della completezza, proponendosi il più limitato scopo di tratteggiare sommariamente le argomentazioni più frequentemente o più motivatamente avanzate.

Deve altresì avvertirsi come lo studio della problematica in oggetto presenti un duplice ordine di questioni, rispettivamente di carattere sostanziale e processuale: da un lato, cioè, si tratta di accertare la sussistenza o meno di un diritto soggettivo all'esibizione<1> in capo al curatore e di ricercarne il fondamento giuridico; dall'altro, di individuare gli strumenti processuali a tutela di tale diritto.

Il primo precedente specifico in materia, a quanto consta, è costituito da un'ordinanza del Pretore di Verona emessa a seguito di richiesta di provvedimento di urgenza avente ad oggetto l'ordine alla banca di consegnare la documentazione relativa ai contratti ed alle operazioni intrattenute dalla società fallita: detto giudice, pur pervenendo al rigetto del ricorso per carenza (nel caso di specie) del requisito dell'irreparabilità del danno e per la genericità della richiesta, ha peraltro ritenuto incidentalmente la sussistenza del diritto del curatore, nella sua veste di "avente causa" del fallito, affermando che "i contratti bancari ... sono equamente integrati da un ampio diritto all'informazione in capo al contraente debole", fondato sul disposto degli artt. 1374 e 1375 c.c., senza che su tale diritto incida negativamente il limite del segreto bancario.

Si è occupato in più occasioni della problematica in oggetto il Tribunale di Verona, con nota di G. Di Chio.. L'obbligo contrattuale di rendiconto gravante sulla banca nei confronti del cliente, giustificano la sussistenza di un interesse "attuale e concreto" all'esibizione (nella specie, degli assegni emessi dalla società fallita) con la rilevanza della posizione di pubblico ufficiale rivestita dal curatore, tra i cui compiti di maggiore rilievo si pone l'obbligo di redigere la relazione ex art. 33 l.fall., contenente tutte le informazioni utili alla ricostruzione del patrimonio del fallito e delle vicende dell'impresa, nonché le linee di azione da intraprendere al fine dell'acquisizione dell'attivo, affermandosi che "la norma deve essere intesa nel senso che non possono sottrarsi alla collaborazione con il curatore quanti sono venuti in rapporto con il fallito ed in particolare quanti sono stati a lui legati da forme di collaborazione anche generica".

In epoca di poco successiva, lo stesso Tribunale, approfondendo notevolmente la tematica ed in particolare la natura giuridica del contratto di conto corrente bancario e la sua affinità con la figura tipica del mandato, ha sottolineato il carattere di precetti generali delle norme di cui agli artt. 1712 e 1713 c.c. che sanciscono gli obblighi di informazione e di rendiconto, ritenendoli non esauriti con l'invio periodico degli estratti-conto, ravvisando peraltro il fondamento del diritto nei generali principi di correttezza e buona fede; ha altresì affermato il diritto del correntista (e, per esso, del curatore) di conoscere anche l'esistenza di garanzie prestate da terzi, sul rilievo che "l'interesse alla riservatezza soccombe rispetto alla necessità di tutelare la trasparenza"; ha infine ritenuto che il diritto soggettivo all'esibizione in capo al curatore sorga anche autonomamente, in virtù dei compiti di natura pubblicistica che allo stesso incombono, cui corrisponderebbe un dovere generico di collaborazione a carico dei terzi che siano stati in rapporto contrattuale con il fallito.

Con riferimento agli strumenti processuali utilizzabili al fine di tutelare il diritto all'esibizione, un primo orientamento ritiene ammissibile l'emanazione da parte del giudice delegato di un c.d. decreto di acquisizione a norma dell'art. 25 n. 2 l.fall., facendo leva (al fine di affermarne la legittimità) sulla differenza sostanziale tra un provvedimento volto ad acquisire beni o somme in possesso di un terzo che ne contesti la spettanza al fallimento e l'acquisizione di documentazione utile al fine di ricostruire la contabilità ed il patrimonio del fallito, chiesta dal curatore anche nella sua veste di pubblico ufficiale.

Più di recente, si è manifestato un contrasto all'interno del Tribunale di Monza: il giudice designato in sede di ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c., ha fondato il diritto sostanziale del curatore all'esibizione sulla norma specifica di cui all'art. 119 T.U. n. 385/1993, ed ha altresì ritenuto sussistenti i presupposti di urgenza ed irreparabilità per l'adozione della chiesta cautela; il tribunale, in sede di reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c., pur affermando a sua volta la sussistenza del diritto, ha negato la tutela cautelare sul rilievo che l'idoneità del provvedimento anticipatorio ad assicurare in via definitiva ed irreversibile gli effetti della sentenza di merito (posto che la consegna immediata della documentazione richiesta comporta il soddisfacimento integrale della pretesa, sì da rendere inutiliter data la pronuncia conclusiva del giudizio a cognizione piena) lo renderebbe abnorme in quanto in contrasto con la natura provvisoria del provvedimento invocato.

E' stata altresì di recente percorsa la strada del decreto ingiuntivo ex art. 633 c.p.c., con riferimento peraltro ai soli estratti del conto corrente e, con provvedimento in corso di causa, quella dell'ordinanza ex art. 186 quater c.p.c., che ha fondato l'obbligo della banca sul disposto degli artt. 1713 c.c. e 119 T.U. n. 385/1993.

La giurisprudenza di legittimità non si è occupata della questione se non in epoca assai recente.

Un primo riconoscimento, sia pur indiretto, del diritto del curatore ad ottenere la documentazione bancaria, si rinviene in un obiter dictum contenuto in Cass. n. 4519/1994, ove si afferma che "tale diritto "sostanziale" può essere fatto valere nelle forme della richiesta stragiudiziale di adempimento della controparte obbligata e, quindi, del successivo normale giudizio di cognizione".

Si è invece occupata ex professo del tema la recente pronuncia della prima sezione n. 4598/1997. In tale sentenza la Corte pone anzitutto una netta distinzione tra diritto processuale e diritto sostanziale all'esibizione, riconoscendo la sussistenza di quest'ultimo in capo al curatore, nella sua qualità di avente causa o sostituto del fallito, riconoscendo da un lato la permanenza di obblighi contrattuali in capo alle parti anche a seguito dello scioglimento del contratto, individuando, dall'altro, il fondamento di tali obblighi nel generale principio di buona fede inteso come fonte di integrazione del contenuto contrattuale.

Si ritiene di dover aderire a tale configurazione del diritto del curatore per i motivi che ora sommariamente si esporranno.

Deve in primo luogo escludersi che il diritto del curatore all'esibizione possa fondarsi sulla qualità di pubblico ufficiale allo stesso attribuita espressamente dall'art. 30 l.fall., posto che tale qualifica non comporta l'attribuzione di una generale ed indifferenziata posizione di supremazia. I soggetti cui la legge attribuisce la qualifica di pubblico ufficiale, infatti, godono delle attribuzioni e delle competenze a ciascuno conferite da specifiche norme di legge, in ossequio al principio di legalità.

La qualifica di pubblico ufficiale attribuita espressamente al curatore fallimentare costituisce certamente una logica conseguenza e, se si vuole, una ulteriore indiretta conferma, della natura pubblicistica che connota l'intera procedura fallimentare, ma l'estensione dei poteri di tale "organo", cui è riconoscibile il ruolo di ausiliario di giustizia, deve pur sempre essere ricavata da specifiche norme di legge attributive di poteri specifici, tra i quali non rientra quel potere di supremazia che comporta, corrispettivamente, un obbligo di soggezione a carico dei terzi che con il pubblico ufficiale vengano in rapporto.

Meno ancora è prospettabile un potere di indagine di natura inquisitoria in capo al curatore, qualificando quest'ultimo come ufficiale di polizia giudiziaria. Una tale qualifica discenderebbe dal dettato dell'art. 33 l.fall., secondo cui il curatore "deve presentare al giudice delegato una relazione particolareggiata su quanto può interessare anche ai fini dell'istruttoria penale", che comporterebbe un vero e proprio dovere (ed il correlativo potere) di indagine. Si ritiene, peraltro, di dover negare tale qualifica in capo al curatore, rilevandosi come la detta norma non affidi al curatore l'obbligo specifico di procedere all'accertamento dei reati, ma solo lo avvisi che, se di tale eventualità egli venga a conoscenza, dovrà farne particolareggiata menzione nella relazione ed altresì che l'accertamento di fattispecie costituenti reato costituisce un contenuto solo eventuale della relazione del curatore. Di più, va tenuto conto del fatto che non è ravvisabile alcun rapporto di subordinazione o dipendenza tra il curatore ed il pubblico ministero (titolare dell'azione penale), laddove la relazione ex art. 33 l.fall. deve essere trasmessa direttamente ed esclusivamente al giudice delegato.

Il supporto normativo del diritto del curatore all'esibizione non può, peraltro ravvisarsi nemmeno nel disposto dell'art. 210 c.p.c., che regolamenta il diritto all'esibizione come diritto di natura processuale. Come ha ben chiarito la Suprema Corte, infatti, tale norma ha una valenza esclusivamente endoprocessuale, com'è reso evidente dalla collocazione della stessa nella sezione dedicata all'istruzione probatoria: è preordinata, cioè, all'acquisizione degli elementi di supporto alla pretesa fatta valere dalla parte in uno specifico giudizio. E' stato esattamente rilevato che tale diritto alla prova: "a) prescinde dall'esistenza di qualsiasi diritto reale dell'avente diritto sul documento; b) prescinde dall'esistenza di qualsiasi rapporto sostanziale intercorrente tra l'avente diritto e il detentore del documento; c) prescinde da qualsiasi obbligo sostanziale del detentore del documento di consegnare ovvero di mettere a disposizione ovvero anche solo fornire le informazioni rappresentate dal documento".

In considerazione della strumentalità del diritto processuale all'esibizione e della sua funzione esclusivamente probatoria, si esclude che esso possa essere oggetto di un autonomo giudizio.

Ciò ha indotto alcuni commentatori ad affermare che il curatore potrebbe far valere il diritto all'esibizione solo previa instaurazione di un giudizio di merito nei confronti della banca, avente ad oggetto pretesa diversa da quella alla consegna dei documenti, in ipotesi la revoca di rimesse in conto corrente. E' peraltro agevole replicare che si tratterebbe di un giudizio instaurato "al buio", con l'impossibilità addirittura di indicare un preciso petitum, con la conseguenza che l'eccezione da parte della banca convenuta di nullità della citazione per incertezza dell'oggetto della domanda apparirebbe certamente fondata.

Il diritto del curatore all'esibizione si fonda invero sul rapporto di natura contrattuale che legava il fallito all'Istituto di credito.

Discende immediatamente dalle norme di cui agli artt. 42 e 31 l.fall. (la prima delle quali sancisce che "la sentenza che dichiara il fallimento priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni" e la seconda che "il curatore ha l'amministrazione del patrimonio del fallito"), che il curatore subentra nella gestione dei beni e dei diritti che tale patrimonio compongono, ivi compresi i diritti e le facoltà connessi a pregressi rapporti contrattuali, salve le specifiche norme dettate dalla legge fallimentare in tema di rapporti preesistenti (artt. 72-83 l.fall.).

Con riferimento specifico al contratto di conto corrente bancario (contratto innominato, ancorché di uso diffusissimo nella pratica, tanto da costituire il paradigma di ogni rapporto bancario), posto che esso-come si ritiene comunemente- partecipa della causa di più contratti nominati ed in particolare dei contratti di mandato e di conto corrente, deve ritenersi che tale contratto si sciolga ex lege in caso di fallimento del correntista, in applicazione analogica del disposto dell'art. 78 l.fall., valevole appunto tanto per il mandato quanto per il conto corrente.

Si ritiene peraltro esattamente che lo scioglimento del contratto non comporti l'immediato venir meno di tutti gli obblighi esistenti tra le parti; nessuno dubita, ad esempio, che sopravviva in capo alla banca il diritto di pretendere dal cliente il pagamento del residuo saldo passivo del conto, né che permanga in capo al mandatario, a norma dell' art. 1713 c.c., l'obbligo di rendere il conto finale del proprio operato, sicché difficilmente potrebbe essere contestata la richiesta di tale, limitato, rendiconto. Gli è che la pretesa di esibizione da parte del curatore ha di regola ad oggetto non solo il rendiconto finale (che riguarda le operazioni compiute dal momento dell'invio dell'ultimo rendiconto periodico non contestato sino al fallimento), bensì una più ampia serie di documenti, tra cui anche gli strumenti contrattuali e le pezze giustificative di una pluralità di operazioni.

Non pare quindi possibile, se non in misura limitata, utilizzare ai nostri fini lo specifico obbligo di rendiconto periodico gravante sulla banca a norma degli artt. 1832 e 1857 c.c. e specificamente regolato dall'art. 119 T.U. n. 385/1993. Se infatti si può certamente sostenere che, proprio a seguito dello scioglimento del contratto (che, se non intervenuto in epoca anteriore, consegue ex lege alla dichiarazione di fallimento, ex art. 78 l.fall.), incombe sulla banca l'obbligo di rendere il conto finale delle operazioni effettuate per conto del correntista fallito, si deve peraltro considerare che dalla regolamentazione legale che presiede all'invio periodico degli estratti conto discende la loro tacita approvazione ove non contestati entro sessanta giorni dal ricevimento (art. 119 comma 2 e 3 T.U. n. 385/1993), sicché, ove (come sarà di regola agevole) la banca dimostri di aver ottemperato all'obbligo di invio periodico, non si vede come si potrebbe sostenere la sopravvivenza dell'obbligazione contrattuale adempiuta e la sussistenza di un diritto alla sua duplicazione.

Nell'individuazione degli obblighi che permangono (e talora, addirittura, sorgono) dopo lo scioglimento, per qualunque causa, del contratto, soccorre il principio di buona fede che, nel nostro ordinamento positivo, non costituisce solo un criterio ermeneutico della volontà contrattuale delle parti, bensì anche una fonte di integrazione del contenuto stesso del negozio, a norma dell'art. 1374 c.c., che va raccordato al successivo disposto dell'art. 1375 c.c., il quale a sua volta prevede che "il contratto deve essere eseguito secondo buona fede".

Ulteriore supporto normativo va ravvisato nel disposto dell'art. 1175 c.c., che, per la sua collocazione nel titolo I del libro IV, dedicato alla disciplina delle obbligazioni in generale, deve ritenersi espressione di un principio di ordine generale immanente nel sistema, di collaborazione e solidarietà tra le parti, che trova un limite solo nell'eventuale contrasto con un interesse giuridicamente tutelato della parte.

In quest'ottica deve ritenersi perfettamente congruente con il dovere di comportamento secondo buona fede il dovere di una parte (tra l'altro istituzionalmente tenuta alla conservazione della documentazione) di far avere all'altra parte contrattuale, a spese di quest'ultima, la copia di documenti di cui la stessa potrebbe disporre.

Non è a questo proposito superfluo sottolineare come il curatore, che è persona diversa dal cliente (pur esercitando nella specie i diritti che si trovano nel patrimonio di questi) sia di fatto in una posizione di oggettiva difficoltà nell'accedere alle necessarie informazioni: sia perché non è stato personalmente parte nei rapporti contrattuali e non può quindi far conto sulla scienza privata, sia perché è notorio che la documentazione rinvenuta presso l'impresa dopo la dichiarazione di fallimento è sovente lacunosa, se non del tutto mancante.

Il diritto del correntista all'esibizione, che, come si è cercato di dimostrare, trova il suo fondamento nei principi generali e nella disciplina contrattuale, è ora espressamente sancito dall'art. 119 comma 4 T.U. n. 385/1993, che recita: "Il cliente ha diritto di ottenere, a proprie spese, entro un congruo termine e comunque non oltre novanta giorni, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni". Alla luce delle considerazioni sopra svolte, peraltro, tale norma deve considerarsi una specificazione ed una conferma dell'esistenza di un diritto già esistente nel sistema. Né il riferimento alle "singole operazioni" può considerarsi una limitazione di tale diritto (nel senso che il diritto ed il conseguente obbligo troverebbero spazio solo a fronte di una richiesta dettagliata), bensì anzi un ampliamento del diritto all'esibizione già spettante al correntista, che si estenderà quindi anche ai documenti attinenti a singole operazioni.

Quanto alla latitudine di tale obbligo, dall'inquadramento della fattispecie nell'ambito delle obbligazioni contrattuali facenti carico alla banca nei confronti del proprio cliente, cui il curatore subentra, deriva che il diritto del curatore all'esibizione della documentazione ha la medesima valenza. Deve escludersi, in primo luogo, che tale diritto si esaurisca nel diritto ad una rinnovazione della trasmissione degli estratti conto. Questo documento, infatti, com'è noto, è un prospetto cronologicamente redatto di mere poste contabili, senza peraltro consentire di verificare il contenuto ed il titolo delle singole operazioni; poiché, peraltro, sul conto corrente di corrispondenza confluiscono una pluralità non solo di operazioni ma anche di rappresentazioni di diversi rapporti giuridici, se ne deve concludere che la mera rappresentazione contabile non è idonea a fornire al correntista (e, per esso, al curatore) tutte le informazioni in ordine alle operazioni che hanno dato luogo alle appostazioni contabili.

Si deve quindi concludere che il diritto all'informazione riguarda tutti quei documenti dai quali risulti la giustificazione delle singole, operazioni compiute; ciò tanto più ove si tenga presente che, per costante orientamento giurisprudenziale, l'approvazione tacita del conto non preclude l'impugnabilità dei fatti giuridici rappresentati contabilmente nell'estratto stesso.

Si inserisce in questo contesto la problematica relativa alla sussistenza o meno del diritto del cliente di prendere cognizione ed ottenere copia di documenti che coinvolgano anche (o solamente) soggetti terzi, com'è nel caso di prestazione da parte di terzi di garanzie reali o personali ovvero in relazione alle firme di girata apposte da terzi dopo la firma di traenza.

In relazione a tale ultima ipotesi, non appare corretto invocare il diritto alla riservatezza dei terzi, dal momento che tale diritto confligge con lo stesso regime di circolazione dei titoli di credito. Non si deve poi dimenticare che, a norma dell'art. 38 legge ass., "il trattario che paga un assegno bancario trasferibile per girata è tenuto ad accertare la regolare continuità delle girate"; è evidente che il correntista-mandante, al fine di esercitare il potere di controllo (conferitogli dalla legge) in ordine alla regolare esecuzione del mandato, dovrà essere posto in grado di verificare che il pagamento sia stato effettuato con l'osservanza della norma richiamata e ciò potrà fare solo avendo la disponibilità del titolo nella sua interezza.

Quanto alle garanzie prestate da terzi, è ben vero che l'obbligazione di garanzia può essere assunta all'insaputa del soggetto garantito, ma questa sola circostanza non vale a configurare un obbligo di segretezza in capo alla banca garantita (non ravvisabile in alcuna norma di legge), a fronte invece di un interesse giuridicamente rilevante del cliente di conoscere l'esistenza e l'estensione di un eventuale diritto di regresso da parte di terzi.

Mette conto, a questo punto, prendere brevemente in esame le principali obiezioni mosse dalle banche alla pretesa di esibizione del curatore fallimentare, al fine di confutarle e di trovare così ulteriore conferma alla tesi accolta.

La prima e fondamentale contestazione muove dal rilievo che, a norma dell'art. 78 l.fall., il contratto di conto corrente, anche bancario, si scioglie per effetto della dichiarazione di fallimento del correntista (ove pure, come accade di frequente, non fosse stato risolto già in precedenza dalla banca), sicché non sarebbe prospettabile la sopravvivenza ed azionabilità di obblighi che in tale contratto trovino la propria fonte.

Si è già osservato, peraltro, come siano ravvisabili obbligazioni contrattuali che permangono o sorgono post finitum contractum, dal momento che "altro è, invero, il venir meno del programma operativo di realizzazione degli interessi che nell'atto negoziale si era espresso, che effettivamente consegue allo scioglimento, altro è la cessazione di ogni diritto ed obbligo derivante dagli atti e dai comportamenti tenuti in esecuzione di quel programma.

Si rileva, ancora, da parte degli Istituti di credito, come l'avvenuto adempimento dell'obbligo di rendiconto periodico esaurisca gli obblighi di informazione a carico della banca. Anche a tale proposito, è sufficiente ribadire come il diritto del curatore non si atteggi come diritto al rendiconto, ma abbia, come si è visto innanzi, un contenuto più ampio ed un fondamento giuridico di carattere più generale, sia pure di natura contrattuale.

Non pare poi invocabile da parte della banca, nella specie, il principio espresso nel noto brocardo nemo tenetur se detegere, con riferimento al rischio che la banca, nel dar corso alla consegna della documentazione (ed in particolare degli estratti-conto) possa fornire e di fatto spesso fornisca elementi di prova sui quali la procedura potrà fondare il promuovimento di azione revocatoria nei confronti dello stesso Istituto.

In primo luogo ed in via generale parrebbe sufficiente rilevare che, ove la sussistenza di un diritto soggettivo sostanziale sia riconosciuta, del tutto irrilevante appare il motivo pratico o contingente che sottende l'esercizio di tale diritto.

In secondo luogo deve ricordarsi che la documentazione in oggetto è documentazione non interna o riservata della banca, bensì comune alle parti, come tale non coperta da alcun diritto alla riservatezza. Non si tratta, cioè, di attività inquisitoria od esplorativa da parte del curatore (se per esplorativa si voglia intendere l'attività suppletiva o sostitutiva rispetto all'onere probatorio gravante sul soggetto agente), bensì della legittima pretesa da parte di uno dei contraenti, rispetto al quale il curatore agisce utendo iuribus, di ottenere una duplicazione di quei documenti contrattuali (o comunque attinenti allo svolgimento del rapporto) di cui, di regola, la parte potrebbe o dovrebbe avere la disponibilità.

Inoltre, la promuovibilità di azioni revocatorie (che, si rammenti, è solo eventuale) costituisce solo uno tra i molteplici fini cui tende l'azione del curatore, che è volta in generale alla ricostruzione del patrimonio del fallito e delle sue vicende.

Da ultimo, non pare superfluo sottolineare come la revocatoria delle rimesse in conto corrente, esercitabile a norma dell'art. 67 comma 2 l.fall., presupponga quale elemento costitutivo la conoscenza dello stato di insolvenza in capo all'accipiens, ossia uno stato soggettivo che si risolve nella consapevolezza di ledere la par condicio creditorum. Ora, delle due l'una: o questa consapevolezza in capo alla banca è assente, sicché non è nemmeno ipotizzabile il promuovimento di azione revocatoria, che, se promossa, andrà rigettata; ovvero essa sussiste, di tal chè il preteso diritto alla riservatezza della documentazione sarebbe configurabile come strumentale alla tutela di un atteggiamento qualificabile di mala fede, ciò che confligge, prima ancora che con specifiche norme di legge, con i principi generali del nostro ordinamento.

2.- Strumenti processuali attivabili dal curatore.

Ciò posto sotto il profilo dell'individuazione del fondamento sostanziale del diritto del curatore di ottenere la consegna di copia della documentazione contrattuale in possesso della banca, appare opportuno prendere brevemente in esame i possibili strumenti processuali adottabili dalla procedura onde realizzare concretamente tale diritto.

Deve in primo luogo escludersi l'utilizzabilità del cosiddetto decreto di acquisizione, il cui fondamento è stato da parte della giurisprudenza individuato nel disposto dell'art. 25 n. 2 l.fall., che recita: "(il giudice delegato) emette o provoca dalle competenti autorità i provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio".

La Suprema Corte, con una pronuncia che si può considerare una pietra miliare in argomento ha infatti affermato che "la facoltà del giudice delegato di adottare provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio, a norma dell'art. 25 n. 2 l.fall., implica il potere di emettere decreti di acquisizione alla procedura concorsuale di eventuali sopravvenienze attive,

in possesso del fallito, o del coniuge o di altri soggetti che non ne contestino la spettanza al fallimento, ma non anche di disporre l'acquisizione di beni sui quali il terzo rivendichi un proprio diritto esclusivo incompatibile con la loro successiva inclusione nell'attivo fallimentare". Con riferimento specifico ad una fattispecie di decreto di acquisizione avente ad oggetto proprio la consegna di documentazione bancaria, la Corte ha statuito che "il provvedimento del giudice delegato che ha ordinato ad una banca di esibire al curatore del fallimento copia degli estratti conto relativi al conto corrente intrattenuto dal fallito, avendo funzione solo cautelare e preventiva, non ha carattere decisorio, né attitudine a produrre gli effetti di un giudicato, talché il decreto del tribunale fallimentare di rigetto del relativo reclamo, proposto dall'istituto di credito, non è ricorribile per cassazione a norma dell'art. 111 Cost.".

L'argomento è di per sé assorbente. Merita però rilevare, altresì, come ben difficilmente l'acquisizione di documentazione bancaria possa configurarsi, se non in senso mediato ed indiretto, come volto alla "conservazione del patrimonio". Lo scopo cui tende il curatore, infatti, è in primo luogo ed essenzialmente quello di ottenere elementi (che, evidentemente, non ha rinvenuto tra la documentazione reperita presso il fallito) utili al fine di ricostruire le operazioni poste in essere dal fallito, quali, a mero titolo di esempio, prelievi non documentati da parte degli amministratori ovvero pagamenti a terzi creditori od a soggetti con cui non risultino intrattenuti rapporti sostanziali. Solo eventuale (anche se di fatto non infrequente) è l'ipotesi in cui dall'acquisizione della documentazione emergano gli elementi che fondino la pretesa di revoca delle rimesse confluite sugli stessi conti bancari; ed anche in questo caso, l'acquisizione della documentazione ha carattere strumentale rispetto all'instaurazione dell'azione e non immediatamente conservativo del patrimonio.

Sotto un diverso profilo, non pare che la dizione della norma invocata consenta di ritenere sussistente in capo al giudice delegato un potere generalizzato di emettere provvedimenti autoritativi ed esecutivi; lo stesso utilizzo della duplice espressione "emette o provoca", infatti, induce a ritenere che il potere di adottare direttamente il provvedimento cautelare debba essere riconosciuto al giudice delegato solo in presenza di una specifica norma che tale potere gli attribuisca, com'è nel caso di cui all' art. 146 l.fall. in tema di azione di responsabilità.

Si è già detto come, stante il fondamento contrattuale del diritto, al curatore spetti l'ordinaria azione di cognizione volta all'accertamento in concreto di tale diritto ed alla conseguente condanna della banca alla consegna.

Deve peraltro ritenersi prospettabile anche il ricorso alla tutela in via cautelare, che la legge appresta in via del tutto generalizzata ed indifferenziata a difesa di qualunque diritto soggettivo azionabile in via giurisdizionale (e, per vero, anche se rimesso a decisione arbitrale), purché siano ricorrenti nel caso di specie i presupposti per l'applicazione dello specifico provvedimento richiesto.

Non pare potersi ipotizzare il ricorso al sequestro giudiziario, regolato dall'art. 670 c.p.c.: non a norma del n. 1, posto che non si controverte in ordine alla proprietà od al possesso di beni (sia pure nell'accezione ampia attribuita all'espressione dall'elaborazione giurisprudenziale), non essendo dubbio che la banca legittimamente detenga la documentazione contrattuale, in qualità di parte del rapporto; né a norma del n. 2, dal momento che manca una pretesa di carattere strettamente ed immediatamente probatorio da parte della curatela e che, in ogni caso, appare difficilmente configurabile l'opportunità di "provvedere alla loro (dei documenti, n.d.r.) custodia temporanea", non essendo affatto oggetto di contestazione la piena capacità della banca di provvedere alla conservazione dei documenti in suo possesso. Del resto, si rileva come l'interesse sotteso alla pretesa della procedura non sia quello della mera conoscenza dei documenti, bensì la disponibilità ed utilizzabilità immediate degli stessi e come manchi del tutto una esigenza di carattere conservativo.

Non resta, allora, che la misura, di carattere residuale ed innominato, di cui all'art. 700 c.p.c., della quale possono ritenersi sussistere i presupposti di ammissibilità, costituiti (secondo costante indirizzo giurisprudenziale) dal fumus boni iuris e dal periculum in mora. Quanto al primo presupposto, è sufficiente riportarci a quanto sopra detto in ordine alla configurabilità di un diritto sostanziale alla consegna in capo al fallimento. Quanto al periculum in mora, plurimi sono gli argomenti portati a sostegno della sua configurabilità, principalmente fondati sulle esigenze di celerità e speditezza della procedura fallimentare e sulla natura pubblicistica dei compiti istituzionali gravanti sul curatore.

Tale concetto merita peraltro un breve chiarimento. Il periculum, infatti, va correlato, a mio parere, direttamente alla tutela dello specifico diritto oggetto dell' azione di merito, così come indicato dalla dizione letterale della norma, ossia, nel caso di specie, al danno che la ritardata disponibilità della documentazione bancaria può cagionare alla procedura. In altre parole, il rischio che il provvedimento cautelare mira a rimuovere deve concretarsi nel pericolo della sopravvenuta inutilità della consegna -tardiva, o quanto meno non immediata- della documentazione. E' stato sostenuto che con riferimento all'azione revocatoria eventualmente instauranda nei confronti della stessa banca l'unico rischio prospettabile sarebbe costituito dal decorso del termine quinquennale di prescrizione, sicché ben difficilmente sarebbe configurabile il pericolo di un danno irreparabile collegato al protrarsi del giudizio di merito (soprattutto a seguito della riforma del codice di rito che ha attribuito efficacia esecutiva alla sentenza di primo grado). Tale affermazione merita di essere criticata sotto un duplice profilo. Da un lato, infatti, l'instaurazione di azione revocatoria delle rimesse in conto corrente non costituisce l'unico scopo cui tende la richiesta di esibizione. A tacere di ogni altro, pur possibile, rilievo, è sufficiente ricordare che il curatore, a norma dell'art. 33 l.fall., è tenuto a presentare entro trenta giorni al giudice delegato "una relazione particolareggiata sulle cause e circostanze del fallimento" ed è di tutta evidenza la rilevanza che può rivestire (e di norma riveste) la documentazione bancaria al fine di ricostruire l'attività aziendale ed in particolare i movimenti di denaro.

Sotto altro profilo e con riferimento specifico all'esercizio dell'azione revocatoria, si osserva che nella stessa relazione ex art. 33 l.fall., il curatore deve indicare gli atti del fallito "che egli intende impugnare": è evidente che, in mancanza della documentazione bancaria, il curatore non sarà in grado di prospettare una tale attività recuperatoria, che pure costituisce uno dei suoi compiti preminenti. Si deve inoltre rilevare che il danno per la procedura non si concreta solo nel rischio di prescrizione dell'azione, bensì nella riduzione della misura del soddisfacimento dei creditori, fine ultimo cui tende la procedura concorsuale. Secondo l'orientamento della giurisprudenza di legittimità che si può ormai considerare consolidato, l'azione revocatoria fallimentare, "in quanto diretta a privare di efficacia, con riguardo alle finalità di ricostituzione della garanzia patrimoniale del debitore, un atto perfettamente valido tra le parti" ha natura costitutiva, con la conseguenza che gli interessi decorrono solo dal giorno della domanda giudiziale. Se si considera poi che, a norma dell'art. 55 l.fall., "la dichiarazione di fallimento sospende il corso degli interessi convenzionali o legali, agli effetti del concorso", è agevole rilevare come la ritardata proposizione dell'azione revocatoria, derivante dalla mancata disponibilità di documentazione che la procedura ha diritto di ottenere in copia, comporti necessariamente un danno alla massa dei creditori, nel senso che essi otterranno la ripartizione di una somma minore (in quanto non comprensiva degli interessi se non dal giorno, ritardato, della domanda) ed in un momento successivo rispetto a quanto sarebbe avvenuto in caso di immediata disponibilità dei documenti bancari.

Non appare poi superfluo sottolineare come l'intero corso della procedura fallimentare appare connotato dal carattere dell'urgenza e della celerità, com'è confermato da una serie di norme specifiche (si pensi, a mero titolo di esempio, all'abbreviazione dei termini processuali), sicché anche sotto tale profilo il ritardo, connesso al compimento dell'iter processuale diretto ad ottenere l'accertamento dell'obbligo della banca, è idoneo a cagionare alla procedura un danno non suscettibile di immediata quantificazione né di ristoro per equivalente.

Non sembra invece di poter condividere il ricorso, di recente attuato, allo strumento del decreto ingiuntivo per consegna e ciò sotto un duplice profilo. Da un lato, infatti, il diritto fatto valere dal curatore ha ad oggetto il rilascio di copia di documentazione comune alle parti e non la consegna di una cosa mobile determinata (come invece prevede il disposto dell'art. 633 c.p.c.); d'altro lato, ben difficilmente il curatore sarà in possesso di idonea prova scritta, posto che di regola l'esigenza di ottenere dall'altro contraente (la banca) i documenti contrattuali nasce proprio dal mancato reperimento (sia esso il risultato di un comportamento doloso del fallito o meno), in tutto od in parte, della documentazione contrattuale e contabile relativa all'impresa fallita. Tale ultima difficoltà (di ordine fattuale e non giuridico) potrebbe ritenersi superata a seguito dell'entrata in vigore della legge bancaria (T.U. n. 385/93), la quale prevede espressamente, all'art. 117, l'obbligatorietà della forma scritta per la redazione dei contratti bancari (tra cui quello di apertura di conto corrente di corrispondenza), nonché, all' art. 119, l'obbligo di invio degli estratti conto e della documentazione inerente a singole operazioni. Dovrebbe ritenersi sufficiente la produzione, da parte del curatore, del contratto di conto corrente per considerare provata la pretesa alla consegna della documentazione. E' ben vero, peraltro, che lo stesso contratto di conto corrente costituisce a sua volta non di rado uno degli oggetti della richiesta di esibizione da parte della curatela alla banca, stante la manchevolezza della documentazione rinvenuta.

Naturalmente l'individuazione di un diritto sostanziale non esclude l'utilizzabilità dello strumento, di natura squisitamente processuale, di cui all'art. 210 c.p.c., ove l'esigenza di conoscere il contenuto di taluni documenti sorga nel corso di un giudizio di merito già instaurato ed avente oggetto diverso dall'accertamento dell'obbligo di messa a disposizione della documentazione bancaria, anche - in ipotesi- nei confronti di un terzo: non è difficile, ad esempio, immaginare che una tale necessità probatoria sia avvertita nell'ambito di un'azione di responsabilità promossa dal curatore nei confronti degli amministratori di società fallita.

A conclusione di queste brevi note, resta solo da auspicare che il recente intervento della Suprema Corte possa por fine ad un proliferare di contenzioso tra le procedure fallimentari e gli Istituti di credito, che negli ultimi anni si è fatto sempre più frequente e virulento. Così, da un lato, sarà opportuno che i curatori trasmettano richieste di informazioni e documentazione il più possibile dettagliate, astenendosi dal pretendere "tutta la documentazione comunque relativa al rapporto intrattenuto dal fallito"; dall'altro che le banche abbandonino l' atteggiamento di resistenza ad oltranza, spesso assunto aprioristicamente.