Contratto in generale

Preparazione e conclusione del contratto

Profilo operativo

 

Premessa

Trattativa e formazione progressiva del contratto

Natura della responsabilità precontrattuale e criteri di quantificazione del danno

Offerta e accettazione

Il contratto preliminare

Rappresentanza e procura

La causa

Causa simulata e causa illecita

L'oggetto

La forma

Interpretazione del negozio

Integrazione del negozio

Contratto a favore di terzi, contratto per persona da nominare, cessione del contratto

Esecuzione del contratto e attuazione del rapporto obbligatorio

La trascrizione del contratto preliminare

 

Premessa

 

Secondo la nozione analitica del contratto si distinguono diversi elementi che lo compongono: l'accordo, la causa, l'oggetto, la forma. I primi tre elementi sono indispensabili, nel senso che la loro mancanza comporta nullità del contratto; quanto alla forma, come già si è rilevato nell'ambito della classificazione dei contratti, essa è necessaria solo se richiesta dalla legge ovvero solo se le parti si sono accordate nel senso di assegnare al loro contratto una forma speciale (c.d. forma convenzionale); in tutti gli altri casi la forma è libera, può essere orale o scritta; l'accordo può concludersi anche mediante il compimento di atti o la successione di fatti dai quali si possa desumere che tra le parti si è posto in essere un vincolo.

Quando si allude alla preparazione, e quindi al procedimento di formazione del contratto, si tiene conto del contratto a base individuale in cui due o più soggetti fanno precedere il loro accordo da una serie di incontri, dallo scambio di informazioni, dalla redazione di appunti, di minute, di documenti che concorrono tutti a definire quanto le parti intendono compiere per assumere reciprocamente un vincolo fondato appunto sul loro accordo. Si assume che le parti operino su di un piano di parità di potere contrattuale e che l'accordo scaturisca da un reciproco giro di concessioni, di scambi di privilegi, di distribuzione di rischi e di costi. Ciò avviene di norma per ogni tipo di operazione: dalla compravendita di un immobile, alla compravendita di merci, al conferimento e all'assunzione di un incarico di appalto, di mandato, e così via. Nei contratti per adesione, per contro, è raro riscontrare una fase preparatoria, in quanto la parte economicamente più forte si presenta con un regolamento già predisposto mediante moduli o formulari che la controparte accetta (o rifiuta) in blocco, la conclusione è rapida e di solito coincide con la sostituzione dei moduli da parte dell'aderente.

Alla fase preparatoria il Codice civile dedica poche norme, contenute essenzialmente negli artt. 1337-1338.

 

Trattativa e formazione progressiva del contratto

 

Spesso le trattative sono molto lunghe, perché l'affare è complesso, perché ha contenuto economico rilevante (si pensi, ad es., al contratto di engineering, con il quale un'impresa si impegna a costruire interi quartieri, porti, stabilimenti industriali).

Anche nel corso delle trattative si possono individuare alcune fasi: da quella dei primi contatti tra le parti, a quella finale, in cui le parti redigono una specie di minuta del contratto, nella quale si indicano i punti più importanti dell'accordo (c.d. puntuazione).

Le trattative, anche nella fase della puntuazione, non vincolano le parti al contenuto dei singoli punti; se le parti intendono vincolarsi, possono subito concludere il contratto sui punti di accordo raggiunti, rinviando ad altra integrazione la conclusione delle parti mancanti. La puntuazione, o "minuta", può quindi avere solo valore documentario, di prova di un contratto già perfezionato quando contenga l'indicazione dei suoi elementi essenziali e sia dimostrato che le parti abbiano inteso vincolarsi definitivamente, e ciò in base anche al comportamento successivo delle parti stesse, inteso a dare esecuzione all'accordo risultante dal documento.

Perciò la trattativa non è una proposta, nè un invito a offrire; e neppure un contratto preliminare con il quale le parti si obbligano a concludere il contratto definitivo, nel futuro. Si discute quindi delle trattative in questa sede solo perché esse precedono, spesso, la formazione del contratto; ma non esistendo ancora il contratto, non si applicano neppure le norme sui contratti in generale.

Il fatto che le trattative non vincolino le parti, non significa che le stesse, nel corso della trattativa, siano libere di comportarsi come credono: il legislatore ha disposto, con norma innovativa, che nel corso delle trattative le parti si debbono comportare secondo buona fede (in senso oggettivo, cioè secondo lealtà e correttezza: art. 1337, Codice civile). Con tale clausola generale si vuol alludere alla circostanza, ad esempio, che una parte crei aspettative e affidamenti obiettivi, legittimi, nell'altra, e poi rompa le trattative, senza una giusta causa; oppure avvii separatamente trattative con più persone, senza averlo comunicato alle diverse parti, e poi scelga l'offerta più vantaggiosa, deludendo l'affidamento di quella parte che, ignara, pensava di concludere il contratto. Ad esempio, se le parti si accordano sulla compravendita di una nave, ma dopo il loro accordo verbale, una di esse, senza giustificato motivo, si rifiuta di concludere il contratto in forma scritta, come è richiesto in questo caso dalla legge, si ha responsabilità (precontrattuale) del recedente.

La libertà della trattativa, in altri termini, deve essere esercitata in modo leale: se si è creato un affidamento giustificato, e si recede senza buon motivo dalla trattativa, si incorre in responsabilità.

In difetto di una articolata disciplina, la giurisprudenza ha creato molte sub-regole con le quali orientare le parti nella fase della trattativa. Si è precisato pertanto in linea generale che la responsabilità precontrattuale, ai sensi dell'art. 1337, può essere ravvisata, nella fase antecedente al procedimento di formazione del contratto (proposta ed accettazione), e, cioè, in quella delle semplici trattative, solo in presenza di contatti fra le parti tali da provocare, per serietà e concludenza, un ragionevole affidamento nel perfezionarsi del negozio, sicché l'ingiustificata interruzione dei medesimi si presenti come comportamento contrario alla buona fede.

La relativa indagine, risolvendosi in un accertamento di fatto riservato al giudice del merito, si sottrae a sindacato in sede di legittimità, ove sorretta da congrua e corretta motivazione.

Perché sia possibile affermare la sussistenza della responsabilità precontrattuale, ex art. 1337, è necessario che concorrano: a) l'affidamento, fondato su elementi obiettivi ed inequivoci, di una delle parti nella conclusione del contratto; b) il recesso dell'altro contraente senza giusta causa, cioè quando sia effetto di mala fede o non sia determinato dal comportamento dell'altra parte; c) il danno risarcibile, consistente nel cosiddetto interesse negativo, che comprende le spese sostenute in previsione della stipula del contratto ed altre similari.

Di fronte alla eterogenea messe di sentenze, la dottrina ha promosso il tentativo di precisare i contenuti della clausola generale di buona fede. Questa clausola si è ritenuta produttiva di una serie di obblighi o doveri che incombono alle parti nella fase preparatoria del contratto: il dovere di non avviare una trattativa in mancanza di una seria volontà di negoziazione; il dovere di non impiegare mezzi scorretti per indurre la controparte a concludere il contratto; il dovere di tener segrete le informazioni acquisite nel corso della trattativa; il dovere - previsto specificamente dal Codice civile - di informare l'altra parte delle eventuali cause di invalidità dell'accordo (art. 1338); il dovere di comunicare la mancanza di legittimazione all'accordo; il dovere relativo all'informazione su circostanze che potrebbero ledere la sicurezza (fisica) della controparte o arrecare danni al suo patrimonio, e così via (Carresi, Il contratto) [1].

La trattativa può essere interrotta per inserimento di un terzo estraneo all'accordo; in tal caso la parte danneggiata dalla mancata conclusione deve rivolgere la sua azione di risarcimento solo nei confronti del terzo.

Le regole che disciplinano la trattativa non possono essere estese alle fasi successive: pertanto se il contratto è stato concluso, queste regole non trovano più ragione di essere applicate. E' opinione corrente in giurisprudenza che la responsabilità derivante dalla violazione della norma dell'art. 1337, che impone alle parti l'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, sia limitata alla fase precontrattuale e sia incentrata sul fatto obiettivo che il contratto non è stato più concluso.

 

Natura della responsabilità precontrattuale e criteri di quantificazione del danno

 

Si discute se tale responsabilità sia di natura contrattuale o di natura extracontrattuale: la discussione rileva nella pratica quanto alla prescrizione, all'onere della prova ecc. La tesi prevalente, fondata sull'argomentazione che non vi è contratto e quindi neppure responsabilità contrattuale, è che la responsabilità è di natura extracontrattuale. Di recente, la suprema Corte ha precisato che la responsabilità precontrattuale (ex artt. 1337 e 1338, Codice civile) rientra nel genus della responsabilità extracontrattuale, con la conseguenza che ad essa è applicabile il termine breve di prescrizione di cui all'art. 2947, Codice civile; detto termine non è interrotto da un atto di costituzione in mora relativo ad azione restitutoria, ontologicamente diversa dal credito risarcitorio da illecito precontrattuale.

Il risarcimento non consiste nell'intero danno risentito dalla controparte (altrimenti i privati non sarebbero liberi di trattare, e potrebbero essere dissuasi dal trattare per timore di incorrere in costi eccessivi di recesso); consiste nel cosiddetto interesse negativo, cioè nelle spese risentite dalla controparte per il recesso ingiustificato e le perdite patrimoniali sofferte, cioè nel lucro che si sarebbe realizzato se si fosse concluso con altre parti il medesimo contratto. Non si riconosce invece il risarcimento dell'interesse positivo, cioè il lucro che si sarebbe ottenuto se il contratto si fosse concluso, in quanto tra le parti non è sorto alcun vincolo contrattuale e non si può equiparare la fase precontrattuale a quella contrattuale.

Da questa ipotesi si differenzia quella disciplinata dall'art. 1338: "la parte che, conoscendo o dovendo conoscere l'esistenza di una causa d'invalidità del contratto non ne ha dato notizia all'altra parte è tenuta a risarcire il danno da questo risentito per avere confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto". Anche in questo caso, occorre che vi sia affidamento incolpevole della controparte; tuttavia la violazione della correttezza non si estrinseca in un comportamento arbitrario (per es. recesso), o sleale, ma si concreta in una ipotesi più grave: la conoscenza di una causa di invalidità del contratto (vendita di cosa che non appartiene al venditore; esistenza di impedimenti a vendere, ad es. perché manca il consenso della moglie; vendita di area non edificabile come se fosse tale, per ottenere un prezzo più alto) che non viene comunicata alla controparte. Anche in questo caso, comunque, il danno è risarcito nei limiti dell'interesse negativo.

Fino ad alcuni anni fa la pubblica Amministrazione che fosse entrata in trattative con il privato non era assoggettata a responsabilità precontrattuale; si sosteneva in giurisprudenza che la pubblica Amministrazione non può non tenere un comportamento leale, perseguendo istituzionalmente il benessere della collettività; e che non può pertanto esser vincolata, nel corso della formazione del contratto. Di recente, invece si è affermata la responsabilità della pubblica Amministrazione quando il privato è deluso nel suo affidamento, in modo ingiustificato. Nulla può pretendere, invece, il privato, se il contratto non si forma perché nel corso del procedimento amministrativo destinato a concludersi con la delibera di accettazione dell'offerta si verificano degli ostacoli che ne impediscono la formazione.

Non può considerarsi concluso un contratto quando le parti, avendo redatto una semplice minuta, si siano riservate di definire alcuni elementi accessori o integrativi in mancanza dei quali l'esecuzione non sarebbe attuabile e sui quali le parti intendano ancora trattare, con ciò mostrando di non aver pienamente raggiunto un accordo. Solo quando sia certo il perfezionamento dell'accordo, il contratto, così concluso, potrà essere integrato, ai sensi dell'art. 1374, Codice civile, mediante la legge, gli usi o l'equità.

Secondo l'orientamento della giurisprudenza si possono quindi distinguere, nell'ambito dell'accordo, aspetti essenziali - che sono qualificanti dell'operazione e nell'ambito dell'economia dell'accordo assumono una rilevanza particolare - dagli aspetti secondari e marginali, sui quali, anche se non vi è coincidenza di vedute e l'accordo non si è formato, non si può fondare la parte per sottrarsi all'impegno ormai assunto. Una volta raggiunto l'accordo sugli elementi essenziali, il vincolo si è formato. Se però le parti si riservano di ritornare sull'intesa, se hanno predisposto un semplice appunto (minuta) che accoglie i singoli punti discussi e approvati, ma restano da chiarire altri aspetti marginali e secondari sui quali esse intendono proseguire la trattativa, l'accordo non può dirsi raggiunto anche se ciò che manca è di natura secondaria.

Nel corso della trattativa, specie nei primi contatti, quando si debbono tracciare le linee dell'intesa nei termini programmatici, le parti possono anche redigere un accordo- quadro; oppure scambiarsi lettere (di intenti) in cui enunciano i programmi, stabiliscono le fasi dell'operazione, sdoppiano le reciproche disponibilità. Questi accordi o questi contatti non comportano ancora la conclusione di un contratto, ma restano confinati nell'area della trattativa.

 

Offerta e accettazione

 

Il consenso si forma con l'incontro di una promessa e di una accettazione; la promessa contrattuale prende il nome di offerta.

L'offerta è un atto unilaterale che crea vincoli a carico del dichiarante anche prima del momento in cui è accettata dalla controparte: la controparte che ne è destinataria, infatti, può appropriarsene, può rifiutarla, può non dare alcun corso all'offerta; l'offerente è vincolato finché l'offerta non sia revocata, o accettata, o rifiutata. Anche l'accettazione è un atto unilaterale; essa deve pervenire all'offerente, perché il contratto si possa considerare formato.

Ma in che momento avviene la formazione del contratto, in che momento si può dire che il contratto è concluso? Le soluzioni possono essere diverse, in astratto. Si può scegliere la soluzione che vincola i contraenti nel momento in cui è semplicemente emessa l'accettazione (teoria della emissione). Si può stabilire che il contratto si concluda nel momento in cui avviene la spedizione dell'accettazione (è questa la regola della conclusione del contratto nel diritto inglese e nord- americano). Si può stabilire che il momento sia quello della ricezione dell'accettazione, cioè il momento in cui l'offerente poteva essere a conoscenza dell'accettazione; infine, il momento in cui l'offerente ha effettivamente conosciuto l'accettazione.

Il legislatore ha scelto una via intermedia tra le ultime due: "il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell'accettazione dell'altra parte" (art. 1326, Codice civile). Si presume comunque che l'offerente abbia conoscenza nel momento in cui la comunicazione è giunta al suo indirizzo (art. 1335). E' però possibile riconoscere efficacia all'accettazione tardiva, che giunge all'offerente oltre il termine da lui indicato, se l'offerente dà notizia immediatamente alla controparte di volerla riconoscere (art. 1326). La proposta deve essere completa con tutti gli elementi essenziali. Ha precisato la Corte di cassazione che: "allorché una parte rivolge all'altra un'offerta precisa e particolareggiata di conclusione di un determinato rapporto contrattuale, completa di tutti gli elementi essenziali, deve ravvisarsi una vera e propria proposta contrattuale e non una semplice dichiarazione generica di disponibilità, cosicché l'altra parte può esprimere la sua accettazione con il semplice consenso, senza bisogno di ulteriori trattative" (Cass. 6741/87;715/88).

Se il proponente stabilisce una determinata forma dell'accettazione, l'accettazione non è valida se non perviene nella forma indicata (ad es. perviene verbalmente, anziché in forma scritta). Indifferente è il mezzo adoperato (telefono, telegrafo, telex, lettera ecc.), anche se l'offerente ne ha previsto uno specifico (v. App. Cagliari 8-3-1986, in Riv. giur. sarda, 1988, pag. 352 con nota di Luminoso; App. Milano 9-1-1987, in Giur. comm., 1988, II, pag. 110; Trib. Napoli 21-5-1986, in Dir. e giur., 1987, pag. 586 con nota di Pappa Monteforte).

Perché il contratto si concluda, occorre ancora che l'accettazione sia conforme alla proposta (A chiede a B se gli interessa l'acquisto di 10.000 polli al prezzo di lire 1.000 l'uno; B risponde: "accetto"). Se invece l'accettazione è difforme dalla proposta (B risponde: compro 5.000 polli, al prezzo di lire 900 l'uno), l'accettazione non vale come tale, ma si trasforma in nuova offerta; spetterà all'offerente originario, ora diventato accettante, rispondere, accettando, o rifiutando; se accetta, il contratto è formato (art. 1326, ultimo comma) quando l'acquirente ha notizia dell'accettazione.

L'accettazione può anche non esprimersi mediante una dichiarazione esplicita ma mediante comportamento concludente: l'accettante inizia a svolgere la prestazione, e da questo suo comportamento inequivoco, che indica chiaramente che ha accolto l'offerta, si inferisce che il contratto si è concluso. In questo caso, se vi è richiesta del proponente, o se la natura dell'affare lo consente, o se così dispongono gli usi, il contratto, senza una preventiva risposta, è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l'esecuzione; l'accettante, però, deve dare avviso all'altra parte non dell'accettazione, ma dell'esecuzione iniziata: in mancanza, è tenuto al risarcimento del danno (art. 1327).

Se l'accettante ha iniziato a svolgere la prestazione prima che l'offerente revocasse la proposta, l'offerente è tenuto a indennizzarlo delle spese e delle perdite subite (art. 1328); l'accettante può revocare l'accettazione; ma la revoca ha effetto solo se giunge al proponente prima dell'accettazione; altrimenti, il contratto è concluso, e la mancata esecuzione da parte dell'accettante che voleva revocare l'accettazione si considera inadempimento (art. 1228, ultimo comma).

 

L'offerente può anche obbligarsi a mantenere ferma la proposta per un certo tempo invitando ad esempio la controparte ad esprimersi in un certo periodo di tempo, senza poter fare offerte ad altri; in tal caso l'offerta non può essere revocata fino allo spirare del termine (proposta irrevocabile: art. 1329). Se la irrevocabilità della proposta per un certo periodo è frutto di una dichiarazione unilaterale dell'offerente si ha appunto proposta irrevocabile; da questa figura si distingue l'opzione (più esattamente: patto d'opzione), con la quale le parti si accordano perché una di esse resti vincolata dalla proposta, finché l'altra non si decida (art. 1331). Una volta fatta la dichiarazione di accettazione, il contratto è concluso.

La proposta o l'accettazione perdono efficacia in caso di morte dell'offerente o, rispettivamente, dell'accettante; ma se la proposta o l'accettazione è fatta dall'imprenditore, l'esigenza della prosecuzione dell'attività d'impresa richiede che esse rimangano ferme; esse non perdono efficacia (e la regola vale anche se l'imprenditore diventi incapace), a meno che si tratti di piccoli imprenditori, o che diversamente risulti dalla natura dell'affare o da altre circostanze (art. 1330). Nel caso di semplice proposta contrattuale, non è applicabile per l'accettazione di essa il termine di prescrizione di dieci anni, ex art. 2946, valendo, invece, i criteri dettati dall'art. 1326, secondo comma, secondo cui l'accettazione deve giungere al proponente nel termine da lui indicato o, altrimenti, in quello ordinariamente necessario secondo la natura del contratto o secondo gli usi.

Quando uno dei soggetti contraenti è una persona giuridica, non è sufficiente che l'organo competente abbia stabilito di accettare la proposta e neppure che tale intento si sia concretato in una formale delibera, perché questa è un atto interno, revocabile ad nutum; è invece necessario che la volontà negoziale così formatasi sia manifestata dall'organo esecutivo, munito del potere di rappresentanza dell'ente, nei confronti dell'altro contraente.

Il contratto può essere aperto ad altre adesioni: se non sono stabilite le modalità dell'adesione, questa deve essere diretta all'organo che sia stato costituito per l'attuazione del contratto, o, in mancanza di esso, a tutti i contraenti originari (art. 1332). Questa possibilità ricorre, spesso, nel diritto societario, per il contratto di società (c.d. contratto aperto).

Queste norme valgono per i contratti bi- o plurilaterali; per i contratti unilaterali, si stabilisce che la proposta diretta a concludere un contratto unilaterale è irrevocabile appena giunge a conoscenza della parte alla quale è destinata (art. 1333). Gli atti unilaterali (ad es. la procura) producono effetti dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati (art. 1334).

Le esigenze dell'economia moderna hanno imposto regole pratiche molto semplici e rapide di conclusione del contratto. Si pensi al self service, dove la conclusione del contratto avviene nel modo più semplice: il cliente si serve da sè, scegliendo il prodotto, e poi si presenta "alla cassa", per pagarne il prezzo; manca una dichiarazione espressa di voler acquistare; tutto avviene tacitamente; quel che rileva è il comportamento, che appare inequivoco: scegliendo il prodotto e presentandosi alla cassa il cliente manifesta l'intenzione di volerlo acquistare.

E' questo uno dei casi nei quali si ha comportamento concludente. La medesima situazione si registra quando il cliente sale sull'autobus per tornare a casa: chi sale sul mezzo, manifesta l'intenzione di avvalersi del mezzo pubblico per il trasporto; risponde così all'offerta al pubblico, costituita dalla circolazione degli autobus, che offrono appunto quel servizio alla collettività.

Anche in altri casi si ha una conclusione rapida del contratto. Ad esempio, quando ci si avvale di un mezzo tecnico come il telefono, il telegrafo, il telex: è anche questo un contratto "tra presenti", come si dice; l'ordinamento non considera distanti e assenti le parti; le considera presenti, per comodità di disciplina e semplicità di rapporto. Anche nell'uso di moduli o formulari, già predisposti, si ha conclusione rapida del contratto: la società di assicurazione esibisce al cliente un modulo per l'assicurazione obbligatoria della sua vettura: il modulo è predisposto dall'impresa; il cliente può solo accettare le "condizioni", cioè le singole clausole, oppure rifiutare la prestazione; di solito, accetta, sottoscrivendo il modulo predisposto. Con la semplice sottoscrizione si ha la formazione del contratto.

Che rilievo ha il silenzio? La regola "chi tace acconsente" non ha alcun significato nell'ordinamento. Chi tace non fa alcun atto che sia giuridicamente rilevante; il cliente cui l'impresa invia tramite posta un libro, senza che l'abbia richiesto, con l'impegno di doverlo acquistare se lo trattenga senza restituirlo per più di una settimana, non è obbligato a rispondere; deve restituire la merce, perché non l'ha acquistata; ma non è obbligato a comperarla, perché non l'ha sollecitata, nè ha approvato con il suo comportamento la clausola predisposta dall'impresa.

Il silenzio è giuridicamente rilevante solo quando la legge così disponga: come avviene per l'accettazione tacita dell'eredità (art. 475, Codice civile): per la proroga di un contratto oltre la scadenza (proroga automatica, nel contratto di locazione di alloggi: art. 3 della legge n. 392 del 1978), e così via.

Vi sono casi invece in cui il silenzio è comportamento omissivo, e rileva dal punto di vista del danno che arreca: se una parte è reticente, l'altra può chiedere l'annullamento del contratto (è il caso dell'assicurazione, con l'assicurato reticente, che ha dolosamente celato alcune circostanze del rischio assicurato: art. 1892); oppure, può chiedere il risarcimento del danno (interesse negativo) se ha taciuto l'esistenza di vizi che inficiavano la validità del contratto (art. 1338, nelle trattative); e può - se riesce a dimostrare la colpa della controparte - ricorrere all'azione generale di risarcimento del danno, se dimostra che il silenzio gli ha arrecato pregiudizio (si pensi al caso di A che fa credito a B, su sollecitazione di C e non riesce a recuperare la somma mutuata perché C gli ha taciuto che B è un debitore insolvente, o prossimo al fallimento, o disonesto).

Una volta concluso il contratto, le parti possono anche tornare sulla propria decisione, e decidere di disfarsene. In questo caso si ha mutuo dissenso; il mutuo dissenso è un vero e proprio contratto il cui contenuto è l'esatto opposto del contratto concluso; è un contratto liberatorio perché cancella i vincoli sorti dal precedente accordo.

Qualche notazione, ora, sulla logica del consensualismo. La formazione del contratto sembra rispondere al principio della "logica" del consenso, cioè della formazione della comune volontà delle parti, o "comune intenzione" (vedi anche art. 1362, primo comma). In realtà, le regole della conclusione del contratto, specie quelle sulla revocabilità dell'offerta e della caducità della proposta nel caso di morte di una delle parti o sopravvenuta incapacità naturale, dimostrano che il sistema attuale è "illogico"; ma questa sua illogicità è dettata da una politica legislativa che ai dogmi della tradizione preferisce regole pratiche e utili negli scambi commerciali, perché la revoca della proposta è efficace prima che all'offerente giunga notizia dell'accettazione, o prima dell'inizio dell'esecuzione da parte dell'oblato (art. 1327). Se valesse il dogma della volontà, si dovrebbe ritenere che la proposta cade quando non è più "voluta" dall'offerente; invece, se vi è una modificazione della sua volontà, essa deve esser espressa in modo esplicito con la revoca; e la regola è ancor più significativa, perché l'art. 1328 dispone che la revoca dell'accettazione non è efficace se perviene all'offerente dopo l'accettazione. Nel comporre il conflitto di interessi tra le parti, il legislatore tutela sia il proponente, sia l'accettante. L'accettante può cambiare volontà e revocare l'accettazione prima che essa pervenga all'offerente; l'offerente non può revocare la revoca.

Con regole pratiche è disciplinata anche l'ipotesi di sopravvenienza di morte o incapacità naturale. Se questi eventi colpiscono il proponente, la proposta cade se non gli è ancora pervenuta l'accettazione o è iniziata l'esecuzione del contratto; la ragione è che la morte o l'incapacità naturale del proponente possono dare luogo a situazioni confuse, ignorando di solito gli eredi quando era stata fatta la proposta; la regola non vale se la proposta è irrevocabile. Medesime regole valgono per la morte o la sopravvenuta incapacità dell'accettante, se l'accettazione era in corso; altrimenti l'offerente può revocare la proposta, se la proposta era revocabile. Quando l'offerta o la proposta sono fondate sulle particolari qualità della controparte, questi eventi ne determinano la caducità.

Anche in questi casi, dunque, si fa applicazione del principio dell'affidamento: il diritto dei contratti è fondato sulla tutela delle aspettative, di buona fede e di affidamento che le parti hanno sui reciproci comportamenti.

Concluso il contratto, se una delle parti muore, subentrano nella posizione di parte i suoi eredi; il contratto infatti fa parte dell'eredità, e gli eredi acquistano tutti i rapporti, attivi e passivi, del de cuius, a meno che il contratto non sia fondato sulle particolari qualità del defunto (ad es. il mandato, che si estingue con la morte del mandante o del mandatario: art. 1722).

Per assicurare lo svolgimento continuativo dell'attività d'impresa, anche in questo caso però si fa eccezione, se il mandato ha per oggetto il compimento di atti relativi all'esercizio dell'impresa.

Alcune regole particolari si possono trarre dagli orientamenti della giurisprudenza:

a) nei contratti conclusi per telefono, luogo della conclusione è quello in cui l'accettazione giunge a conoscenza del proponente ed in cui questi, attraverso il filo telefonico, ha immediata e diretta conoscenza dell'accettazione;

b) la prova dell'avvenuta conclusione è oggetto di apprezzamento da parte del giudice, il quale ben può ritenere che il proponente abbia avuto conoscenza dell'accettazione se la controparte ha conservato la semplice ricevuta di raccomandata postale inviata al proponente per l'accettazione;

c) nei contratti solenni la conclusione tra persone lontane richiede che la dichiarazione di accettazione dell'oblato sia oggettivata in un atto di comunicazione, subordinato agli stessi oneri di forma imposti da legge o convenzioni;

d) può essere sufficiente, infine, la sottoscrizione in una lettera riepilogativa della trattativa in corso per la conclusione del contratto;

e) per accertare se l'accettazione della proposta è tardiva, occorre distinguere se il ritardo è obiettivamente tardivo o se dipenda da colpa dell'accettante;

f) il contratto concluso con la pubblica Amministrazione obbedisce alle regole comuni.

 

Il contratto preliminare

 

Il contratto preliminare è il contratto con il quale le parti si obbligano a stipulare un futuro contratto. Si dice "preliminare" perché prelude ad un contratto "definitivo"; non si deve credere però che il contratto preliminare sia un contratto "solo a metà" (non corrisponde alle trattative), o un contratto in cui si fissano solo alcuni punti, lasciando la determinazione degli altri al definitivo (non corrisponde alla puntuazione). E' un contratto vero e proprio, con effetti solo obbligatori: l'obbligo assunto dalle parti consiste nel dover concludere un altro contratto, con il medesimo oggetto. Il Codice si occupa del contratto preliminare solo per precisare che deve essere fatto nella stessa forma del definitivo (art. 1351, Codice civile).

Nella prassi il contratto preliminare (talvolta denominato compromesso) è molto diffuso. Si ha quando una delle parti non ha l'immediata disponibilità della somma necessaria per la conclusione del definitivo, e non vuol però "lasciarsi sfuggire l'affare", oppure quando vuol compiere controlli che richiedono tempo.

Il contratto preliminare può anche essere unilaterale, impegnando cioè una parte sola; si distingue però dall'opzione (art. 1331) perché nel preliminare occorre una nuova manifestazione di volontà (contratto definitivo), mentre l'opzione opera automaticamente.

Nel caso in cui una delle parti non intenda stipulare il contratto definitivo, l'altra parte può ricorrere alla esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto (art. 2932): si rivolge cioè al giudice, chiedendogli di emettere una sentenza costitutiva che produca gli stessi effetti del contratto non concluso. Ad esempio, se A si è obbligato con preliminare a vendere la casa a B poi cambia idea, e si rifiuta di stipulare il definitivo, B può ricorrere all'esecuzione specifica per ottenere la casa, con una sentenza costitutiva. Per questi motivi, il contratto preliminare deve avere la stessa forma del definitivo; altrimenti gli effetti traslativi non si potrebbero produrre con la sentenza; e deve avere anche tutti gli elementi essenziali del definitivo, perché il giudice non potrebbe determinare per propria iniziativa l'oggetto rimasto indeterminato.

L'esercizio dell'azione è subordinato all'offerta di concludere il definitivo che la parte adempiente rivolge alla convenuta. L'offerta può consistere semplicemente nella lettera di sollecito con cui l'adempiente invita la controparte a presentarsi dinanzi al notaio per la conclusione del definitivo. Non è necessaria la preventiva costituzione in mora e l'offerta può anche esser effettuata in udienza. L'esecuzione specifica non può essere richiesta quando la controparte sia la pubblica Amministrazione, perché il giudice ordinario non può condannare la pubblica Amministrazione a subire gli effetti di un contratto che questa, avvalendosi dei suoi poteri discrezionali, non ha voluto concludere.

Si può concludere un preliminare a favore di terzo; se il promittente non intende poi concludere il definitivo, il terzo può agire in giudizio e chiedere l'esecuzione specifica. Non si ritiene invece possibile un contratto preliminare di una donazione, dal momento che la volontà del donante deve sempre esser libera: nel definitivo, sarebbe coartata dall'impegno assunto nel preliminare.

Il semplice rimettere a un momento successivo la traduzione in un atto pubblico di un contratto stipulato con scrittura privata, con il quale le parti hanno inteso concludere attualmente e definitivamente il trasferimento della proprietà, non vale a trasformare il contratto in un preliminare; si tratta di un contratto definitivo dove l'atto pubblico assolve la funzione di semplice riproduzione degli estremi del negozio di vendita già conclusa.

Con l'art. 3, DL 31-12-1996, n. 669, così come modificato dalla legge di conversione 28-2-1997, n. 30, il legislatore ha previsto la trascrivibilità del preliminare che abbia ad oggetto beni immobili, introducendo, in particolare l'art. 2645 bis Codice civile (v. par. 15).

 

Rappresentanza e procura

 

Non si può pretendere che un soggetto stipuli personalmente tutti i contratti: si pensi ad un commerciante che dovrebbe essere costretto, se esistesse una legge così rigida, a concludere tutte le vendite dei prodotti della propria impresa; l'amministratore di una società di supermarket non è in grado di curare personalmente tutti gli atti di acquisto o di vendita di stocks di merci e tanto meno effettuare le vendite alla clientela. Occorre quindi provvedere affinché altri possa esprimere la volontà dell'imprenditore, dell'amministratore, del singolo privato che non può o non vuole concludere direttamente il negozio. In tal caso si ha rappresentanza, cioè manifestazione della volontà tramite un soggetto, rappresentante, e produzione degli effetti in capo al rappresentato.

Il rappresentante non si limita a esprimere meccanicamente la volontà del rappresentato; la semplice trasmissione della volontà fatta dal portavoce non configura infatti rappresentanza; il portavoce è nuncio. Nella rappresentanza il rappresentante forma la propria volontà previamente accordandosi con il rappresentato, e poi conclude il negozio, manifestando la propria volontà.

Si distingue però il caso in cui il rappresentante conclude il negozio in nome proprio dal caso in cui lo conclude in nome del rappresentato; nel primo caso si ha rappresentanza indiretta o interposizione (tra il terzo e il rappresentato) gestoria; nel secondo caso, rappresentanza diretta, e spendita del nome (del rappresentato).

Non è invece rappresentante, anche se nel linguaggio corrente lo si definisce così, chi fa l'agente di commercio, il commesso viaggiatore; egli è un procacciatore d'affari, che si adopera semplicemente per promuovere contratti con i clienti.

Non tutti gli atti si possono compiere tramite rappresentante: sono esclusi, ad esempio, gli atti nei quali è indispensabile la volontà del singolo (testamento; negozi familiari).

La rappresentanza può essere legale o volontaria: è legale quando è imposta dalla legge (vedi ad es., art. 320, Codice civile; e per altri casi, art. 357, Codice civile; art. 31, legge fallimentare) e la rappresentanza del genitore per il figlio minore; è volontaria quando è conferita volontariamente dall'interessato (art. 1387). Di solito la rappresentanza è conferita nell'interesse del rappresentato, ma vi sono ipotesi in cui la rappresentanza è conferita nell'interesse del rappresentante o nell'interesse di un terzo.

Particolare rilievo ha la rappresentanza nell'impresa, che dà luogo alle figure dell'institore, del procuratore, del commesso (artt. 2203 e segg.).

Gli elementi della rappresentanza diretta sono due: a) il potere rappresentativo, o procura; b) l'agire in nome del rappresentato (c.d. contemplatio domini).

Il potere rappresentativo è costituito dalla facoltà concessa al rappresentante dalla volontà del rappresentato di agire in suo nome; talvolta questo potere nasce dalla legge (per es., rappresentanza legale dei genitori); non si tratta di un vero potere, ma volta a volta di una facoltà, di un obbligo nascente da un patto, di un dovere nascente da una funzione.

L'agire in nome del rappresentato di solito comporta la realizzazione di un interesse del rappresentato ed ha rilevanza nei confronti dei terzi (tutela dell'affidamento).

La rappresentanza non crea un rapporto autonomo tra le parti, ma è uno strumento che rende produttivo di particolari effetti giuridici nei confronti dei terzi il rapporto sottostante (o rapporto di gestione).

La procura è l'atto con il quale si conferisce il potere di rappresentanza; tra rappresentante e rappresentato si forma un rapporto che si definisce interno, in quanto riguarda soltanto loro; mentre il rapporto che si istituisce tra il rappresentante, che contratta all'esterno, e i terzi, si denomina rapporto esterno.

La procura incide appunto sul rapporto esterno: A incarica B di vendere la sua casa a C il rapporto tra B e C è esterno e si basa sulla procura, nel senso che in tanto B ha il potere di vendere la casa di A a C in quanto ne sia stato formalmente incaricato, con procura a vendere, dallo stesso A. Il rapporto tra A e B è invece interno, e può dipendere da vari tipi di vincoli: B potrebbe essere un dipendente di A, un suo mandatario, e così via.

 

I due rapporti sono quindi indipendenti l'uno dall'altro, ma vi sono punti di contatto: se B cessa di essere dipendente di A, si estingue anche la procura che A gli aveva conferito a questo scopo.

La procura può essere generale, se riguarda tutti gli affari del rappresentato; o speciale, se riguarda un singolo affare. Essa è conferita con un atto che deve avere la stessa forma dell'atto che il rappresentante concluderà (art. 1392).

Nella procura il rappresentato può impartire istruzioni al rappresentante, e limitarne i poteri; i terzi che trattano con il rappresentante possono quindi prenderne visione, per non concludere contratti che sono al di là dei poteri del rappresentante, e che non avrebbero pertanto alcun effetto nei confronti del rappresentato (art. 1393).

Per non pregiudicare i terzi che vengono in rapporto con il rappresentante, la legge stabilisce che "le modificazioni e la revoca della procura devono essere portate a conoscenza dei terzi con mezzi idonei" (art. 1396). In mancanza, esse non sono opponibili ai terzi, a meno che il rappresentato non provi che essi le conoscevano al momento della conclusione del contratto.

La procura si estingue per scadenza del termine, per la realizzazione dell'affare per il quale era stata conferita, per estinzione del rapporto interno (morte, interdizione, inabilitazione), per rinuncia del rappresentante, per revoca del rappresentato, per morte del rappresentato, o per sua interdizione o inabilitazione, per il fallimento del rappresentato. In quest' ultimo caso, diviene rappresentante legale del fallito il curatore del fallimento.

La procura può esser sempre revocata dal rappresentato, a meno che non ne avesse pattuito l'irrevocabilità, o fosse stata conferita nell'interesse (o anche nell'interesse) del rappresentante.

Dal momento che la volontà del rappresentante è quella che rileva nel rapporto con i terzi, è alla volontà del rappresentante che si guarda nell'accertare se suoi eventuali vizi incidano sulla validità del negozio; stabilisce appunto l'art. 1390 che "il contratto è annullabile se è viziata la volontà del rappresentante". I vizi della volontà del rappresentato non rilevano, a meno che questi non avesse predeterminato alcuni elementi del negozio che poi sarebbe stato concluso dal rappresentante (il prezzo, per es.).

Per quanto attiene alla capacità d'agire, è sufficiente che ne sia provvisto il rappresentato; il rappresentato può anche avvalersi di un rappresentante che abbia semplice capacità naturale (art. 1389).

Che accade se vi è conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato? Il negozio può essere annullato su domanda del rappresentato: ma in questa ipotesi si deve tutelare anche l'interesse del terzo, che ha contrattato con il rappresentante; l'annullamento avrà luogo pertanto solo se il terzo conosceva, o era in grado di riconoscere il conflitto (art. 1394).

L'ipotesi più rilevante del conflitto di interessi è il contratto con se stesso: A rappresentante di B, anziché vendere a C, vende a se stesso, o vende a se stesso come rappresentante di B. Anche in questo caso il negozio è annullabile, a meno che il rappresentato non abbia autorizzato il rappresentante, o il contenuto del contratto escluda la possibilità del conflitto (come, ad es., acquisto di un prodotto a prezzo determinato da parte della commessa di un grande magazzino). Così dispone l'art. 1395.

Il Codice disciplina soltanto la rappresentanza diretta; nella rappresentanza indiretta il rappresentante agisce in nome proprio, ma per conto di altri (rappresentato). La rappresentanza è qui caratterizzata dal contegno del cooperatore (rappresentante) verso i terzi, e non dal rapporto interno; prevale quindi l'elemento dell'agire per conto altrui (contemplatio domini) piuttosto che l'elemento del potere rappresentativo.

La rappresentanza diretta e quella indiretta hanno un elemento di identità, che consiste nel fatto che l'affare gestito dal rappresentante è un affare di altri (del rappresentato). Ma la differenza è nella spendita del nome: i terzi, nella rappresentanza diretta, concludono con il rappresentato, tramite il rappresentante; nella rappresentanza indiretta, invece, non conoscono il rappresentato, e il rappresentante acquista (o vende) per sè e si obbliga in proprio nei confronti del rappresentato.

A acquista da B con contratto per conto di C ma C non gli aveva dato la procura ad acquistare; che sorte ha il contratto? Non vi è incontro di volontà tra A e B, perché B intendeva vendere a C, tramite A nè vi è tra B e C, perché la manifestazione di volontà è stata compiuta da A il contratto non ha alcun effetto; ma B potrà rivolgersi ad A per chiedere il risarcimento del danno "avendo confidato senza sua colpa nella validità del contratto" (art. 1398). Il rappresentante che opera senza potere, o eccedendo i limiti indicati nella procura, conclude quindi un negozio privo di effetti.

Il rappresentato, in capo al quale gli effetti non si concludono, può però ritenere che il negozio è per lui profittevole; può perciò ratificare il negozio, cioè assumere gli effetti negoziali, con un atto (ratifica) unilaterale, diretto al terzo.

La ratifica ha effetto retraottivo, ma sono salvi i diritti dei terzi (art. 1399, primo e secondo comma). La ratifica può essere sollecitata dal terzo che inviti l'interessato a pronunciarsi entro un termine, scaduto il quale, nel silenzio, la ratifica si intende negata.

Che accade se i terzi contrattano con il rappresentante apparente? Con chi in apparenza sembra rappresentante di altri, perché si ignora che la rappresentanza è cessata per revoca della procura? Nel caso in cui le modificazioni o la revoca della procura non siano portate a conoscenza dei terzi, si tutela il loro affidamento: il terzo non deve essere pregiudicato dal comportamento omissivo del rappresentato; pertanto il negozio concluso avrà effetti nei confronti del rappresentato. Per evitare queste conseguenze, il rappresentato deve dimostrare che i terzi conoscevano le modificazioni, o le hanno ignorate per loro colpa (art. 1396; v. App. Torino 10-1-1986, in Giur. it., 1988, I, 2, pag. 183 con nota di Fossati).

 

Mandato

 

La rappresentanza comporta una interposizione nell'attività altrui; l'interposizione si può ottenere anche mediante un negozio con il quale si demanda ad un soggetto il compito di eseguire atti di rilevanza giuridica per conto del mandante; il negozio si denomina appunto mandato. Il mandato è il contratto con il quale una parte si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto dell'altra (art. 1703, Codice civile). L'attività giuridica può essere compiuta in nome del mandante oppure in nome del mandatario, incaricato di compiere l'atto; se si compie in nome del mandante si ha mandato con rappresentanza (art. 1704); se in nome del mandatario, senza che il mandato compaia, si ha mandato senza rappresentanza. Nel complesso di rapporti cui dà luogo l'interposizione, il mandato regola i rapporti interni, la procura (se vi è rappresentanza) i rapporti esterni.

Nel mandato senza rappresentanza (art. 1705) il mandatario agisce in nome proprio; acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, anche se questi non hanno avuto conoscenza del mandato. I terzi non hanno alcun rapporto col mandante.

Il mandato è un contratto fondato sulla fiducia (o, come si dice, intuitu personae); il mandatario non può farsi sostituire, senza il consenso del mandante (art. 1717); si estingue perciò con la morte, l'interdizione, l'inabilitazione del mandante o del mandatario (art. 1722); è sempre revocabile, tranne che le parti abbiano stipulato l'irrevocabilità (art. 1723); la revoca può essere anche tacita, e avviene con la nomina di un nuovo mandatario per lo stesso affare o con il compimento di questo da parte dello stesso mandante (art. 1724); il mandato si estingue ancora per scadenza del termine, o per il compimento dell'affare, o per rinunzia da parte del mandatario (art. 1722).

Il mandato si presume oneroso (art. 1709), ma può essere gratuito; il mandatario è tenuto a eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia; se il mandato è gratuito, la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore (art. 1710, primo comma).

Sono obblighi del mandatario, oltre all'esecuzione con diligenza del mandato, l'obbligo di informazione, relativo alle circostanze sopravvenute che possono determinare la revoca o la modificazione del mandato (art. 1710, secondo comma); l'obbligo di non eccedere i limiti fissati nel mandato (art. 1711: la conseguenza, in caso contrario, è che l'atto concluso dal mandatario rimane a carico suo, se il mandante non lo ratifica); l'obbligo di comunicazione dell'avvenuta esecuzione del mandato (art. 1712); l'obbligo del rendiconto dell'operato e di consegna di quanto ha ricevuto a causa del mandato (art. 1713); l'obbligo di corrispondere gli interessi sulle somme riscosse per conto del mandante (art. 1714); l'obbligo di custodia delle cose spedite per conto del mandante (art. 1718). Il mandatario non risponde invece dell'inadempimento delle obbligazioni assunte dalle persone con le quali ha contrattato, a meno che fosse a conoscenza della loro insolvenza prima di concludere il contratto (art. 1715). Per parte sua, il mandante è tenuto a somministrare al mandatario i mezzi necessari per l'esecuzione del mandato e per l'adempimento delle obbligazioni che a tal fine il mandatario ha contratte in proprio nome (art. 1719); deve rimborsare al mandatario le anticipazioni, con gli interessi legali e pagare il compenso che gli spetta; deve inoltre risarcire il danno risentito dal mandatario per l'incarico ricevuto (art. 1720).

Nel mandato senza rappresentanza, il mandante può talvolta ingerirsi nell'affare concluso dal mandatario: può esercitare i diritti di credito derivanti dall'esecuzione del mandato, se il mandatario non li riscuote (art. 1705, secondo comma); può rivendicare le cose mobili acquistate per suo conto dal mandatario che ha agito in nome proprio (salvi i diritti acquisiti dai terzi per il possesso in buona fede); in questa ipotesi si ha una eccezione, dal momento che il mandatario aveva acquistato i beni mobili in nome proprio, ma il mandante ne diviene immediatamente proprietario (art. 1706, primo comma). Per gli immobili occorre un doppio trasferimento: il mandatario li acquista dal terzo; e poi li rivende al mandante; se non li ritrasferisce, il mandante può ricorrere all'esecuzione dell'obbligo di contrarre (artt. 1706, secondo comma, 2932).

L'ambito del mandato non deve ritenersi limitato, come precisa l'art. 1708, agli atti per i quali è stato conferito, ma si estende anche a quelli che sono necessari per il loro compimento; ad esempio, il mandato ad acquistare un immobile comporta anche le attività preliminari di accertamento della capacità del venditore, di effettiva titolarità del bene, di assenza di ipoteche ecc.

Il mandato può operare anche dopo la morte del mandante: si ha in questo caso il conferimento di un incarico al mandatario che deve essere eseguito dopo la morte del mandante (c.d. mandato post mortem exequendum). Non si possono però eludere o violare le norme sulla successione legittima e testamentaria.

Non è mandato, ma contratto di agenzia, il contratto con il quale una parte si incarica di promuovere (ma non di concludere) contratti per conto di un'altra (art. 1742); il procacciatore d'affari non ha nè i poteri decisori del mandatario, nè quelli dell'agente, estesi a tutti gli affari che possono apparire utili per l'attività commerciale del preponente. La mediazione è invece un contratto con il quale il mediatore mette in relazione due o più parti per la conclusione dell'affare (art. 1754), guadagnando una provvigione. La commissione, infine, è un vero e proprio mandato che ha per oggetto l'acquisto o la vendita di beni per conto del committente e in nome del commissionario (art. 1731).

 

Gestione di affari altrui

 

Nella pratica è frequente che si assuma la gestione di affari altrui senza esserne stati incaricati: A viene a contatto con B, che vive in stato di bisogno, e gli presta gli alimenti, soccorrendolo in luogo dei parenti obbligati a farlo; C coltiva il campo che D ha lasciato incolto durante la sua emigrazione all'estero, e così via. In queste ipotesi si istituisce una relazione di fatto tra i soggetti cui la legge riconduce effetti giuridici: sorgono obbligazioni non da un contratto, ma da un rapporto di fatto che si avvicina al contratto; l'obbligazione nasce dalla legge.

Così dispone l'art. 2028, Codice civile: "chi, senza esservi obbligato, assume scientemente la gestione di un affare altrui, è tenuto a continuarla e a condurla a termine finché l'interessato non sia in grado di provvedervi da se stesso".

Non si vuol dunque tutelare chi si ingerisce indebitamente in affari altrui, se l'interessato può provvedervi da solo e si prescrive ancora che la gestione sia stata iniziata utilmente: se la gestione dell'affare non presentava alcuna utilità, nulla può chiedere chi dell'affare si è interessato, perdendovi tempo e denaro; l'utilità, comunque, deve esser soltanto iniziale; se l'affare non è andato a buon fine, nonostante la diligenza del gestore, non vi sono sanzioni a suo carico; infine occorre che il gestore intraprenda l'affare con la consapevolezza che agisce in un affare altrui.

Il gestore deve avere la capacità di contrattare (art. 2029).

Dalla gestione d'affari sorgono obbligazioni a carico del gestore e a carico dell'interessato. A carico del gestore, sorgono le medesime obbligazioni del mandatario (art. 2030); il giudice, però, in considerazione delle circostanze che hanno indotto il gestore ad operare la gestione, può limitare il risarcimento dei danni ai quali questi sarebbe tenuto per sua colpa (artt. 1710 e segg., Codice civile).

L'interessato, se la gestione è stata iniziata utilmente, deve adempiere le obbligazioni che il gestore ha assunto in nome di lui, deve tenere indenne il gestore di quelle assunte in nome proprio, e rimborsargli tutte le spese necessarie o utili con gli interessi dal giorno in cui le spese sono state fatte (art. 2031); ma questa regola non si applica se il gestore ha agito contro la volontà dell'interessato, a meno che il divieto sia in contrasto con la legge, l'ordine pubblico, il buon costume (art. 2031). Se la volontà contraria dell'interessato è legittima, il gestore dovrà risarcire il danno da questi risentito; e comunque non si istituirà alcun rapporto dell'interessato con i terzi, nè il gestore potrà chiedere il rimborso delle spese fatte.

L'interessato può anche ratificare l'operato del gestore; la ratifica dell'interessato produce gli effetti che sarebbero derivati da un mandato, anche se la gestione è stata compiuta da persona che credeva di gestire un affare proprio (art. 2032). In attesa che l'interessato ratifichi, che sorte ha il negozio contratto dal gestore? La giurisprudenza ritiene che il negozio non sia nullo ma soltanto privo di effetti: la sua efficacia è sospesa in attesa che l'interessato ratifichi; se l'interessato non ratifica, ma la gestione è iniziata utilmente, l'interessato è obbligato a proseguirla.

 

La causa

 

Oltre all'accordo delle parti, che si forma secondo il procedimento sopra illustrato, elementi essenziali del contratto sono, come si è detto, la causa, l'oggetto e la forma (quando richiesta).

La causa è lo scopo del negozio: A vende a B la sua automobile; lo scopo del contratto di vendita è dato dallo scambio della cosa (auto) con il prezzo (4 milioni); C assume alle proprie dipendenze D: scopo del contratto di lavoro è lo scambio tra l'attività lavorativa di D (autista, fresatore, portinaio, dattilografa, ragioniere ecc.) con la remunerazione (salario, stipendio).

La causa dunque è la funzione economica che adempie il negozio che si conclude: nell'operazione economica della compravendita, la causa è lo scambio; nel testamento, atto unilaterale, la causa è l'attribuzione dei beni dopo la morte del testatore; nella donazione, la causa è l'arricchimento del destinatario, e così via. Si tratta quindi di un elemento che si ritrova in modo costante in tutti i negozi di un particolare tipo, di quella particolare natura e categoria.

Dalla causa occorre distinguere i motivi, che sono le ragioni individuali, o le circostanze obiettive che inducono il soggetto al negozio: A vende la sua auto perché vuole realizzare danaro al fine di acquistare una casa; C fa una donazione a D perché D sta per sposarsi; E si decide ad assumere F perché la sua impresa è in fase di espansione e quindi ha necessità di altra forza-lavoro; a sua volta F cerca lavoro perché, non volendo più profittare della benevolenza dei genitori, ha deciso di lasciare la famiglia e di costruirsi una vita indipendente.

I motivi sono innumerevoli, di diversa natura, spesso quelli di una parte sono diversi da quelli dell'altra parte, e si possono definire come le ragioni ulteriori ed estranee alla causa.

Di regola i motivi sono irrilevanti: non si può far dipendere la realizzazione di un'operazione economica dal fatto che i motivi che hanno spinto una parte a compierla dipendevano da determinate circostanze, che poi non si sono avverate; non si possono eliminare gli effetti di un atto solo perché una delle parti "ha cambiato idea"; non si può andare ad apprezzare le interne motivazioni psicologiche che hanno spinto una parte ad accettare "quel" lavoro, "quella" offerta, "quella" cosa. Ragioni quindi di certezza dei rapporti giuridici, di economicità dei rapporti, di obiettivo di apprezzamento dei rapporti militano contro la rilevanza dei motivi.

La distinzione tra causa e motivo non è però così semplice come potrebbe apparire. Essa infatti varia, a seconda che si consideri il motivo come circostanza obiettiva (e non come ragione psichica interna); ovvero la causa nel senso soggettivo di scopo della manifestazione della volontà.

Vi sono poi atti nei quali è difficile distinguere causa e motivi: ad esempio, se si ritiene che causa della donazione sia la volontà di donare (animus donandi) si può constatare che non è facile, spesso anzi è impossibile, distinguere la volontà di donare dalle motivazioni che hanno spinto il donante a donare. La dottrina tradizionale e la giurisprudenza hanno fatto del principio un vero e proprio dogma e ritengono che l'ordinamento non conferisca al motivo alcun rilievo: farebbero eccezione alcune ipotesi, che, appunto perché di eccezione, sono tassativamente previste dalla legge (per il motivo illecito nel testamento, l'art. 626, Codice civile; nella donazione, l'art. 788; nei contratti, l'art. 1345; per l'errore sul motivo nel testamento, l'art. 624; nella donazione l'art. 787; per l'errore di diritto, l'art. 1429, n. 4; per i "giusti motivi" nel rapporto di lavoro, l'art. 18 dello Statuto lavoratori).

Le parti, consapevoli del principio della irrilevanza dei motivi, possono anche derogarvi eleggendo il motivo a condizione del contratto, o dell'atto; occorre allora che il motivo sia reso rilevante da uno strumento giuridico apposito, come la condizione: ad esempio, A vuole cambiare città, spera in un trasferimento a Roma e acquista un appartamento; non vorrebbe però fare un acquisto inutile, come accadrebbe se il trasferimento non gli fosse concesso; se acquistasse l'appartamento da B, e non si cautelasse, opererebbe il principio della irrilevanza del motivo: non potrà restituire l'appartamento se il trasferimento non gli è concesso: B è indifferente ai trasferimenti di A. Ma A può dedurre in condizione il motivo del trasferimento, cioè subordinare gli effetti del contratto di compravendita all'avvenuto trasferimento: in tal caso, il contratto non produrrà effetti se A non è trasferito; B è tutelato, perché sa che la vendita opera solo in caso di trasferimento; A pure, perché non sarà costretto a tenersi l'appartamento in un'altra città. Ma occorre, come si vede, una condizione; non basta il semplice motivo.

 

Il dogma è però smentito dalle tecniche con le quali si rendono rilevanti i motivi che giustificano l'affare (presupposizione, distribuzione del rischio contrattuale, causa in senso soggettivo).

La causa deve essere lecita e meritevole di tutela. La causa non è lecita quando è contraria a norme imperative (contratto di affitto di fondo rustico che non rispetta le disposizioni delle leggi speciali, e non tutela il coltivatore), all'ordine pubblico (contratto con il quale si impedisce ad un candidato di presentarsi alle elezioni), al buon costume (contratto di meretricio, art. 1343).

La causa deve realizzare una operazione economicamente utile, e quindi non futile; gli interessi perseguiti dalle parti con la conclusione del contratto devono essere meritevoli di tutela (art. 1322, secondo comma).

La causa è un elemento essenziale del negozio; deve quindi esistere sempre perché il negozio possa essere considerato valido. Vi sono tuttavia atti nei quali la causa, pur essendo presente, è (come si dice) stralciata, accantonata, irrilevante; non si tiene conto, cioè, della ragione per la quale l'atto è stato compiuto: nella cambiale, non si tiene conto, di regola, della causa che giustifica il pagamento; A può aver pagato la cambiale perché aveva chiesto a B un mutuo, perché aveva da lui acquistato un frigorifero, e così via. In questi casi, il negozio con causa stralciata si dice astratto.

La causa è, tra gli elementi essenziali, certo la nozione più tormentata della teoria generale del negozio giuridico: sulla nozione di causa infatti si mantiene aperto un dibattito che data dall'introduzione stessa del Codice napoleonico. Le ragioni di queste incertezze sono molto semplici: la causa è la ragione giustificativa dello scambio; quando l'affare non è andato a buon fine, non ha realizzato le aspettative promesse, la parte delusa ritiene di non aver ottenuto quanto si riprometteva, di aver cioè concluso un negozio "senza scopo".

"Causa" è poi concetto polisenso: può esser inteso in senso soggettivo, come motivazione dell'atto di disposizione; può esser inteso in senso oggettivo, come ragione ricorrente in tutti gli atti di quel tipo; può esser inteso come strumento di controllo degli affari privati utilizzato dall'ordinamento per selezionare gli interessi meritevoli di tutela da quelli non meritevoli (in questo senso, la causa acquista un ruolo "sociale"); oppure può esser inteso come fondamento del rischio contrattuale, cioè come ragione oggettiva che giustifica, nell'affare dei privati, l'assunzione del rischio da parte dei contraenti. Le definizioni di causa sono quindi numerose.

Di volta in volta la causa è stata utilizzata per accertare il carattere vincolante della promessa (una promessa senza causa non è giuridicamente valida), la liceità delle prestazioni dedotte in contratto, la selezione degli interessi apprezzabili.

Nel Codice del 1942 si è accolta la nozione di causa intesa come "funzione economico-sociale" del negozio; funzione economica, perché il negozio è inteso come affare che dà profitto alle parti; funzione sociale, perché consente all'ordinamento di esercitare un controllo sugli affari conclusi dai privati: i negozi senza causa, oppure per causa illecita, sono nulli, cioè privi di qualsiasi effetto giuridico (artt. 1321, 1343, 1418, Codice civile).

Ma la teoria della funzione economico-sociale, se da un lato accentua gli aspetti collettivi del controllo, non dà ragione di un altro aspetto importante della causa, l'aspetto privatistico, dal momento che la causa giustifica la conclusione di un affare privato delle parti.

Se si controlla solo la conformità della causa all'interesse collettivo senza indagare sulla sua sufficienza per realizzare lo scambio, sfuggono al controllo tutti gli interessi che sono semplicemente privati (e non pubblici o collettivi). Le previsioni delle parti, le aspettative ecc. che esse si ripromettevano di soddisfare sono rilevanti, e reagiscono sulla causa del negozio. Di qui la teoria che, per includere anche questi interessi privati nella sfera del controllo dell'ordinamento, definisce la causa come funzione economico-individuale del negozio.

La varietà delle teorie sulla causa ne indica la complessità, insieme con la rilevanza: si sono registrate teorie anticausaliste, teorie che intendono la causa in senso soggettivo (e si avvicinano dunque ai motivi, come accade nell'esperienza francese), teorie che distinguono la causa del contratto dalla causa dell'obbligazione e dalla "giustificazione" dell'atto.

Oggi, la giurisprudenza continua ad applicare la teoria della funzione economico-sociale, anche se poi fa ricorso alla presupposizione per temperare questa concezione. La dottrina moderna, invece, ha abbandonato questa teoria e preferisce parlare di causa come fondamento economico del contratto; in questo senso, nella causa rientrano le aspettative che le parti - oggettivamente - potevano nutrire sui risultati dell'affare. Le anomalie di funzionamento della causa sconvolgono l'economia dell'affare e quindi richiedono l'intervento del giudice per riportare l'affare al piano di distribuzione dei rischi, dei vantaggi e degli svantaggi che le parti avevano elaborato.

Se si definisce il motivo come "circostanza oggettiva esterna" che influisce sul piano di ripartizione dei rischi contrattuali e si considerano gli strumenti per adeguare il risultato dell'affare alle aspettative delle parti, si opera una rivalutazione del motivo, e si smentisce, contestualmente, il dogma della sua irrilevanza.

La causa deve esser distinta dal tipo, che è lo schema del negozio, la figura del negozio; il tipo della compravendita di solito si manifesta con lo scambio di una cosa con il prezzo; ma vi sono anche altre norme che completano il tipo, come le garanzie, gli obblighi di consegna, e così via; il tipo è quindi anche la categoria a cui appartiene il negozio (le vendite, i trasporti, le assicurazioni ecc.).

Il tipo può essere legale o sociale: è legale se il negozio è espressamente disciplinato dalla legge (come i contratti tipici, disciplinati nel libro IV, Codice civile); è sociale se in uso nella prassi, ma senza disciplina specifica (contratto di leasing con il quale si dà in uso un bene ad altri, dietro pagamento di un canone, e si conviene che al termine del contratto l'utente può restituire il bene, oppure acquistarlo a prezzo ridotto; contratto di stallatico; contratto di fornitura; contratto di assistenza tecnica). Le parti sono libere di scegliere il tipo legale che vogliono; ovvero di creare tipi nuovi (art. 1322, secondo comma, Codice civile). Il negozio con tipo legale è tipico; senza tipo è atipico o innominato.

 

Causa simulata e causa illecita

 

Si ha simulazione quando vi è divergenza voluta tra la volontà e la dichiarazione. Tale divergenza si ha anche nella riserva mentale (A dice di voler vendere l'appartamento mentre dentro di sè pensa il contrario): ma la riserva, rimanendo interna, non essendo esplicitata, nè manifestandosi in altro modo, non ha alcuna rilevanza.

Nella simulazione, invece, la divergenza si manifesta perché si tratta di un vero e proprio accordo tra le parti, o tra le parti e un terzo, inteso a far apparire ciò che non è. Il contratto con il quale le parti creano la finzione si dice accordo o contratto simulato; l'accordo con il quale si esprime invece la volontà reale ed effettiva si dice controdichiarazione: si dice contratto dissimulato quello che le parti hanno voluto effettivamente concludere.

La simulazione si distingue in assoluta e relativa: è assoluta quando le parti dichiarano di voler concludere un determinato negozio, ma in realtà non vogliono concludere nulla; è relativa, quando le parti simulano di concludere un negozio, ma in realtà ne concludono uno diverso (simulazione sulla natura del contratto: A e B creano le apparenze di un contratto di vendita, mentre si tratta di una donazione), oppure quando le parti simulano di concludere tra di loro, mentre in realtà una di esse conclude il negozio con un terzo (A finge di concludere con B, e stipula il contratto simulato; poi conclude effettivamente con C, e contrae l'accordo dissimulato; B è il titolare apparente del bene; C il titolare effettivo; ipotesi di simulazione sul soggetto); infine, vi è la simulazione sull'oggetto (per es. sul prezzo: A e B dichiarano che la cosa costa 10 milioni, mentre in effetti A ha pagato 50 milioni per avere l'appartamento).

La simulazione, di per sè, non è un negozio illecito; non sempre si conclude un accordo simulatorio per compiere un danno a terzi, o per violare la legge; ad esempio A può voler donare ad una persona un oggetto, ma, sapendo che in famiglia quella persona non è gradita, finge di venderglielo. Il negozio è lecito. Nella più parte dei casi, però, la simulazione si fa in frode alla legge, come per esempio per sottrarsi alle norme fiscali (simulazione del prezzo; simulazione sulla natura del contratto), oppure per sottrarre beni ai creditori.

Quando si ha simulazione sul soggetto, si crea una ipotesi di interposizione fittizia (A vende simulatamente a B, mentre, d'accordo con B, vende realmente a C); l'interposizione fittizia diverge quindi dalla interposizione gestoria, che si ha nella rappresentanza indiretta e nel mandato, e dalla interposizione reale, che si ha nel negozio fiduciario.

Si discute sulla natura della causa del negozio simulato (causa simulandi). La causa del negozio simulato è la finalità o scopo pratico che le parti vogliono attuare mediante la simulazione; essa può consistere nella frode alla legge, nella frode ai creditori, nella mera ostentazione. E' un importante elemento di convincimento per l'esistenza della simulazione, ma non è indispensabile provarla per dichiarare la simulazione.

Il motivo concreto con cui le parti si inducono a creare ciò che non vogliono, o a dare vita ad una mera apparenza, costituisce un elemento che resta al di fuori della simulazione, non è essenziale.

Fra gli effetti della simulazione occorre distinguere quelli tra le parti e quelli verso i terzi.

Il negozio simulato non produce effetti tra le parti (art. 1414, Codice civile); il negozio dissimulato ha effetto, purché abbia i requisiti di sostanza e di forma stabiliti dalla legge (art. 1414, secondo comma). Nel caso della vendita simulata, che cela una donazione, la donazione avrà effetto se avviene gratuitamente, e se è redatta con atto pubblico. La controdichiarazione, invece, nella simulazione assoluta può esser fatta con qualsiasi forma.

Il legislatore non ha scelto la via di far valere sempre la realtà sull'apparenza, altrimenti sarebbero pregiudicati i terzi che confidavano nell'apparenza delle cose; la disciplina della simulazione nei confronti dei terzi è però piuttosto complessa: si deve infatti tutelare l'affidamento del terzo; vi sono poi diverse categorie di terzi, e non tutti sono protetti allo stesso modo. Il regime compone in un attento compromesso gli interessi dei terzi.

Nell'espressione terzo occorre intendere qualsiasi persona che sia estranea al negozio; vi sono poi i terzi danti causa, che sono coloro che hanno con il loro titolo trasmesso la proprietà o altro diritto alle parti simulanti; i terzi aventi causa, che hanno acquistato un diritto dai contraenti simulanti; infine i terzi che sono creditori: creditori della parte che aliena (creditori del simulato alienante), e creditori della parte che acquista il diritto (creditori del simulato acquirente).

Il negozio simulato produce effetti nei confronti dei terzi che in buona fede hanno acquistato diritti dal titolare apparente (simulato acquirente) (art. 1415). I terzi acquirenti, in altre parole, prevalgono sugli altri terzi, solo se hanno acquistato senza sapere che l'atto con il quale il loro venditore aveva ottenuto il diritto a loro alienato era un atto simulato; se lo sapevano (erano cioè in mala fede) non vi è ragione di proteggerli.

I terzi, in generale, (e non solo gli acquirenti, gli aventi causa, i danti causa, i creditori) possono far valere la simulazione, cioè far dichiarare la simulazione quando essa pregiudica i loro diritti. E' il caso, ad esempio, del curatore fallimentare, che può far dichiarare la simulazione del negozio con il quale il fallito aveva alienato beni a terzi.

Tra terzi che hanno acquistato dal titolare apparente (simulato acquirente) e terzi che hanno acquistato dal titolare effettivo (simulato alienante), la legge preferisce coloro che hanno confidato in buona fede nella validità dell'acquisto (terzi aventi causa dal simulato acquirente: art. 1415, primo comma). Per quanto riguarda i creditori, occorre distinguere se essi sono muniti di pegno o ipoteca (sono quindi creditori privilegiati, non chirografari) o se invece ne sono privi (creditori chirografari); inoltre se erano in buona fede o in mala fede; se avevano iniziato atti esecutivi (espropriazione) sui beni oggetto del contratto simulato.

I creditori del simulato acquirente possono far prevalere il loro credito, contro le parti, se erano in buona fede, e hanno compiuto atti di esecuzione sui beni che furono oggetto del negozio simulato (art. 1416, primo comma); se non erano in buona fede, cioè se sapevano che il negozio era simulato, non potevano confidare sull'esistenza dei beni nel patrimonio del loro debitore (il simulato acquirente) e quindi, non vi è tutela dell'affidamento; inoltre, se non avevano compiuto atti di esecuzione, il loro affidamento era troppo generico, e non si poteva tutelarlo.

Anche i creditori del simulato alienante possono far valere la simulazione nei confronti delle parti: loro interesse è far prevalere la realtà sull'apparenza. Se vi sono insieme creditori del simulato alienante e creditori del simulato acquirente come risolvere il conflitto d'interessi? La regola è che prevalgono i creditori del simulato alienante solo se il loro credito era anteriore all'atto simulato.

Particolare importanza ha la prova nella simulazione. Come possono provare i terzi, i creditori, che il negozio è simulato? La prova principe è costituita dalla controdichiarazione, cioè dal documento con cui le parti hanno dichiarato la loro volontà effettiva. Ma non sempre i terzi o i creditori sono in grado di procurarsela, essendo essa gelosamente custodita dalle parti; pertanto, il Codice ammette che i terzi possano provare la simulazione senza limiti, quindi anche tramite testimoni. Per le parti, invece, la situazione è diversa: le parti debbono provarla con la controdichiarazione; vi è solo una eccezione, relativa al caso in cui il negozio simulato sia illecito; in tale ipotesi, l'esigenza di far prelevare la liceità sulla illiceità, comporta che le parti possano avvalersi di un qualsiasi mezzo (e quindi anche di testimoni) per far dichiarare la simulazione.

Particolare disciplina ha la simulazione delle convenzioni matrimoniali (art. 164, Codice civile). E' consentita ai terzi la prova della loro simulazione; le controdichiarazioni scritte possono avere effetto nei confronti di coloro tra i quali sono intervenute, solo se fatte con la presenza ed il simultaneo consenso di tutte le persone che sono state parti nelle convenzioni matrimoniali.

Altrettanto singolare è la disciplina della simulazione del matrimonio. Il matrimonio può essere impugnato da ciascuno dei coniugi quando gli sposi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti da esso discendenti. L'azione non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matrimonio, ovvero nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima (art. 123).

La simulazione può ricorrere, oltre che nei negozi giuridici bilaterali, anche nei negozi giuridici unilaterali recettizi. Non può ricorrere, invece, per le dichiarazioni destinate al pubblico o a persona incerta.

Si discute se vi possa essere simulazione del testamento. La simulazione assoluta non è ipotizzabile, perché il testatore non ha alcun interesse a operare, nella scheda testamentaria, una disposizione che non corrisponde alla sua effettiva volontà. La simulazione relativa è ipotizzabile solo nei casi di interposizione di persona intesa a beneficare gli incapaci; in questa ipotesi, però, è la volontà reale che deve prevalere (artt. 599 e 627; v. anche la disposizione fiduciaria). La riserva mentale, infine, non ha alcun rilievo, perché quel che conta è la volontà esplicitata nella scheda testamentaria.

Vi sono negozi in cui la causa funziona in modo anomalo, o perché è contraria all'interesse pubblico, o perché dà ingresso a motivi fondati sulla fiducia, o perché produce effetti ulteriori rispetto a quelli che erano voluti dalle parti.

Il negozio è illecito quando è contrario a norme imperative, all'ordine pubblico, al buon costume; quando la causa è illecita; quando è illecito il motivo (determinante e comune alle parti); quando è illecita la condizione, o l'oggetto. L'illiceità comporta la nullità del negozio.

Il controllo sulla liceità della causa riguarda sia i negozi tipici, nei quali la causa può essere illecita perché le parti hanno perseguito uno scopo contrario a norme imperative, all'ordine pubblico, al buon costume; sia i negozi atipici (come il leasing), nei quali le parti hanno liberamente creato il modello negoziale di riferimento. La liceità della causa, comunque, si presume: spetta a chi agisce in giudizio dimostrarne l'illiceità.

Si ritiene illecita la causa quando il negozio costituisce il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa (art. 1344). E' questa l'ipotesi di negozio in frode alla legge; di solito le parti usano un negozio per realizzare uno scopo illecito, che non avrebbero potuto realizzare se avessero impiegato il negozio che direttamente produceva lo scopo. Il negozio in frode alla legge è quindi un negozio indiretto (ma non è vero il contrario: non tutti i negozi indiretti sono in frode alla legge). Ad esempio, prima che la norma sul divieto di donazione tra coniugi fosse abrogata (art. 781) il marito che intendesse donare alla moglie, poteva renderla mandataria senza obbligo di rendiconto: si otteneva il medesimo scopo, ma si realizzava una elusione del divieto; si badi che le norme eluse debbono essere norme imperative, non derogabili dalle parti; altrimenti si ha piena validità del negozio. Allo stesso modo, occorre considerare lo scopo della norma violata: il negozio con cui si elude una norma fiscale non è nullo, perché la frode fiscale costituisce un illecito che trova nel sistema tributario le sue sanzioni.

Il negozio in frode alla legge è nullo.

Dal negozio in frode alla legge si deve distinguere il negozio in frode ai creditori: è il caso di A che, temendo che i suoi creditori si soddisfino su un immobile lo vende a B, perché è più facile occultare ai creditori la somma ottenuta quale prezzo dell'immobile; i creditori possono esperire l'azione revocatoria ordinaria (art. 2901); la conseguenza è che l'atto concluso tra A e B è pienamente valido, ma inefficace parzialmente; inefficace cioè solo nei confronti dei creditori istanti.

 

 

Qualificazione del contratto atipico

 

Il tema della atipicità dei contratti è ormai divenuto ricorrente nelle analisi della dottrina. Ad una fase di sostanziale disinteresse immediatamente successiva alla codificazione si sono susseguite la fase della ricostruzione dogmatica (tra i numerosi contributi la giurisprudenza richiama, implicitamente, quelli di Rodolfo Sacco, Giovanni B. Ferri, Mario Bessone e di Giorgio De Nova) e la fase di ripensamento critico (Maria Costanza, e i vari autori comparenti negli atti di convegni); ripensamento che molti autori hanno proposto anche discutendo la qualificazione di singole operazioni atipiche.

Indagando con acutezza il clima culturale in cui si è radicata oggi la discussione, si è osservato che sono egualmente da criticare sia l'atteggiamento aprioristicamente permissivo che legittima, in nome della libertà, qualsiasi veste giuridica scelta dai privati per realizzare le loro operazioni economiche, sia quello opposto che enfatizza il controllo pubblicistico del contratto; così come si sarebbe spezzato il nesso fra atipicità e standardizzazione, quest' ultima essendo solo una modalità di formazione del contratto (così Breccia, Le nozioni di tipico e atipico: spunti critici e ricostruttivi). Si è segnalata la scarsa rispondenza della giurisprudenza all'invito rivoltole ad operare un impiego più frequente e determinato delle clausole generali; così come si è messa in luce la tendenza delle parti alla sottrazione al tipo con fini di elusione dell'imposizione tributaria (Breccia, Le nozioni ...); si è rilevata la singolare tolleranza del giudice civile rispetto alla più circospetta e attenta soluzione del giudice penale (Galgano, Civile e penale nella produzione di giustizia), e rispetto alle prassi bancarie e alla vicenda della legittimità della cosiddetta fideiussione omnibus (da ultimo, Salanitro, Le banche e i contratti bancari).

Si è poi contestata l'operazione interpretativa dei negozi atipici compiuta dalla giurisprudenza sulla base della nozione di causa, di prestazione dovuta, di schemi misti combinati con i tipi legali. Si è detto che queste operazioni sono superflue nel momento in cui si dovesse ritenere che le definizioni legali dei tipi contrattuali speciali sono prive di contenuto normativo, rendendosi così immediatamente applicabili le regole destinate a disciplinarne gli effetti, regole comunque applicabili "in quanto compatibili, a qualsiasi ipotesi di negozio atipico, cioè a qualsiasi ipotesi di affare, anche se non corrispondente ad una delle definizioni che ne dà il legislatore" (Majello, I problemi di legittimità e disciplina dei negozi atipici).

In termini concisi, dunque, le parti sono libere di concludere contratti non previsti nei tipi legali; e in ciò sta il nucleo della loro libertà negoziale; ma essendo il contratto, una volta concluso, destinato a porre in essere un regolamento, il legislatore autorizza, o comunque legittima il giudice a compiere il controllo di meritevolezza, validità e congruità del rapporto, incasellandolo come meglio crede nei tipi esistenti e apprezzando il contenuto delle singole clausole.

Più precisamente si è rilevato che "la qualificazione di un negozio come atipico ha mera rilevanza descrittiva ed è quindi priva di significato normativo" (Majello, I problemi ...); in conclusione l'atipicità "come fenomeno di rilevanza giuridica, riguarda (...) le singole norme e non i rapporti"; ed è ormai opinione diffusa che "gli operatori economici molto spesso ricorrono alla costituzione di rapporti atipici molto complessi allo scopo di innalzare una sorta di cortina fumogena rispetto alle norme negoziali in deroga a norme imperative e ai principi generali: ciò che avviene, normalmente, in materia di leasing finanziario" (Majello, I problemi ...).

Profili dogmatici e segni provenienti dalla prassi negoziale tendono dunque a convergere o a divaricare? La questione si può porre in questi termini generali: quanto ormai venti anni fa si era riscontrato nella prassi giudiziale e Rodolfo Sacco aveva accuratamente messo in luce - sintomo di mentalità dei giudici e delle tecniche del loro ragionamento giuridico - e cioè essere i contratti atipici assenti dalle aule giudiziarie, perché ricondotti sempre ai tipi legali (opinione ribadita anche di recente da De Nova, Il tipo contrattuale) è ancora oggi vero, o è invece contraddetto dalla nuova prassi che si è instaurata con la giurisprudenza di legittimità sul leasing? Alla questione, che diventa ormai centrale, occorre dare una risposta plausibile.

Alcuni autori hanno ritenuto che non si può insistere su un unico tipo legale, nè usare lo strumento della causa per compiere l'operazione di ascrizione al tipo (De Nova, Il tipo ...); si è poi precisato che il metodo della "sussunzione" è operazione meccanica ed eversiva; che occorre individuare il tipo tenendo conto dei "dati caratteristici in funzione di un quadro complessivo" (De Nova, Il tipo ...) e quindi senza aver riguardo alle definizioni legali dei tipi.

Di qui l'invito all'uso del metodo tipologico che opera secondo la tecnica combinatoria (De Nova, Il tipo ...), invito raccolto dalla dottrina per alcuni nuovi contratti. Invito raccolto anche nel considerare determinante il controllo del giudice anche quando l'operazione è standardizzata e i formulari sono completi e dettagliati.

Il metodo tipologico appare a qualcuno il "più oneroso e rigoroso" anche se il più complicato (Costanza, Il contratto atipico); è un metodo che offre la possibilità di individuare, assumendo in via diretta norme da più fattispecie, la disciplina più adatta alla fattispecie concreta; analoghi risultati si possono ottenere seguendo le tecniche semplificanti usate dalla giurisprudenza; anche il metodo tipologico non offrirebbe uniformità di reazione e quindi certezze, per cui sarebbe rimesso alla pur sempre discrezionale analisi selettiva degli elementi individuanti l'operazione economica da qualificare. E sempre sul metodo tipologico si è osservato che occorre interrogarsi su questo punto: "se sia legittimo procedere ad una indifferenziata lettura in chiave tipologica della normativa dedicata dal Codice civile ai contratti speciali, o se invece non sia più corretto distinguere tra modelli contrattuali la cui struttura normativa è tuttora saldamente legata al concetto e modelli contrattuali che, per la natura non concettuale della loro disciplina, sono agevolmente riconducibili al tipo" (Busnelli, Contratti "di serie" atipici e loro qualificazione: osservazioni sparse).

A questo punto si è attestata la discussione in dottrina.

La giurisprudenza è invece andata oltre, ed ha dimostrato con sentenze clamorose, perché innovative o dirette ad invertire orientamenti consolidati e radicati, di voler abbandonare le vecchie vie semplificatorie e unidirezionali, per accogliere almeno uno dei consigli suggeriti dalla dottrina, quello rivolto a scardinare il metodo della sussunzione o il metodo della prevalenza o il metodo della commistione, per rinviare però tutta l'operazione alla volontà dei contraenti, rimettendo ad essi un potere immenso ed abdicando al proprio ruolo di controllo.

E' una regia che - pur apparendo priva di coordinamento e quindi di una logica intenzionale e generalizzante, perché espressa da singole sentenze riferite a singole operazioni - investe direttamente l'area dei negozi atipici e si presta ad una valutazione omnicomprensiva, una valutazione critica carica di perplessità proprio perché i rischi cui ci si espone appaiono ignorati, sottovalutati o apprezzati in modo riduttivo.

In altri termini, si registra un orientamento diretto alla sottrazione delle nuove tecniche di qualificazione delle operazioni economiche al tipo legale, legittimandosi così gli intenti empirici dei contratti (o del contraente più forte) che sopravanzano l'immediata valutazione degli interessi in gioco.

La sottrazione al tipo obbedisce, anche senza proporre una descrizione dei fatti diretta ad imputare intenti eversivi a chi se ne fa propulsore, in sede giurisprudenziale o dottrinale, a scopi ben precisi:

a) esclusione del procedimento analitico di compatibilità con un tipo legale in cui - bene o male - il legislatore ha ricomposto il conflitto di interessi fra le parti in gioco;

b) esclusione del procedimento logico di individuazione di un equilibrio interno all'operazione;

c) esclusione dell'applicabilità di norme, dettate da leggi speciali per un determinato tipo a operazioni economiche ad esso non ascrivibili, a fini di elusione, di speditezza dei traffici, di considerazione complessiva delle circostanze;

d) esclusione del procedimento di controllo delle singole clausole;

e) rimessione alla "libera" volontà contrattuale di ogni soluzione conflittuale delle clausole;

f) esclusione dell'intervento legislativo tipizzante perché rischioso o lesivo dell'autonomia contrattuale;

g) esclusione dell'opera di supplenza del magistrato nella riduzione delle lacune dell'ordinamento.

Ne discendono conseguenze pratiche importanti nei rapporti derivanti dall'applicazione della normativa tributaria, della normativa fallimentare, della normativa speciale che impongono oneri, divieti e sanzioni.

Soltanto per fare alcuni esempi si pensi al contratto di cooperazione economica, al contratto di utilizzazione del computer, leasing, factoring, multiproprietà, contratti di servizi, garanzie atipiche, contratti di finanziamento e mutuo di scopo, engineering e patti (o contratti) parasociali, noleggio, joint venture, revisione contabile, contratti bancari e così via.

 

L'oggetto

 

L'oggetto del contratto (artt. 1346-1349) è la porzione del mondo esterno alla quale le parti si riferiscono per realizzare la loro operazione economica: nella compravendita l'oggetto è contenuto nella cosa venduta dall'alienante e dal prezzo versato dall'acquirente; nella permuta, le cose scambiate; nel trasporto, la cosa trasportata e la tariffa pagata per il servizio; nell'appalto, i lavori richiesti e il prezzo pagato, e così via.

Vi sono contratti in cui non è possibile, per la loro natura, individuare una porzione del mondo esterno; l'oggetto in tal caso si confonde con il contenuto dell'accordo: nel mandato, l'oggetto - cioè il contenuto - è costituito dall'incarico conferito al mandatario e dalla retribuzione a questo versata in cambio dell'attività prestata. L'oggetto, quale elemento essenziale della vendita, è tanto quello diretto, costituito dal diritto che viene trasferito, quanto quello mediato, costituito dalla cosa su cui cade tale diritto, sicché, ai fini del requisito della determinatezza o determinabilità dell'oggetto, occorre l'indicazione precisa, sia del diritto, sia della cosa, o dei criteri di identificazione della stessa; ne consegue che nel caso di vendita o promessa di vendita di beni immobili, per le quali è richiesta la forma scritta ad substantiam dagli artt. 1350, n. 1, e 1351, Codice civile, anche le modifiche relative all'identità del bene, concordate tra le parti successivamente alla stipulazione del contratto, preliminare o definitivo, devono avvenire in forma scritta.

L'oggetto deve essere possibile, lecito, determinato o almeno determinabile. In mancanza, il contratto è nullo.

Quanto al profilo della illiceità si è precisato che in materia di contratto di compravendita con oggetto illecito, se è vero che l'illiceità deve essere accertata con riferimento al dato oggettivo dell'esistenza di una norma imperativa e di un contrasto con questa, l'illiceità medesima, tuttavia, produce effetti diversi sulla validità del contratto a seconda del rilievo da essa assunto nei riguardi della volontà dei contraenti. Ed, invero, se costoro hanno posto scientemente in essere la pattuizione avente oggetto illecito, il contratto è affetto da nullità; se, invece, l'illiceità è ignorata dalle parti, siffatta ignoranza si riflette sull'intento negoziale quale vizio del consenso ed importa l'annullabilità del contratto per errore.

Quanto alla determinatezza, si è precisato che il requisito della determinatezza del bene, necessario perché un contratto di vendita abbia effetto traslativo immediato, sussiste sempre che il contratto stesso contenga gli elementi per identificare un bene di specie esistente in natura, anche se, per l'individuazione finale di esso, sia prevista l'utilizzazione di strumenti esterni all'atto. Nel caso che ha dato luogo a questa massima, è stata ritenuta esatta la statuizione con cui la Corte di merito aveva attribuito effetto traslativo immediato alla vendita dell'usufrutto su tutti i beni, genericamente indicati, caduti in una determinata successione. In mancanza di una norma di legge che stabilisca in che modo deve essere identificato o reso identificabile l'oggetto del contratto, ogni mezzo, ferma restando l'esigenza di requisiti formali, è a ciò idoneo, purché sia atto a realizzare un risultato che non lasci possibilità di equivoci, e non è escluso che l'identificazione possa avvenire mediante elementi acquisiti aliunde, con riferimento ad altri atti e documenti collegati a quello oggetto di valutazione, ovvero con i criteri che il contratto stesso e la pratica delle cose possono suggerire. Ad esempio, è nullo, per indeterminabilità dell'oggetto, il contratto preliminare di vendita relativo ad un appartamento facente parte di un determinato edificio a più piani in corso di costruzione, qualora le parti (pur specificandone la superficie e la composizione) non abbiano indicato il piano e si siano limitate a rimettere al promittente alienante la scelta del piano e quindi del concreto appartamento promesso in vendita. Ancora, è nullo per indeterminatezza dell'oggetto il contratto preliminare nel quale non siano indicati nè i dati catastali, nè i confini dell'appartamento promesso in vendita, nè il numero civico dell'edificio del quale l'appartamento fa parte.

Le parti possono rimettere ad un terzo la determinazione dell'oggetto, oppure riferirsi a tariffe, prezziari e altri indizi oggettivi esterni; se la determinazione del terzo non è effettuata o è iniqua, il giudice può determinare direttamente l'oggetto del contratto.

Si è discussa la validità della cosiddetta fideiussione omnibus; la giurisprudenza prevalente è nel senso della sua validità, ma non mancano sentenze che vanno in senso contrario.

 

La forma

 

Della forma si è trattato, a proposito della classificazione dei contratti (cfr. "Classificazione dei contratti" Profilo operativo, paragrafo 7).

La forma è il modo nel quale deve essere redatto il negozio, o manifestata all'esterno la volontà negoziale. Di solito la forma è libera: nel nostro ordinamento (a differenza che in altri, come l'antico diritto romano quiritario) vige il principio delle libertà delle forme. Talvolta però può essere prescritta l'utilizzazione di una forma determinata il cui rispetto condiziona in alcuni casi la validità del negozio, mentre in altri ne condiziona la prova in giudizio. Si dice perciò che la forma può essere chiesta per la validità (ad substantiam) o per la prova (ad probationem).

Quando la legge prescrive una determinata forma (forma legale) o le parti ne scelgono una di comune accordo (forma convenzionale) essa diviene elemento essenziale del negozio: se il negozio non è concluso nella forma prescritta, è nullo, mancando uno dei suoi elementi essenziali.

La forma può essere legale o convenzionale; è legale, quando è prevista dalla legge, in alcune ipotesi tassative; convenzionale quando è disposta dalle parti.

Devono farsi per atto pubblico o per scrittura privata i contratti che trasferiscono la proprietà dei beni immobili; i contratti che costituiscono, modificano o trasferiscono i diritti reali sui beni; gli atti di rinunzia ai diritti reali minori; il contratto di anticresi (art. 1960, Codice civile), con il quale il debitore si obbliga a consegnare, ma non a trasferire, al creditore un immobile in modo che questi si soddisfi sui frutti; i contratti di locazione ultranovennali; i contratti di società o di associazione con cui si conferisce il godimento di beni immobili o di altri diritti immobiliari per un tempo superiore ai 9 anni, o per un periodo indeterminato; le rendite perpetue e i vitalizi; gli atti di divisione; le transazioni e gli altri atti che la legge richiede per iscritto. In questi casi, se manca la forma richiesta il contratto manca di un elemento essenziale, e quindi è nullo (forma richiesta ad substantiam). Quanto alla forma convenzionale, se le parti non hanno diversamente stabilito, la forma che esse avevano di comune accordo predisposto si presume essere richiesta a pena di nullità dell'atto. Se è richiesta la forma scritta a pena di nullità per la redazione di un contratto anche le sue modificazioni debbono essere effettuate in forma scritta.

La forma può invece incidere solo sulla prova (ad es. dell'avvenuto pagamento di un debito); il giudice, tenuto conto delle circostanze, può consentire che sia data la prova in giudizio anche per testimoni (art. 2726), ma la regola è quella della prova scritta (costituita nel caso in esame dalla ricevuta per quietanza, o da altra dichiarazione liberatoria del debitore). La forma scritta nell'ipotesi è richiesta per la prova (ad probationem): non incide quindi sull'esistenza dell'atto e dei suoi effetti, ma rende più difficile la tutela in giudizio. In altri ordinamenti giuridici (per es. in Gran Bretagna), priva dell'azione il titolare del diritto. L'art. 1350, Codice civile stabilisce l'obbligo della forma scritta per la conclusione o la modifica dei contratti relativi a diritti reali immobiliari, ma nè esso, nè altra disposizione di legge prevedono analogo requisito di forma per ogni comunicazione o intimazione riguardante l'esecuzione di detti contratti; pertanto, è pienamente valida ed efficace la diffida ad adempiere un contratto preliminare di compravendita, intimata, per conto e nell'interesse del contraente, da persona fornita di un semplice mandato verbale, come pure quella sottoscritta da un falsus procurator, e successivamente ratificata dalla parte interessata.

 

Interpretazione del negozio

 

Spesso accade che le formule usate dalle parti per concludere l'operazione economica, siano esse formule verbali, oppure scritte, vengano intese in senso diverso dai contraenti.

Al momento dell'esecuzione del contratto A crede di dover operare in un modo, e B gli fa osservare che il contratto stabilisce un diverso modo di operare; oppure C consegna la cosa richiesta a D, e D la rifiuta perché (a suo parere) il contratto riguardava una cosa diversa. Spesso le formule usate sono oscure: ad esempio, il contratto di vendita di un appartamento, nel quale si precisa che l'alloggio confina ad est con un cortile da adibirsi a giardino, intende costituire una servitù a favore dell'acquirente, che impedisce l'uso dello spiazzo in modo diverso, o è soltanto una generica indicazione, che non impedisce al venditore di trasformare il cortile in un'autorimessa? Molti dei contrasti che nascono tra le parti al momento dell'esecuzione del contratto si riconducono alle parole equivoche, o al senso equivoco delle clausole.

 

Il legislatore ha introdotto alcune regole fondamentali, che arricchiscono quelle già previste dal Codice previgente. Si discuteva, un tempo, se queste norme fossero semplici regole di buon senso, o avessero effettivamente valore giuridico; oggi, il dubbio è superato: si tratta di norme giuridiche eguali alle altre, che vincolano il giudice chiamato ad interpretare il negozio.

Molti ritengono, e anche la prevalente giurisprudenza si muove in questo senso, che vi sia una gerarchia tra i criteri indicati: prima si deve ricercare la comune intenzione delle parti (interpretazione soggettiva); poi, se la ricerca è infruttuosa, si interpreta il negozio secondo buona fede e correttezza (interpretazione di buona fede); infine, se neppure questo criterio è utile, si fa luogo all'interpretazione delle singole clausole, o dell'intero negozio, in modo da attribuirgli il senso più congruo, sì che le clausole possano essere conservate, anziché esser prive di qualsiasi effetto (interpretazione oggettiva).

Nessuna norma, però, codifica il criterio di gerarchia; tutti i criteri sono pertanto disponibili da parte del giudice che si appresti a interpretare il contratto; solo la regola posta dall'art. 1371, Codice civile, si deve applicare dopo le altre, perché è indicata dal legislatore stesso come ultima risorsa ("regole finali").

Anche sulla classificazione in termini di interpretazione soggettiva e interpretazione oggettiva si possono sollevare critiche: è soggettiva l'interpretazione che fa riferimento al "comportamento complessivo delle parti" anche dopo la conclusione del contratto (art. 1362, secondo comma)? O piuttosto è oggettiva, perché consiste nell'interpretare ciò che oggettivamente appare all'esterno, negli atti delle parti? E' soggettiva l'interpretazione che dà un significato ad una clausola per mezzo delle altre? O non è piuttosto oggettiva, perché gli elementi oggettivi delle altre clausole reagiscono sulla interpretazione di quella dubbia?

Quando il negozio è chiaro e perfettamente percepibile, non si dà luogo all'interpretazione: vige infatti nell'ordinamento, anche se non codificato, il principio secondo il quale le cose chiare non comportano interpretazione.

Il giudice - dice la giurisprudenza - deve ricercare l'effettiva volontà delle parti: questa regola - osservata anche in altri ordinamenti, nei quali si dice che le Corti non possono "fare il contratto" per le parti - è espressione del dogma della volontà; se la volontà è incerta, non chiara, come potrebbe il giudice ricostruirla?

I canoni indicati dal legislatore sono molteplici; si indicano:

a) la ricerca della comune intenzione delle parti (art. 1362, primo comma, Codice civile); comune intenzione non significa interna volontà; la ricerca della volontà non può mai spingersi a quella che si definisce volontà psichica, non potendosi il giudice calare nell'interno dell'animo umano per sapere quel che effettivamente volesse dire la parte usando una formula equivoca o incerta. Significa piuttosto ricerca della volontà comune, cioè del risultato o del prodotto dell'incontro delle due dichiarazioni (cioè di quel che è apparso all'esterno, e poteva esser inteso da una persona di normale diligenza);

b) l'interpretazione secondo il comportamento tenuto anche dopo la conclusione del negozio;

c) la nozione di unità del negozio, che impone di non considerare le clausole isolatamente, ma nell'intero contesto dell'atto;

d) la specificazione delle clausole, dal momento che "per quanto generali siano le espressioni usate nel contratto, questo non comprende che gli oggetti sui quali le parti si sono proposte di contrattare" (art. 1364);

e) le indicazioni esemplificative, che non escludono i casi non espressi (art. 1365);

f) la conservazione del negozio per la quale "nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno" (art. 1367);

g) le pratiche generali interpretative, secondo le quali si deve tener conto di ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui il negozio è concluso;

h) l'interpretazione secondo la natura o l'oggetto del negozio (art. 1369);

i) l'interpretazione contro l'autore della clausola, secondo la quale quando una clausola è stata predisposta da una delle parti, essa, nel dubbio, si interpreta a favore dell'altra, per non danneggiarla doppiamente, dando una interpretazione a lei sfavorevole di una clausola che, predisposta dalla controparte, certamente è di per sè più favorevole alla controparte (art. 1370);

l) infine, quando il negozio rimane ancora oscuro, "esso deve essere inteso nel senso meno gravoso per l'obbligato, se è a titolo gratuito, e nel senso che realizzi l'equo contemperamento degli interessi delle parti, se è a titolo oneroso" (art. 1371).

Un ruolo del tutto particolare ha l'interpretazione secondo buona fede, il cui significato è incerto, e molto discusso; è in questo caso che il giudice ha il maggiore potere, perché è vincolato alla regola della correttezza, clausola generale alla quale il giudice può dare uno specifico contenuto sulla base delle norme dell'ordinamento, ma anche dei principi sociali, politici, morali, dell'epoca. Nell'interpretare il negozio secondo buona fede, il giudice deve tenere presente il parametro dell'uomo medio, per calcolare come avrebbe inteso un terzo le espressioni usate dalle parti; ma il giudice spesso penetra nel contenuto del negozio e lo modifica dandogli il senso meno incerto; nel far ciò deve tener conto del bilanciamento degli interessi operando in modo equo; ricostruendo la "volontà virtuale" riscrive il contratto per le parti. E nel far ciò opera con tecniche che si possono considerare anche integrative del regolamento negoziale, destinate cioè a colmare le lacune (c.d. interpretazione integrativa). Queste regole si applicano anche, con vari artifici, nell'esperienza inglese e tedesca, e dimostrano come venga eroso anche con le tecniche di interpretazione e di integrazione il dogma della volontà.

Le regole di interpretazione, dettate per i contratti, si possono applicare anche agli atti unilaterali (art. 1324); ma vi sono atti unilaterali che richiedono una diversa interpretazione: si pensi alla interpretazione del testamento, dove acquista particolare rilievo la ricostruzione della volontà del testatore; o al contratto di donazione, dove acquista particolare rilievo la volontà del donante.

Le regole, in altri termini, sono adattate alla natura dell'atto. Nel testamento, prevale l'interpretazione soggettiva anziché l'interpretazione oggettiva; le espressioni imprecise si chiariscono con la ricerca di qualsiasi elemento desunto anche da altri atti o scritti del defunto; si dà rilievo alle intenzioni del testatore, con una rilevante opera di integrazione; poiché non si applica il principio dell'affidamento e non si ha ragione di contemperare gli interessi tra le parti.

L'interpretazione degli atti amministrativi è parificata a quella dei contratti: si ha riguardo al loro contenuto sostanziale e non alla qualificazione data dall'Autorità amministrativa, tenendosi conto della funzione tipica degli atti Medesime regole si osservano per l'interpretazione dei contratti collettivi di lavoro.

Quando vi è contrasto sulla interpretazione di un negozio, le parti possono anche accordarsi sul suo significato, con una nuova manifestazione di volontà: si ha in tal caso un negozio interpretativo bilaterale, ordinato a enunciare con valore vincolante per le parti il contenuto del negozio anteriormente concluso, con l'effetto che, fondendosi le dichiarazioni enunciative con quelle primarie del negozio interpretato, quest' ultimo viene ad assumere dall'inizio il contenuto fissato dagli interpreti.

 

Integrazione del negozio

 

Integrare significa aggiungere, colmare, completare. A questa formula ricorre la legge quando stabilisce che "il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l'equità" (art. 1374, Codice civile).

Le parti non sono vincolate soltanto a quanto esse stesse hanno stabilito: il negozio è suscettibile di numerosi interventi dall'esterno; e quando è interpretato dal giudice, il regolamento riceve un significato che non si sa se corrisponda effettivamente a quel che ciascuna parte pensava, ma è quello che risulta oggettivamente e che può dare al negozio qualche effetto. Vi è quindi un divario tra il voluto dalle parti e gli effetti che il negozio realizza. Divario che si accentua nella integrazione, quando per effetto di legge, degli usi, o dell'equità, il negozio riceve modificazioni.

Integrazione significa completamento: quando le parti hanno lasciato incompleto il regolamento negoziale, la legge può intervenire: ad esempio, se non è indicato il compenso per una prestazione, si applicano le tariffe professionali (art. 1733); se le parti non hanno indicato il prezzo, si considera quello di mercato. Si seguono cioè le indicazioni che la legge stessa prescrive, ovvero gli usi, nella prassi dei rapporti negoziali simili, o, in mancanza di queste indicazioni, l'equità. Ma integrazione significa anche modificazione di clausole che le parti hanno inserito nel negozio in contrasto con norme imperative: è il caso di prezzi diversi da quelli stabiliti dalla legge; in questi casi, si ha sostituzione automatica della clausola e il negozio viene modificato in via autoritativa (art. 1339).

Quando l'art. 1374 indica la legge come prima fonte di integrazione, fa riferimento, come è ovvio, anche alla interpretazione secondo buona fede (art. 1366): in questo caso, integrazione e interpretazione, pur essendo due operazioni distinte, si intersecano; e si ha il fenomeno della interpretazione integrativa. In questo senso, l'interpretazione del giudice va certo al di là della individuazione del significato letterale delle parole usate nel negozio, penetra fino a modificare la struttura dell'affare; spesso si ricorre alla interpretazione (integrativa) per rendere compatibili le nuove circostanze che si sono verificate dopo la conclusione del negozio con i risultati che le parti volevano realizzare; l'interpretazione integrativa diviene allora uno strumento per realizzare il fondamento del negozio, cioè la causa, ripartendo il rischio contrattuale tra le parti secondo lo schema originario che esse avevano elaborato.

Come è evidente, l'integrazione non riguarda soltanto gli effetti del negozio, ma anche la sua conclusione. La dottrina distingue tra operazioni di autointegrazione, con le quali le parti mancanti del negozio si ricostruiscono utilizzando le clausole esistenti, e operazioni di eterointegrazione, con le quali gli elementi del negozio sono completati ricorrendo a documenti, atti, fatti esterni al negozio stesso (prezzo fissato per legge; documenti che contribuiscono ad accertare la volontà del testatore).

L'equità di cui fa menzione l'art. 1374 va intesa, secondo la giurisprudenza, non come richiamo a norme extragiuridiche, ma nel senso che il negozio deve esser valutato secondo criteri di logica giuridica.

 

Contratto a favore di terzi, contratto per persona da nominare, cessione del contratto

 

Contratto a favore di terzi

 

Nel contratto a favore di terzi si presenta l'eccezione più evidente al principio della relatività del contratto, e dell'efficacia negoziale circoscritta alle sole parti. Il contratto a favore di terzi è infatti il contratto con il quale una parte (promittente) si impegna nei confronti dell'altra (stipulante), ad eseguire la prestazione a favore del terzo. Si ha quindi un'obbligazione assunta dal promittente che produce i suoi effetti non tanto verso l'altra parte (come di solito avviene) ma verso un terzo, estraneo all'accordo.

Il rapporto tra stipulante e promittente è rapporto di provvista; lo stipulante di regola paga il promittente per fargli eseguire la prestazione. Il rapporto tra stipulante e terzo beneficiario è rapporto di valuta.

I contratti a favore del terzo sono numerosi nella prassi commerciale: il trasporto, l'assicurazione sulla vita, ne sono alcuni esempi. A affida 1 tonnellata di grano a B, perché la trasporti a C, che ha un'impresa alimentare; il contratto è a favore di C, perché la prestazione si svolge a favore di C (trasporto della merce al destinatario di essa); tra A e B si è stipulato un accordo (contratto di trasporto), di cui A e B soli sono le parti; A ha pagato per il trasporto; B si è impegnato a trasportare la merce al terzo (C). Oppure: M vuol lasciare alla moglie, quando sarà morto, oltre al suo patrimonio, anche una cospicua somma di danaro; stipula allora una assicurazione sulla vita: mensilmente versa il premio a N (assicuratore); alla sua morte, la somma prevista nella polizza sarà versata alla vedova.

Come risulta dagli esempi, il contratto a favore di terzo non è un "tipo" contrattuale, non è una figura che realizza una precisa operazione economica, ma è uno schema, che può essere adattato a numerose e diverse operazioni economiche; pertanto, la causa del contratto a favore di terzo è di volta in volta variabile, perché varia con l'operazione economica che le parti intendono concludere.

Poiché il terzo beneficiario nulla deve fare per acquisire la prestazione e il diritto alla prestazione si perfeziona nel momento in cui avviene l'accordo tra promittente e stipulante, il Codice stabilisce che la stipulazione a favore del terzo è valida solo quando lo stipulante vi abbia interesse (art. 1411, primo comma, Codice civile).

L'interesse, come accade in materia di obbligazioni (art. 1174) può essere patrimoniale, ma può essere anche morale (motivato da intenti di donare, gratificare, beneficare, il terzo).

Non è necessario che il terzo accetti la prestazione: egli acquista il diritto al momento della stipulazione; ma lo stipulante può revocare o modificare la stipulazione, dopo la conclusione dell'accordo: però se il terzo ha dichiarato di accettare la prestazione, anche nei confronti del promittente, lo stipulante non potrà più revocare nè modificare la stipulazione (art. 1411, secondo comma).

Nel caso in cui lo stipulante revochi la stipulazione, o il terzo rifiuti la prestazione, che accade della prestazione promessa dal promittente? Essa sarà eseguita a vantaggio dello stipulante, salvo che diversamente risulti dalla volontà delle parti o dalla natura del contratto (art. 1411, terzo comma).

Il rapporto tra promittente e terzo è un rapporto in base al quale il promittente deve eseguire la prestazione a favore del terzo, e il terzo ne è beneficiario; il promittente però può opporre al terzo le eccezioni fondate sul contratto dal quale il terzo deriva il suo diritto (ad es.: il contratto di assicurazione è nullo; oppure: lo stipulante non ha versato negli ultimi due anni i premi); non può proporre eccezioni fondate su altri rapporti tra stipulante e promittente (il promittente ha un credito nei confronti dello stipulante; lo stipulante si rifiuta di dare la somma che il promittente gli aveva consegnato, per farla pervenire al terzo).

 

Contratto per persona da nominare

 

Nel momento della conclusione del contratto, una parte può riservarsi la facoltà di nominare successivamente la persona che deve acquistare i diritti e assumere gli obblighi nascenti dal contratto stesso (art. 1401, Codice civile): A trova in vendita un appartamento a prezzo molto accessibile; allora lo acquista, riservandosi la facoltà di nominare successivamente (quando avrà trovato il cliente) il soggetto che è effettivo acquirente; non si tratta di semplice "prenotazione", ma di acquisto vero e proprio, che si produce direttamente in capo alla persona nominata. Si evita in tal modo il doppio trasferimento, dal venditore ad A e da A al cliente.

Non è però possibile che l'acquisto rimanga incerto: entro tre giorni (se le parti non hanno convenuto un termine diverso) deve essere nominata la persona che diventa acquirente. La dichiarazione non ha effetto se non è accompagnata dall'accettazione della persona nominata, o se non esiste una procura anteriore al contratto (art. 1402). Quando la dichiarazione di nomina è stata fatta validamente, la persona nominata acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dal contratto, con effetto dal momento in cui questo fu stipulato (art. 1404).

Se la dichiarazione di nomina non è fatta validamente nel termine stabilito dalla legge o dalle parti, il contratto produce i suoi effetti tra i contraenti originari (art. 1405). Ad esempio, se il cliente rifiuta, l'appartamento resterà nel patrimonio di A.

Di solito, il contratto per persona da nominare si inquadra nella rappresentanza indiretta (acquisto per conto altrui), nei confronti delle parti; i rapporti interni, cioè i rapporti tra il dichiarante e la persona nominata sono regolati dalla disciplina della rappresentanza volontaria e il contraente che si è riservato la facoltà di nomina assume la funzione di rappresentante del terzo nell'arco di tempo che corre dalla conclusione del contratto alla dichiarazione di nomina.

 

Contratto per conto di chi spetta

 

Talvolta la persona che è parte del contratto non viene nominata, o resta ignorata, perché verrà determinata successivamente; nel corso del tempo, però, la prestazione può diventare impossibile; allora il promittente è autorizzato a eseguirla a terzi, per conto dell'effettivo destinatario, o titolare del diritto; ad esempio, se A affida a B un carico di banane, e B non riesce a individuare il destinatario C (perché, ad es., ha mutato indirizzo), può vendere il carico al miglior offerente (per conto di C), versando poi il prezzo quando C sarà stato individuato. In tal caso si ha contratto per conto di chi spetta.

 

Cessione del contratto. Sub-contratto. Successione nel contratto

 

Può avvenire che una delle parti che ha concluso un determinato contratto voglia cedere l'affare ad altri; in tal caso, anzi che recedere dal contratto (se possibile), e proporre alla controparte di far subentrare il terzo, dando luogo ad un nuovo contratto, può sostituire a sè il terzo. Vi è allora un accordo trilaterale, che dà luogo alla cessione; all'accordo partecipa il cedente, la controparte (contraente) e il terzo (cessionario).

La cessione del contratto differisce quindi dalla cessione del credito per due aspetti rilevanti: comporta l'acquisto di diritti e di obblighi, perché il cessionario si sostituisce completamente nella posizione del cedente (mentre nella cessione del credito, subentra solo in un rapporto di credito); inoltre, perché il terzo partecipa all'accordo, e la sua volontà è determinante per la conclusione di esso, mentre il debitore ceduto, nella cessione del credito, non esprime una volontà e non partecipa all'accordo.

La cessione non può avvenire in ogni caso: occorre che il contratto sia a prestazioni corrispettive e che le prestazioni non siano state ancora eseguite (art. 1406, Codice civile). Nella vendita, ad esempio, il contratto non può esser ceduto dal compratore, qualora questi non abbia ancora pagato il prezzo, ma il venditore gli ha però già consegnato la cosa E' evidente che i contratti a titolo gratuito, che prevedono prestazioni senza corrispettività, non possono essere ceduti.

 

La cessione del contratto per sua natura è liberatoria: una volta che l'accordo si è concluso, il cedente nulla più deve al ceduto, a meno che il ceduto abbia dichiarato di non liberare il cedente; in tal caso può agire nei confronti del cedente se il cessionario è inadempiente (art. 1408). Il ceduto può opporre al cessionario tutte le eccezioni che derivano dal contratto (es. vizi della cosa) ma non quelle fondate su altri rapporti con il cedente (es. compensazione: art. 1409). Per parte sua, il cedente è tenuto a garantire la validità del contratto (art. 1410).

Si discute in dottrina sulla natura giuridica della cessione del contratto. La teoria prevalente ritiene che la cessione del contratto sia un accordo trilaterale e unitario; vi è invece chi ritiene che nella cessione del credito si uniscano due negozi diversi: la cessione del credito e l'accollo di debiti. La giurisprudenza ritiene fondata la prima tesi.

Dalla cessione del contratto deve essere distinto il sub-contratto, con il quale uno dei contraenti stipula separatamente con un terzo un contratto, trasferendogli in parte o in toto le prestazioni che al primo derivano dal contratto precedente. E' assai diffusa la sub-locazione, il contratto con cui il conduttore loca ad altri parte dei vani che egli stesso tiene in locazione. Il sub-contratto dipende dal contratto principale: la risoluzione, la nullità, l'annullamento del contratto principale reagiscono sul sub-contratto determinandone la cessazione degli effetti.

La legge sull'equo canone disciplina espressamente la sub- locazione (art. 2, legge n. 392 del 1978). Il conduttore non può sublocare totalmente l'immobile, nè può cedere ad altri il contratto senza il consenso del locatore. Salvo patto contrario, il conduttore ha la facoltà di sublocare parzialmente l'immobile, previa comunicazione al locatore con lettera raccomandata che indichi la persona del subconduttore, la durata del contratto e i vani sublocati.

Previsioni particolari sono contenute nella legge sull'"equo canone" con riguardo agli immobili adibiti ad uso non abitativo (negozi, alberghi, uffici ecc.). L'art. 36 della legge dispone infatti che "il conduttore può sublocare l'immobile o cedere il contratto di locazione anche senza il consenso del locatore, purché venga insieme ceduta o locata l'azienda, dandone comunicazione al locatore mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento. Nel caso di cessione, il locatore, se non ha liberato il cedente, può agire contro il medesimo, qualora il cessionario non adempia le obbligazioni assunte".

Si ha successione nel contratto quando una delle parti muore, e il contratto dispiega i suoi effetti nei confronti degli eredi, cioè dei successori, della parte venuta meno. Il Codice civile non prevede regole generali sulla successione nel contratto, perché il contratto, come rapporto che crea diritti e obblighi in capo alle parti, rientra nell'attivo e nel passivo dell'asse ereditario, come ogni altro cespite di guadagno, i beni e gli obblighi di cui il defunto era il titolare.

Vi sono però regole particolari, che disciplinano la successione in particolari contratti, ovvero danno disposizioni per particolari rapporti. Ad esempio, non si trasmettono per successione, cioè non dispiegano effetti nei confronti dei successori, i contratti fatti intuitu personae, cioè fondati sulle particolari qualità della persona, che potrebbero anche non sussistere in capo al successore (ad es. il mandato, art. 1722, Codice civile); non si trasmette la procura, che si estingue con la morte del rappresentante o con la morte del rappresentato: l'offerta e l'accettazione perdono efficacia per la morte della parte avvenuta prima della conclusione del contratto.

Vi sono casi in cui la successione è prevista dalla legge per agevolare la prosecuzione dell'attività d'impresa: il mandato, che ha per oggetto il compimento di atti relativi all'esercizio di un'impresa, non si estingue se l'esercizio dell'impresa è continuato, salvo il diritto di recesso delle parti o degli eredi (art. 1722, n. 4). Così accade per la proposta e per l'accettazione dell'imprenditore (art. 1330).

Per i contratti di locazione di immobili ad uso non abitativo la legge sull'equo canone dispone che "in caso di morte del conduttore, gli succedono nel contratto coloro che, per successione, o per precedente rapporto risultante da atto di data certa anteriore alla apertura della successione, hanno diritto a continuarne l'attività" (art. 37, legge n. 392 del 1978). Regole analoghe sono previste per la titolarità degli alloggi economici e popolari; ma la successione nel rapporto può avvenire solo se già è avvenuto il riscatto dell'alloggio da parte dell'assegnatario.

 

Esecuzione del contratto e attuazione del rapporto obbligatorio

 

Eseguire il contratto significa dare attuazione alle obbligazioni che ciascuna parte ha assunto con la sua conclusione, adempiere, quindi, le prestazioni dedotte in obbligazione. Anche per la fase dell'esecuzione, così come per le trattative, la condizione e l'interpretazione, vale la regola del comportamento secondo buona fede: "il contratto deve essere eseguito secondo buona fede" (art. 1375, Codice civile).

Non è sempre facile accertare se il comportamento delle parti è conforme a correttezza; si consideri questo caso: A è concessionario di una vendita con esclusiva; allo spirare del contratto è normale che A possa vendere ancora un pò di prodotti, dal momento che la circolazione dei prodotti avviene in modo più lento rispetto ai tempi contrattuali; è però conforme a correttezza l'ordinazione da parte del concessionario esclusivo di una grande quantità di prodotti, superiore alla somma complessiva dei prodotti prima acquistati, proprio nell'imminenza della scadenza del contratto? Questo comportamento non sembra conforme a correttezza, perché implica che anche dopo la scadenza, il concessionario continuerà a vendere i prodotti in esclusiva, non avendone più il diritto.

La mancata o tardiva o inesatta esecuzione del contratto comporta inadempimento.

L'esecuzione del contratto costituisce uno degli aspetti più rilevanti dell'attuazione del rapporto obbligatorio, cioè della realizzazione dell'interesse del creditore mediante il comportamento del debitore. Nel contratto bilaterale entrambi i contraenti sono rispettivamente debitori di una prestazione e creditori di un'altra prestazione; nei contratti unilaterali e negli atti unilaterali le prestazioni sono a carico di una sola delle parti (promesse unilaterali).

In ogni caso, comunque, occorre adempiere l'obbligazione assunta del contratto. Il Codice civile disciplina in modo molto dettagliato l'adempimento delle obbligazioni.

Adempimento dell'obbligazione, o attuazione del rapporto obbligatorio sono espressioni simili per indicare la medesima situazione, che è quella dell'esecuzione della prestazione oggetto dell'obbligazione.

Sia che la prestazione sia di dare, oppure di fare, la sua esecuzione adempie l'obbligazione assunta dal debitore; se il debitore aveva assunto l'obbligazione (negativa) di non fare, il suo comportamento attuativo consisterà nell'astenersi dal fare per il periodo richiesto (non alzare il suo edificio di un piano, non aprire luci e vedute, non utilizzare le fonti di energia del fondo vicino, cui pure aveva diritto ecc.). La situazione opposta è l'inadempimento, o l'inattuazione del rapporto obbligatorio. In questo caso vi è responsabilità del debitore, cioè la sanzione, pecuniaria, con la quale l'ordinamento punisce il debitore e risarcisce il creditore.

Destinatario dell'adempimento è il creditore, o la persona da lui indicata, o quella indicata dal giudice per il pagamento. Al creditore, di solito, non interessa che sia il debitore personalmente ad adempiere l'obbligazione, essendo suo interesse la realizzazione del credito.

Solo in casi di eccezione, l'adempimento deve esser fatto proprio esclusivamente dal debitore; ciò accade quando il debito è personalissimo (alimenti), oppure l'obbligazione è sorta da un contratto intuitu personae, ossia stipulato in considerazione delle particolari qualità del debitore, non fungibili (opera d'arte, prestazione artistica, prestazione professionale ecc.).

Negli altri casi, l'adempimento può avvenire ad opera del terzo, anche contro la volontà del creditore, se questi non ha interesse a che il debitore esegua personalmente la prestazione (art. 1180, Codice civile). Il creditore può però rifiutare la prestazione del terzo, se il debitore non è d'accordo, avendo egli interesse ad eseguirla personalmente (art. 1180, secondo comma).

L'adempimento è un atto meramente esecutivo, consiste in una prestazione che non implica una manifestazione di volontà del debitore, ma soltanto un atto di dare, di fare, l'astensione dal fare. In questo senso, le regole che lo disciplinano divergono da quelle che disciplinano gli atti unilaterali e i contratti. Ad esempio, l'adempimento fatto da persona incapace (legale o naturale) è valido (art. 1191).

E' importante stabilire quando deve essere adempiuta l'obbligazione, e dove.

Se non si rispetta il termine perentorio (ad es. restituzione della somma avuta a mutuo alla fine dell'anno; restituzione della cosa comodata alla fine del mese; esecuzione dell'appalto entro 90 giorni ecc.) il debitore è inadempiente, e vengono in opera i rimedi automatici: clausola risolutiva espressa (art. 1456); termine essenziale (art. 1457), o giudiziali stabiliti a sanzione del debitore.

Di solito sono le parti a stabilire il termine dell'adempimento, tale essendo l'interesse del creditore, che vuol porre limiti di tempo al debitore; ma anche l'interesse del debitore, che si voglia liberare dall'obbligazione.

Se non è determinato il tempo in cui la prestazione deve essere eseguita, il creditore può esigerla immediatamente. Qualora tuttavia, in virtù degli usi o per la natura della prestazione, ovvero per il modo o il luogo dell'esecuzione, sia necessario un termine, questo, in mancanza di accordo delle parti, è stabilito dal giudice (art. 1183).

Se il termine per l'adempimento è rimesso alla volontà del debitore, spetta egualmente al giudice di stabilirlo secondo le circostanze (art. 1183); il giudice farà riferimento agli usi, o alle circostanze. Ad esempio, se nel contratto si stabilisce che la prestazione deve avvenire "nel più breve tempo possibile", il debitore non potrà lasciar trascorrere un periodo di tempo superiore a quello che le normali circostanze richiedano (così fu deciso in presenza di una fattispecie nella quale il debitore doveva costruire un edificio e vendere poi l'immobile al creditore, dovendo richiedere anche la licenza edilizia; la licenza fu richiesta soltanto dopo due anni, prolungandosi così eccessivamente l'attesa del creditore). Se il termine è rimesso alla volontà del creditore, può essere fissato su istanza del debitore che intende liberarsi (art. 1183).

Se le parti hanno fissato un termine, questo si presume a favore del debitore (art. 1184), se non risulta che era stato stabilito a favore del creditore o di entrambi. Il creditore non può esigere la prestazione prima che il termine sia scaduto (ad es., non può presentare la cambiale prima del giorno di scadenza), a meno che il termine non sia indicato a suo favore (art. 1185). Se il debitore paga prima della scadenza, non può ripetere quanto ha pagato (art. 1185); se però il creditore si è arricchito per il pagamento anticipato, al debitore spetterà (ove la richieda) la somma corrispondente alla perdita subita (art. 1185). Infine, se il termine è fissato a favore del debitore, ma questi risulta insolvente prima della scadenza, il creditore può esigere immediatamente la prestazione (art. 1186); rimedio che si accorda anche quando il debitore diminuisce, per fatto proprio, le garanzie che aveva date (vende la cosa ipotecata; fa cospicue donazioni; spoglia il patrimonio di immobili) o non dà le garanzie promesse (art. 1186: decadenza del termine).

Il termine si calcola, di solito, in mancanza di usi o patti appositi diversi, secondo il dettato dell'art. 2963; non si calcola il giorno nel corso del quale cade il momento iniziale; se il termine scade nel giorno festivo, è prorogato al giorno seguente non festivo.

Il luogo dell'adempimento è quello indicato dall'atto di assunzione dell'obbligazione (contratto, atto unilaterale, disposizione testamentaria ecc.) o dagli usi; in mancanza si seguono le indicazioni derivanti dalla natura della prestazione o da altre circostanze. Se anche con questi criteri non si può stabilire il luogo, la legge prevede tre ipotesi: che l'obbligazione sia di dare una cosa certa e determinata; che sia di pagare una somma di danaro; che riguardi altri casi. Nella prima ipotesi il luogo è quello in cui si trova la cosa al sorgere dell'obbligazione (c.d. obbligazione què rable); nella seconda il luogo è il domicilio del creditore al momento della scadenza (se però esso è diverso da quello del momento dell'origine dell'obbligazione, il debitore può pagare al proprio domicilio, sempre che il mutamento non risulti per lui troppo gravoso: c.d. obbligazione portable). Infine, negli altri casi, l'adempimento avviene al domicilio del debitore al momento della scadenza (art. 1182).

Particolare rilievo dà il Codice ad un modo di adempimento delle obbligazioni di dare, cioè al pagamento.

Nella pratica, le obbligazioni di dare sono le più frequenti (si pensi alle obbligazioni che gravano sul compratore, al quale spetta il pagamento della cosa acquistata). Il pagamento deve essere fatto al creditore, o al suo rappresentante o a persona da lui indicata, o autorizzata dalla legge o dal giudice a riceverlo. Se è fatto a persona diversa, non legittimata a riceverlo, il pagamento libera il debitore se il creditore lo ratifica (cioè, dà il suo assenso) o ne ha approfittato (art. 1188). Se il debitore paga a chi è in apparenza legittimato a ricevere il pagamento, è liberato; occorre però che il debitore fosse in buona fede (intesa in senso soggettivo, cioè intenzione di non ledere il diritto altrui), e credesse di bene operare: è il caso del pagamento a chi si dice rappresentante del creditore, e produce documenti falsi, a chi sembra titolare del rapporto, e così via (art. 1189). Chi ha ricevuto indebitamente il pagamento è tenuto a restituire la somma al creditore: altrimenti il creditore sarebbe pregiudicato, visto che il pagamento al creditore apparente è liberatorio (art. 1189, secondo comma).

Il pagamento al creditore incapace non è liberatorio: il debitore potrebbe profittare della incapacità per eseguire, inesattamente o tardivamente, la prestazione; è liberatorio solo se il debitore prova che ciò che fu pagato è stato rivolto a vantaggio dell'incapace (art. 1190).

Il debitore può anche pagare con cose altrui (ovviamente, rendendosene poi effettivo acquirente: vedi la vendita di cosa altrui, art. 1478); il debitore non può però impugnare (cioè, chiedere l'annullamento) del pagamento fatto con cose altrui, di cui non ha la disponibilità, a meno che offra di eseguire la prestazione con cose di cui può disporre (art. 1192).

Regole particolari riguardano il pagamento di più debiti (art. 1193), l'imputazione del pagamento agli interessi (art. 1194), la quietanza (art. 1195) e le spese (art. 1196).

Anziché adempiere, il debitore può liberarsi con una prestazione diversa da quella pattuita: ma solo se il creditore vi consente, dal momento che egli deve realizzare il proprio interesse con l'adempimento del debitore. Il consenso è necessario anche se la prestazione diversa deve essere di valore eguale o maggiore; l'obbligazione si estingue quando la prestazione diversa è eseguita (c.d. dazione in pagamento, o datio in solutum, art. 1197). Il debitore può, in luogo dell'adempimento diretto, cedere anche un credito che egli vanti nei confronti di altri; l'obbligazione allora si estingue con la riscossione del credito, se le parti non hanno diversamente stabilito (artt. 1198 e 1267, Codice civile). Una volta pagato il debito, il debitore ha diritto ad averne certificazione da parte del creditore (quietanza); a sua volta, il creditore deve considerare la liberazione dei beni dalle garanzie (estinzione del pegno, dell'ipoteca ecc.) e da ogni altro vincolo che limiti la disponibilità dei beni del debitore (art. 1200).

Si può anche avere sostituzione nel pagamento (o, come dice la legge, pagamento con surrogazione). La surrogazione può avvenire per volontà del creditore, che riceva il pagamento da un terzo (art. 1180); in tal caso, il terzo, se così vuole il creditore, subentra nei suoi diritti verso il debitore (art. 1201). Può avvenire anche per volontà del debitore: il debitore A deve pagare una somma a B allora prende in prestito la somma da C e paga B così facendo, può disporre che C subentri nei diritti di B, anche se non è d'accordo; poiché ha ricevuto il pagamento, B non può opporsi (art. 1202).

A questi casi di surrogazione volontaria si affiancano i casi di surrogazione stabilita dalla legge (surrogazione legale: art. 1203). E' il caso del creditore che paga altro creditore dello stesso debitore, per potersi surrogare nei suoi diritti; così facendo, elimina un creditore che gli doveva essere preferito, perché assistito, ad esempio, da privilegio, da pegno, da ipoteca. E' il caso dell'acquirente, che paga i creditori del venditore, che avevano acceso ipoteca sul bene; o ancora il caso del debitore solidale, e dell'erede che paga con danaro proprio i debiti ereditari (ma vi sono anche altri casi: v. artt. 756, 1796, secondo comma, 2036, terzo comma, 2856, 2866, 2869, 2871, Codice civile). Dal pagamento con surrogazione si distingue la surrogazione reale: nel pagamento vi è sostituzione del creditore, e il debitore paga ad altri che non sia il suo creditore originario; nella surrogazione reale vi è sostituzione dell'oggetto dato in pagamento. Si ha questa ipotesi quando la prestazione è divenuta impossibile, ad esempio per la perdita della cosa, e alla cosa si sostituisce la somma pari al suo valore (art. 2742 e, in generale, art. 1259).

Può accadere che il debitore paghi un debito non dovuto, perché inesistente, o perché sorto da un rapporto invalido; oppure paghi un debito a un creditore diverso dal creditore effettivo. In queste due ipotesi (pagamento dell'indebito oggettivo e pagamento dell'indebito soggettivo) si ha uno spostamento di ricchezza non giustificato da alcuna causa. Quanto è stato indebitamente pagato può essere recuperato dal debitore: si ha ripetizione (dal latino repetere, chiedere in restituzione) dell'indebito. La disciplina del pagamento dell'indebito e della sua ripetizione, però, pur uniformandosi a questi principi di natura pratica, è piuttosto circostanziata.

Per l'indebito oggettivo il Codice dispone che "chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda" (art. 2033).

 

Spetta al debitore dimostrare in giudizio che la somma pagata non era dovuta: che mancava, in altri termini, la causa del pagamento (c.d. causa solvendi:.

Il creditore deve invece dimostrare che il pagamento è avvenuto sulla base di un rapporto contrattuale valido. Ma si ha pagamento dell'indebito anche quando il debitore, che pure ha un debito nei confronti del creditore pagato, ha versato la somma per il pagamento di un debito diverso da quello che intendeva estinguere; occorre quindi anche un collegamento causale tra il pagamento effettuato e il debito estinto.

In sostanza, l'azione per ottenere la restituzione della somma indebitamente pagata è un'azione di nullità intesa a rendere privo di effetti l'atto del pagamento; la nullità discende dalla mancanza di causa; e non è neppure necessario indagare se vi sia stato un errore scusabile da parte del debitore dato il carattere oggettivo della nullità.

Questi aspetti rendono assai diversa l'ipotesi del pagamento dell'indebito oggettivo da quella di arricchimento senza causa; l'azione di arricchimento senza causa, infatti, non esclude di per sè che vi possa essere una causa nell'arricchimento (anzi, la causa è gratuita, e non onerosa, e pertanto rende "ingiusto" l'arricchimento); vi deve essere poi un danno a carico del creditore, ed un arricchimento a favore del debitore; infine, l'azione di arricchimento ha un carattere del tutto sussidiario.

Nella prassi, numerose sono le ipotesi di indebito oggettivo: il pagamento di canoni di locazione superiore a quelli prestabiliti dalla legislazione sull'equo canone; il pagamento di una cambiale sulla base di una firma falsa; il pagamento indebito di assegni familiari da parte di chi non vi è obbligato; il pagamento da parte del garante di un debito altrui, sulla base di un rapporto di garanzia invalido; il pagamento di somme eseguito sulla base di un contratto nullo e così via.

Per l'indebito soggettivo il Codice dispone che "chi ha pagato un debito altrui credendosi debitore in base a un errore scusabile può ripetere ciò che ha pagato sempre che il creditore non si sia privato in buona fede del titolo o delle garanzie del credito" (art. 2036).

L'ipotesi che il Codice considera riguarda il caso in cui il debitore paga una somma al creditore credendo di esser debitore, nei suoi confronti; ma vi è anche un'altra ipotesi di indebito soggettivo, cui la norma non si applica estensivamente: è il caso in cui il debito di chi ha eseguito il pagamento esiste, ma non verso colui che lo ha ricevuto, bensì verso un altro creditore; in questo caso, si ricade nell'indebito oggettivo (e si applica quindi l'art. 2033:.

La differenza tra le ipotesi di indebito è rilevante, perché nell'indebito soggettivo le possibilità di ripetizione sono più ridotte. Perché il debitore sia ammesso a ripetere ciò che, credendosi debitore, ha pagato, occorre che egli provi di aver versato per un errore scusabile e che chi ha ricevuto non si sia privato del titolo (dal quale derivava il suo diritto di credito) in buona fede.

Vi sono poi alcune norme comuni che regolano le conseguenze dell'indebito. Chi ha ricevuto indebitamente una cosa determinata è tenuto a restituirla (art. 2037). Se la cosa è perita per caso fortuito, occorre distinguere se il ricevente era in buona o in mala fede; solo nella seconda ipotesi è tenuto a corrisponderne il valore (mentre nella prima ipotesi risponde solo nei limiti di quanto la cosa gli ha fruttato).

Che accade se chi riceve indebitamente una cosa, la aliena a terzi? Anche qui si distingue tra ricevimento in buona o in mala fede.

Se il ricevente è in buona fede, e ha alienato la cosa prima di conoscere l'obbligo di restituirla, è tenuto a restituire il corrispettivo avuto; se il corrispettivo deve esser ancora versato, chi ha dato indebitamente la cosa subentra nel diritto dell'alienante; nel caso di alienazione a titolo gratuito, il terzo acquirente è obbligato, nei limiti del suo arricchimento, verso colui che ha pagato l'indebito (art. 2038, primo comma).

Se il ricevente era in mala fede e ha alienato la cosa, è tenuto a restituirla in natura o a corrisponderne il valore; colui che ha pagato l'indebito può però esigere il corrispettivo dell'alienazione e può anche agire direttamente per conseguirlo. Se l'alienazione è stata fatta a titolo gratuito, l'acquirente è obbligato nei limiti dell'arricchimento, verso colui che ha pagato l'indebito, sempre che l'alienante sia stato inutilmente escusso (cioè, sempre che il debitore senza causa non si sia soddisfatto sul suo patrimonio): così dispone l'art. 2038, secondo comma.

L'incapace che ha ricevuto l'indebito, anche in mala fede, è tenuto solo nei limiti in cui ciò che ha ricevuto è stato rivolto a suo vantaggio (art. 2039).

Non sempre è ammessa la ripetizione di quanto è stato pagato indebitamente. Se si è pagato un debito non fondato su una obbligazione civile, ma su una obbligazione naturale, per motivi di morale, di religione, di vincolo sociale o affettivo, quanto è stato pagato non si può più recuperare (c.d. soluti retentio: art. 2034); l'unica eccezione prevista è che il pagamento sia stato fatto da un incapace. Sono numerose le ipotesi di adempimento di una obbligazione naturale; esse riguardano, oltre che la somministrazione di 1,6 denaro o di cose di pregio alla convivente more uxorio, il pagamento di debiti prescritti (e pertanto non più esigibili da parte del creditore); il pagamento di debiti di gioco; il pagamento spontaneo di interessi elevati, e così via.

Non si può neppure ripetere quanto è stato dato per uno scopo che costituisce offesa al buon costume (prestazione immorale) purché lo scopo fosse comune anche al debitore; è preferito chi possiede, attualmente, la somma pagata (art. 2035); la regola deriva da una antica tradizione; con l'espressione buon costume, come si è detto, non si intende solo il complesso dei principi relativi alla morale sessuale, ma più in generale i principi etici che fondano la morale sociale.

Non si deve confondere il pagamento dell'indebito con l'adempimento da parte del terzo: nel caso in cui taluno paghi spontaneamente un debito altrui, con la consapevolezza che il debitore è un'altra persona, si ha adempimento da parte del terzo, adempimento che può giustificare una richiesta di rimborso verso l'obbligato ma non l'azione di ripetizione verso il creditore così soddisfatto.

Chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un'altra persona, è tenuto, nei limiti dell'arricchimento, a indennizzare quest' ultima della correlativa diminuzione patrimoniale (art. 2041). Questa norma non deve ingenerare equivoci: il Codice non considera le ipotesi in cui l'arricchimento deriva da un affare fortunato, oppure dalla scarsa consapevolezza di una delle parti, o da fortuite circostanze (arricchimento di commercianti in periodo di difficoltà economiche, arricchimento di industriali per le commesse belliche, arricchimento di concorrenti per la congiuntura favorevole del mercato, e così via). nè considera le ipotesi in cui vi è sproporzione tra le due prestazioni, sì che una parte trae maggiori vantaggi dall'affare di quanto non ne tragga l'altra; anche in questo caso, non esistendo nel nostro ordinamento un principio di equivalenza delle prestazioni, l'arricchimento è perfettamente lecito. La norma riguarda soltanto gli arricchimenti ingiusti, cioè "non giustificati"; perché siano giustificati occorre che alla base dello spostamento vi sia un titolo, una giusta causa (contratto oneroso, donazione, testamento ecc.).

Questa azione è concessa solo in via subordinata e sussidiaria, quando chi ha subito il danno, e si è impoverito, non ha potuto esercitare altre azioni (art. 2042). Le ipotesi ricorrenti sono quelle in cui l'impoverito non ha potuto esercitare un'azione perché si è prescritta nel frattempo, o perché la cosa che voleva recuperare è perita; spesso, è il Codice che dispone che all'impoverito sia corrisposta una indennità (ad es. al possessore e all'usufruttuario in caso di miglioramenti apportati al bene).

Qualora l'arricchimento abbia per oggetto una cosa determinata, colui che l'ha ricevuta è tenuto a restituirla in natura, se sussiste al tempo della domanda (art. 2041, secondo comma); se la cosa non esiste più, o è stata alienata a terzi, l'arricchito dovrà soltanto corrisponderne il valore all'impoverito. Questa regola potrebbe apparire utile a quanti intendano realizzare uno scambio ad ogni costo: l'impoverito potrebbe aver convenienza a spogliarsi della cosa, per averne il prezzo dall'arricchito; si avrebbe allora uno scambio imposto (e un arricchimento imposto), che contrasta con le regole della libertà contrattuale; di qui il divieto di arricchimenti imposti.

 

La trascrizione del contratto preliminare

 

Il DL 31-12-1996, n. 669 convertito in legge 28-2-1997, n. 30 (GU 1-3-1997, n. 50) ha novellato il codice civile con alcune disposizioni concernenti il contratto preliminare: l'art. 2645 bis (trascrizione di contratti preliminari); l'art. 2668, cui si è aggiunto un secondo comma (sulla cancellazione della trascrizione del preliminare); l'art. 2659, in cui si è sostituto il n. 4 del primo comma; l'art. 2825 bis (ipoteca sul bene oggetto di contratto preliminare); l'art. 2775 bis (credito per mancata esecuzione di contratti preliminari), all'art. 2780, dopo il n. 5 si è aggiunto il n. 5 bis; il DL cit. ha modificato poi numerose disposizioni contenute nelle leggi speciali.

Le disposizioni citate sono inserite in un "contenitore normativo" concernente la materia tributaria, finanziaria e contabile a completamento della manovra di finanza pubblica per il 1997. Poiché all'atto della trascrizione si versano somme a titolo d'imposta, l'estensione della categoria degli atti trascrivibili comporterà un aumento del gettito, di cui il legislatore si è preoccupato per risanare il bilancio, per ridurre il debito pubblico e per agevolare l'ingresso del Paese nell'area degli accordi monetari comunitari.

Con queste disposizioni si è modificato non solo il principio secondo il quale si debbono trascrivere solo i contratti ad effetti traslativi (salvo rarissime eccezioni come la locazione ultranovennale), ma anche la nozione e la funzione del contratto preliminare. Invero sulla possibilità di trascrivere il preliminare si erano pronunciati de iure condendo diversi autori: l'esigenza avvertita riguardava il conflitto fra i più promissari, e la tutela del promesso acquirente in caso di fallimento del promittente venditore.

La trascrizione non riguarda tutti i contratti preliminari, ma solo quelli che hanno ad oggetto la conclusione di contratti definitivi comportanti la costituzione, la modificazione o l'estinzione di diritti reali sugli immobili; nell'ambito di questa più ristretta categoria, si considerano trascrivibli anche i contratti preliminari sottoposti a condizione o aventi ad oggetto (contratti definitivi relativi a) fabbricati da costruire o in corso di costruzione. Per poter essere trascritto il preliminare deve essere stipulato con scrittura autenticata o con atto pubblico. Si può iscrivere ipoteca su terreno e fabbricato in corso di costruzione, oppure solo sul fabbricato in corso di costruzione.

La legge citata dispone che i contratti preliminari devono essere trascritti se risultano da atto pubblico o da scritture private con sottoscrizione autenticate o accertate giudizialmente. La trascrizione del preliminare comporta la prevalenza di chi trascrive per primo sia su chi abbia trascritto successivamente altro preliminare sia su chi abbia trascritto successivamente il contratto definitivo di compravendita. Diventa quindi superflua e inutile la trascrizione della domanda giudiziale per inadempimento del preliminare. Alla trascrizione del preliminare - che funziona quindi come una sorta di prenotazione sul trasferimento della proprietà - deve seguire, entro tre anni, la trascrizione del contratto definitivo o della domanda per l'esecuzione specifica. Se ciò non accade, i trasferimenti trascritti successivamente alla data di trascrizione dei preliminari diventano operanti. I crediti del contraente che ha subito l'inadempimento hanno privilegio sul bene oggetto del definitivo; tale privilegio vale anche in caso di fallimento del promittente venditore. Se il curatore opta per lo scioglimento del contratto.

I primi commenti - pur con tutte le cautele dettate da testi normativi non sempre felicemente formulati - sono favorevoli (De Nova, Di Majo, Mariconda). Si è osservato che la nuova disciplina "normalizza" il trattamento del preliminare. In altri termini, impedisce al proprietario di disporre dell'immobile diversamente da quanto richiesto per l'adempimento del preliminare, concludendo altro preliminare, o addirittura il contratto definitivo, con terzi. Il preliminare, inoltre, in certo senso anticipa gli effetti del definitivo, perché il proprietario è obbligato ad alienare il bene, mediante il definitivo, al primo promissario. Sicché pur mantenendo effetti obbligatori, il preliminare diviene persino più rilevante del definitivo, che finisce per essere un contratto di "regolarizzazione" o di "esecuzione" del preliminare.

Allo stato si ignora se e in che misura i privati ricorreranno alla trascrizione del preliminare; ciò perché agli effetti vantaggiosi che essa assicura rafforzando il vincolo obbligatorio si sono congiunti effetti fiscali che non sempre i privati apprezzano. La prassi di dichiarare nel preliminare il prezzo effettivo e nel definitivo un prezzo inferiore (ma congruo, cioè contenuto nei valori catastali) potrebbe rimanere inalterata, ma ciò comporterebbe la scelta di non trascrivere il preliminare in quanto in esso il prezzo contenuto sarebbe reso pubblico, e trasparente all'Amministrazione finanziaria; oppure le parti potrebbero redigere contratti preliminari a preliminari, sfidando però la giurisprudenza che li ritiene nulli per indeterminatezza dell'oggetto, oppure ancora potrebbe indurre le parti a redigere preliminari con prezzo simulato, con tutte le conseguenze che questa scelta comporta.

 

 

 

Fonte: IPSOA - I contratti - profili giuridici e operativi - Riproduzione integrale